Non c’è più il treno del sole.
TreniItalia, da qualche giorno, l’ha soppresso. Passa oramai alla storia il
primo collegamento continuo dal Sud al Nord. Erano gli anni ’50 del secolo
scorso, e le ferrovie dello Stato inventarono il treno del sole. Fu una
necessità per soddisfare “meglio” il viaggio dalla Sicilia all’ambito Nord. Il
treno era soprattutto utilizzato dagli emigranti. Voglio ricordare che gli anni
’50, ’60 e parte dei ’70, hanno registrato il grande boom dell’emigrazione
interna. Dalla Sicilia, Calabria, Lucania, Campania a migliaia scappavano dalla
miseria e povertà del Sud. Interi nuclei familiari salivano sul treno del sole
per raggiungere Torino, Milano Genova o altre destinazioni del Nord. Erano in
gran parte braccianti e contadini, molti analfabeti o semianalfabeti, che
disperati ma con tanta speranza cercavano un futuro. Scappavano dalla fame e
dalle profonde ingiustizie sociali. Scappavano salendo sul treno del sole, laceri
e con null’altro che le braccia e la valigia di cartone. I bambini dal viso
tenero, sparuto, preoccupato, stavano in braccio alle mamme, che erano, quando
si trovava posto, sedute su i sedili di legno (terza classe). Partiva la gente
del Sud, con il pianto, non solo nel cuore, ma sul viso. Andava verso quell’avvenire
che la loro terra non gli aveva dato. Il treno del sole rappresentava la corsa
verso la vita. Una corsa che durava, quando andava bene, circa ventisei ore. Il
treno partiva da Siracusa per un viaggio pieno di sofferenze e disagi. Il treno
del sole degli anni 50/60 era in sostanza privo di ogni confort. Si saliva “all’arrembaggio”,
e conquistare un posto era difficile, molto difficile. In tanti, per tutto il
tempo del viaggio, restavano in piedi o buttati a terra. Ma il treno del sole
era il mezzo di fuga dalla non vita. Ma quella non vita che si lasciava erano,
però, gli affetti, i luoghi vissuti, gli amici. Il treno del sole, che ora non
c’è più, è, in ogni caso, parte importante della storia del Sud. In quelle
carrozze la sofferenza umana si materializzava e solidarizzava, ma si concretava
anche una speranza. È stato per tanti anni una “tradotta” che portava al lavoro,
al pane. Ma gli emigranti, i “terroni”, anche attraverso quel treno hanno tenuto
un legame profondo con le proprie radici, che si materializzava soprattutto a
Natale e ad Agosto; periodi in cui si tornava al Paese per rincontrare i nonni,
i genitori, la sposa, gli amici. Un’altra
occasione per la quale gli emigrati salivano sul treno del sole; era per venire
a votare. Non ricordo bene in quale occasione elettorale, certamente negli anni
’70, andammo a ricevere alla stazione di Sant’Eufemia, oggi Lamezia Terme, di
sera gli emigrati che scendevano sul treno del sole per votare. Dai finestrini
dei vagoni stracarichi sventolavano le bandiere rosse e forti erano i canti
degli inni della sinistra. Noi dirigenti e militanti del Partito Comunista
eravamo lì con un grande striscione sul quale avevamo scritto, “Torna per
votare e vota per tornare”. (…). Addio treno del Sole. Avete appena letto
la testimonianza che l’amico carissimo Sabatino Nicola Ventura, Consigliere
Comunale di Catanzaro e Presidente dell’Associazione “Pensiero Contemporaneo”, mi ha fatto
pervenire e che con grande piacere ho posto a prologo di questa “sfogliatura”.
Il venerdì 15 di aprile dell’anno 2005 postavo su questo blog un mio racconto
breve, “L’emigrante”, la stesura del
quale risale all’anno 1967. Lo ripropongo di seguito.
