Scrive la giovane, cara, anzi carissima Manuela Perdichizzi in una Sua pagina su Facebook:
“ASSOLTO
in appello!!!!! In che mondo viviamo?”. Comprendo il Suo disappunto, ma
non comprendo la Sua meraviglia. L’abbondanza degli esclamativi ne evidenzia la
misura. Ma con la meraviglia non si fa la Storia. Poiché la sentenza del 17 di
luglio trova una spiegazione che non fa una grinza. Tutto era stato preparato. Con
accortezza certosina. È che le cose non avvengono per un destino che un tempo
solevasi definire “cinico e baro”. La Storia ci insegna che le azioni degli
esseri umani traggono la loro forza dalla appartenenza a quegli aggregati che
un tempo la passatista sociologia definiva “classi”. E già, le “classi”
sociali. Ritenute morte e sepolte. Con buona pace degli ingenui. Poiché anche
il legiferare trova significato nell’appartenere ad una o ad un’altra di quelle
“classi”.
Anzi di più: quelle “classi” d’appartenenza esprimono quegli uomini al governo
affinché legiferino in sintonia ed in previsione di un futuro utilizzo della
legislazione più conveniente. È da tempo che vado sostenendo della incongruenza
di quella epigrafe – intesa come iscrizione su pietra, terracotta o altro
supporto diverso dai normali materiali degli scrittori - issata nelle aule dei
nostri tribunali per la quale “La giustizia è uguale per tutti”. Una
beffa! Tutto era scritto e tutto si è svolto secondo gli auspici. Torniamo al
dunque. Ha scritto Marco Travaglio – “Innocente
a sua insaputa” – su “il Fatto Quotidiano” del 19 di luglio, all’indomani
dello scontato pronunciamento di quella Corte d’Appello:
Perché (…) l’avvocato Coppi
confessa, in un lampo di sincerità, che l’assoluzione va al di là delle sue più
rosee aspettative? Perché sa bene che il primo dei due capi di imputazione,
quello sulle ripetute telefonate di B. dal vertice internazionale di Parigi ai
vertici della Questura, è un fatto documentato e pacificamente ammesso da
tutti: ed è impossibile negare che, quando un capo di governo chiede
insistentemente un favore a un pubblico funzionario, lo mette in stato di
soggezione o almeno di timore reverenziale. Che, nel diritto penale, si chiama
concussione. Magari non per costrizione (come invece ritenne il Tribunale), ma
per induzione come sostennero la Procura e, nel nostro piccolo, anche noi (…).
Se il processo si fosse concluso entro il 2012, entrambe le fattispecie di
concussione sarebbero rientrate nello stesso reato, con pene graduate. Il 30
dicembre 2012, invece, il governo Monti e la maggioranza di larghe intese
Pd-Pdl varò la legge Severino che scorporava l’ipotesi dell’induzione,
trasformandola in un reato minore, di cui rispondono anche le ex-vittime
trasformate in complici (…). In pratica, nel bel mezzo della partita, si
modificò la regola del fuorigioco, alterando il risultato finale. Cambiata la
legge, salvato il Caimano. Ora vedremo dalle motivazioni della sentenza in che
misura quella scriteriata “riforma”– fatta apposta per salvare Penati e B.,
nella migliore tradizione dell’“una mano lava l’altra”, anzi le sporca entrambe
– ha inciso sul verdetto (…). Ma il sospetto è forte, anche perché – come
osserva lo stesso Coppi – “i giudici non potevano derubricare il reato” dalla
concussione per costrizione al nuovo reato di induzione: le sezioni unite della
Cassazione, infatti, hanno già stabilito che l’induzione deve portare un
“indebito vantaggio” a chi la subisce. E i vertici della Questura non ebbero
alcun vantaggio indebito, affidando Ruby a Minetti&Conceicao: al massimo evitarono
lo svantaggio indebito di essere trasferiti sul Gennargentu. (…). È l’evento
tanto atteso dai sodali di Penati e dai sodali del signor B., ovvero di tutti
coloro che si vedono protagonisti al tempo delle “larghe intese”: la legge
cosiddetta Severino, per rintuzzare gli atti criminali di corruzione. Ché sempre
di un crimine si tratta. Provvidenziale, quasi ispirata dall’alto dei cieli
ecco definirsi e scendere tra gli umani di una “casta” quella benedetta
legge che annacqua e fa scomparire il reato. E tutto è avvenuto nella indifferenza
ed ignoranza generale. Anche se le voci ci sono state in quei tempi non sospetti.