Correva
con il cuore gonfio e gli occhi pure; sentiva le gambe venirgli meno, eppure
riusciva ancora a correre. Spesso alzava il braccio libero e con la manica del
cappotto asciugava le lacrime che come rivoli prima distinti, si univano poi a
gocciolare sotto il naso. La valigia gli pesava, quella valigia di cartone su
cui i rappezzi erano chiazze notevoli; l’aveva legata con dello spago per
evitare che si potesse aprire. Avrebbe voluto fermarsi, poggiarla sull’erba
ancora umida, respirare quell’aria fresca, aspirare ancora il profumo di quei
campi meravigliosi, già vestiti a festa per la primavera. Eppure non si fermava;
si sarebbe messo a piangere più forte e poi non avrebbe trovato la forza di
proseguire. Non voleva vederla, non voleva soprattutto vedere che piangeva
dalla finestra, con la testa candida, nel suo vestito nero che mai aveva tolto.
Tante volte l’aveva vista piangere; quando il papà li aveva lasciati e quando
lui si era ammalato di quella brutta malattia. Aveva tanto sofferto e questo
era ancora un altro dei momenti dolorosi della sua vita. La vedeva comunque;
era sempre alla finestra con il braccio alzato in atto di saluto e benedizione.
Andava via da lei, da quella casa odorosa e silenziosa e da quel paesetto che
lo aveva visto nascere, crescere e andare sui campi a lavorare con la gente del
luogo. Percorreva quella strada che diritta porta al casello ferroviario, una
strada che aveva percorso con i compagni solo per andare a vedere il treno che
passava. Pensava che un giorno sarebbe ritornato, a riabbracciare la mamma, a
portarla via con sé o magari, per rimanere sempre in quel posto, che per lui
era il più bello del mondo. Magari, con un po’ di soldi fatti lassù, avrebbe
comprato un pezzo di terra, vi avrebbe fatto una casa nuova per la mamma e per
la sposa. Ma ora bisognava andare via, con un dolore immenso ed una grande
paura; di non poterla più rivedere. Camminava ora più lentamente, come per
prendere ancora tempo e per fermare lo sguardo ancora su quei posti, su quegli
alberi già carichi, sui rovi spinosi, sulle case annerite. Sapeva che lassù
avrebbe desiderato tanto essere al suo paese, parlare con gli amici, giocare
all’osteria con loro e raccontarsi tante cose, le cose che si raccontano e si
credono proprio perché raccontate e sentite nel paese, fra gente semplice ed
onesta. D’estate, capitava spesso qualcuno che veniva dalla città rumorosa a
prendere un po’ di pace; il suo arrivo coincideva con il periodo in cui per i
campi vi era più lavoro. Ma alla sera, benché fossero stanchi di una giornata
passata duramente, si riunivano all’osteria, perché lui, il cittadino, veniva a
gustare un buon bicchiere di vino. E gli occhi erano per lui e le orecchie
pure; e raccontava e faceva vivere di cose che a loro erano negate. Ed in lui i
rumori della città, le miriadi di luci al neon, il via vai della gente,
formavano immagini magnifiche, anche se non aveva mai visto nulla di simile. Il
racconto poi, di tante avventure, animava in quei poveretti sentimenti che
nella campagna lasciano il posto alle cose belle e sane della natura. Negozi,
strade, viaggi e donne erano divenuti immagini vive di un mondo lontano e tanto
desiderato. Ma poi, partito il cittadino, restavano tutti a raccontarsi ancora
delle cose di cui erano rimasti più interessati e scoprivano così un mondo più
bello che essi non avevano la fortuna di abitare. Ma ora andava via, aveva
l’occasione di andare ad abitare quel mondo, ma gli tormentava tanto di
lasciare quello, che si svegliava pian piano, prima con un fruscio di erbe
alte, poi col canto degli uccelli e che si animava di uomini e di animali che
andavano al lavoro. Li vedeva tutti, le bestie innanzi e loro dietro, con gli
indumenti che erano stati a letto con loro, per sentire meno freddo in quelle
case basse, umide ed oscure. Le bestie fumavano per le narici e gli uomini si
scaldavano le mani con l’alito caldo. Li vedeva andare per i campi illuminati
dal primo sole, sparire lontano o dietro una curva a gomito di quelle viuzze
polverose. Passava accanto a loro, li salutava, ascoltava ancora una volta la
loro voce, le loro parole che fuggivano come il vento; li guardava negli occhi
per dire loro qualcosa, li superava poiché andava di fretta. Lasciava dietro il
rumore delle ruote dei carri sulle pietre, ma lasciava anche un mondo che amava
tanto. Lasciava tutto per ritrovarlo; la chiesa dove i ragazzi del luogo, prima
che i lavori dei campi li sottraessero precocemente ai loro svaghi infantili,
si riunivano per sentire il parroco, ma soprattutto per giocare con i giochi
che in questi luoghi si conoscono; l’orto della chiesa, dove non visti, avevano
tante volte sottratto alla vigilanza amorosa del prete, i frutti più belli e
saporosi; ma poi, lui almeno, quando si era trovato faccia a faccia col prete,
aveva confessato ed in cambio aveva quasi sempre ricevuto una carezza, di
quelle che i fanciulli di campagna, unici al mondo, non ricevono mai. Ed il
muro di pietre, di fianco alla chiesa, dove la domenica sedeva con gli altri a
raccontarsi sempre le solite cose ed a vedere uscire dalla messa gli altri del
paese; quante volte su quelle pietre si era strappato il fondo dei pantaloni,
già tante volte rappezzati, e quante lucertole aveva acchiappato fra quella
pietre, dopo che le aveva viste spuntare per prendere anch’esse un po’ di sole!
Pensava ora quando in quella chiesa avevano fatto il funerale per il papà, con
tanta gente semplice e buona, nei loro semplici vestiti di tutti i giorni e li
aveva abbracciati tutti, mentre piangeva, e si era sentito in quel giorno un
po’ meno solo, ora che tutti andavano per il suo papà; e la mamma piangeva
forte, anche durante la messa, ed era stato abbracciato a lei e poi le comari
avevano dovuto accompagnarla a casa, mentre lui lo avevano portato in un’altra
casa dove gli avevano dato del vino e del pane. Il suo povero papà non aveva
mai lasciato quel posto se non per fare la guerra, una guerra che non voleva e
che non sapeva perché si dovesse fare. Poi era tornato a coltivare il suo
campiello, a mettere su famiglia; li aveva lasciati che lui era ancora piccolo,
che ancora sul suo viso mancava quella peluria che prelude, più che alla barba,
ad un deciso passaggio nell’età. Voleva bene al suo papà, perché sapeva fare
tante altre cose oltre al lavoro nei campi ed anche perché alla sera , sfinito
dal lavoro, non andava all’osteria a bere ma restava con loro a fumare ed a
suonare l’organetto. Li aveva lasciati senza dir nulla, perché quando si muore
d’improvviso non si ha il tempo di dire nulla. Ora camminava più velocemente,
sentiva che la valigia pesava molto di più; andava alla stazione a prendere il
treno, che lo avrebbe portato lassù, lontano dalla sua casa, a lavorare,
lontano dai suoi campi. Andava alla stazione a prendere un treno lungo e nero,
su cui non era mai stato, ma che prima avrebbe voluto almeno una volta provare.
Ma ora no, non voleva vederlo, sperava anzi che esso non arrivasse affatto,
così sarebbe tornato indietro dalla mamma, nella sua casa, a mangiare le buone
cose della sua terra. Ora avrebbe svoltato, avrebbe iniziato a scendere per una
via polverosa, che si fa’ solo a piedi tanto è stretta e tortuosa; dopo non
avrebbe più visto le case, la chiese, il suo mondo. Rallentò ancora, volle
poggiare la valigia per terra, per riposare la mano; si voltò e vide ancora
quelle case, ma non le distinse bene perché piangeva. Si asciugò ancora con la
manica, si soffiò il naso, continuò a guardare e a piangere; raccolse una
pietra, la guardò, la baciò come se fosse stata tutt’altra cosa, poi riprese la
valigia e svoltò. Una cosa avrebbe voluto dire e non la disse, poiché sarebbe
stato più forte ancora: “Addio mamma”, poiché sapeva che non l’avrebbe più
rivista.
Grazie, carissimo Aldo, per avermi regalato la preziosa opportunità di leggere questo stupendo post che ancora non conoscevo... Straordinario questo tuo racconto breve giovanile e veramente eccezionale il pathos che meravigliosamente lo caratterizza. È per questo che lo conserverò tra i tuoi post che mi sono più cari.
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