Continua Marco Travaglio: L’assoluzione in appello non significa che
la Procura che ha condotto le indagini e il Tribunale che ha condannato B.
abbiano sbagliato per dolo e colpa grave e vadano dunque puniti in base alla
tanto strombazzata “responsabilità civile”: sia perché gli errori giudiziari
non sono soltanto le condanne degli innocenti, ma anche le assoluzioni dei
colpevoli, sia perché tutti i magistrati hanno deciso in base al proprio libero
convincimento sulla base di un materiale probatorio che, dal punto di vista
fattuale, è indiscutibile (i soli dubbi riguardavano se B. avesse consumato
atti sessuali con Ruby e se fosse consapevole dell’età della ragazza, che
indubitabilmente si prostituiva lautamente pagata). È questo il punto
dirimente. La disattenzione del paese trova la sua origine e natura in quella
che definisco da tempo assai l’“impronta antropologica”. È ciò che
ci distingue nel novero dei paesi civili ed avanzati. E che ci penalizza in
tutto e per tutto. Mi pare di udire il coro dei “famigli” dell’assolto in
appello; mi pare di vedere i turiboli agitarsi per l’aere immobile manovrati dagli
esperti turiferari. Ne conviene Marco Travaglio laddove scrive che “Ieri
(venerdì 17 di luglio n.d.r.) si è deciso in secondo grado sulle
telefonate alla Questura e sulla prostituzione minorile di Ruby, non si è
condonata una lunga e inquietante carriera criminale. Quale reputazione può mai
invocare un pregiudicato per frode fiscale, ora detenuto in affidamento in
prova ai servizi sociali, che per giunta si circondava di un complice della
mafia come Dell’Utri, attualmente associato al carcere di Parma, e di un
corruttore di giudici per comprare sentenze in suo favore come Previti,
cacciato dal Parlamento e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici?. “Quale reputazione”, per l’appunto? Quella
che ne discende da una disattenzione generalizzata verso la “cosa
pubblica”, verso le regole e verso il rispetto di quello che in un
tempo antico si definiva “principio di legalità”. Calpestato in
forza dell’appartenenza ad una “casta” di intoccabili. Si dirà del
collegio giudicante. Ma è quel collegio che è stato chiamato a giudicare dopo la
provvidenziale nuova legge Severino! “In che mondo viviamo?”. È questo,
cara, carissima Manuela il mondo che la nostra, atavica, diffusissima, sonnacchiosa
“cittadinanza”
ci ha fatto costruire. Ma al peggio non c’è mai fine. Ed al peggio prossimo a
venire potrà porsi rimedio solamente con quell’assunzione di responsabilità
civile e “politica” che il mondo complesso in cui siamo chiamati a vivere
– a vivere, non a sopravvivere - ci
richiede. Rifuggirne, ci porta poi all’abbondanza degli esclamativi. E di “Una questione politica” ne fa del caso
il Direttore del quotidiano la Repubblica Ezio Mauro all’indomani sempre della
sentenza di quella Corte d’Appello: Oggi la Corte d’Appello sanziona che non c’è
stata concussione nella telefonata in cui il presidente del Consiglio ordinò al
capo di gabinetto della questura di Milano di consegnare immediatamente e
nottetempo la ragazza Ruby ad una vedette del bunga-bunga spacciata per
“consigliere ministeriale”: che appena dopo averla sottratta alla polizia
abbandonò la minorenne da una prostituta brasiliana. Il fatto non sussiste,
anche perché nella riforma approvata in fretta e furia all’epoca del ministro
Severino la fattispecie della concussione si restringe e occorre dimostrare un
vantaggio per il funzionario concusso. Così come non c’è, secondo la Corte, il
reato di prostituzione minorile, probabilmente perché l’utilizzatore finale
(come lo ha chiamato l’avvocato Ghedini) non conosceva l’età della minorenne
nelle notti ad Arcore. Resta tuttavia da spiegare — se il Paese e i giornali
volessero saperlo — la ragione di tanta fretta e di un così grande affanno, i
motivi di quelle bugie enormi, il terrore che Ruby restasse in mano alla
questura o nella tutela del tribunale dei minori, la necessità di costruire ad
ogni costo non un aiuto alla ragazza (la prostituta brasiliana non può esserlo)
ma una scappatoia notturna a interrogatori, domande, possibili risposte. Perché
questa impalcatura avventurosa, quest’ansia notturna che spinge un presidente
del Consiglio ad interferire nelle procedure abituali della polizia dopo un
furto, a far balenare addirittura un incidente diplomatico, a mandare una
fidatissima olgettina a “esfiltrare” Ruby dalla questura per poi subito
abbandonarla a missione evidentemente compiuta? (…). Scriviamo (…) le esatte
parole che abbiamo usato un anno fa, al momento della condanna in primo grado:
la questione è politica, non soltanto giudiziaria, nient’affatto moralistica. Ha
scritto bene il valente Direttore: “se il Paese e i giornali volessero saperlo”.
A nessuno importa. Il caldo incalza ed il “tema” sarà ben presto archiviato
dai mass-media così come dalla coscienza dei singoli e della collettività. Ma una
lezione “politica”, per il Direttore Ezio Mauro, andrebbe colta a seguito
della sentenza, sol che non si ragionasse nel bel paese in forza d’una
appartenenza che nel mondo globalizzato ha un sapore tribale: (…).
…finisce con questa sentenza la leggenda della persecuzione giudiziaria nei
confronti del Cavaliere: sarebbe bene che finisse anche la persecuzione
politica della destra berlusconiana nei confronti della giustizia, con
intimidazioni preventive come la marcia incredibile dei parlamentari davanti al
Palazzo di Giustizia di Milano, e con rivendicazioni postume, come chi oggi
dopo l’Appello vuole brandire la riforma della giustizia come una clava. (…).
Ma i turiboli già si agitano nelle mani di turiferari servili.
Caro Ettore, sono vecchia e ho visto nascere la Costituzione. Ora sto assistendo alla sua agonia. Che possiamo fare? Un abbraccio. Franca.
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