Scrive Tomaso Montanari
su “il Fatto Quotidiano” di ieri 2 di aprile – “Il consenso che odia la cultura” -: Al sapere Renzi oppone il
plebiscito: i professori avranno studiato, ma lui ha il consenso. Poco importa
se il consenso è quello delle primarie (consultazioni private a cui ha
partecipato una quota minuscola di elettori), se è al governo senza essere
stato eletto, se questo Parlamento è legalmente eletto, ma forse non proprio
legittimato a cambiare la Costituzione. E poco importa se si sta facendo di
tutto per far passare la riforma con i due terzi delle Camere, e dunque per
evitare di consultare, con un referendum, il popolo sovrano del quale ci si
riempie la bocca. Invece di discutere, Renzi preferisce scagliarsi contro
Rodotà e Zagrebelski con un tono che ricorda queste parole del primo discorso
alla Camera di Mussolini capo del governo (16 novembre 1922): “Lascio ai melanconici
zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno
lamentosamente”.
Eppure l’arrembante primo ministro si era presentato come colui il quale avrebbe restituito dignità al pensiero, alla intelligente controversia, a quella dialettica plurale che era stata mortificata nel ventennio ultimo ma non ancora trascorso. Poiché sembra proprio essere ripiombati negli anni più oscuri e perigliosi segnati dal dominio dell’uomo di Arcore. Quando la “scarnificazione del pensiero” era portata a strategia di governo e di indirizzo della società tutta. Ma i primi passi dell’arrembante sembrano voler dissolvere ogni qualsivoglia speranza di un nuovo che non si intravvede. Di un verso che si cambia. Il tanto proclamato recupero della centralità della “cultura” e di tutto ciò che con essa abbia a che fare sembra essere stato già rimosso come mossa improvvida della prima ora. Scrive oltre Tomaso Montanari nella Sua riflessione: Ma perché il capo del governo teme così tanto i portatori del sapere critico? Perché sa che la loro funzione, in una democrazia evoluta, è – come ha scritto Tony Judt – “tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità. La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. È il punto dirimente nelle democrazie: “il sapere critico”. E qui lascio il “campo” ad un Maestro eccelso, a Stefano Rodotà inviso proprio ai signori del “potere per il potere”, che nei loro sordidi giochi di palazzo hanno fatto mancare il loro consenso a che quella candidatura al sommo colle si concretizzasse al fine di restituire al bel paese una dignità perduta anche se, a parole, tanto invocata. Ha scritto Stefano Rodotà sul quotidiano la Repubblica del 2 di marzo – “Attacco all’umanesimo” -: Lo spirito critico non è mai stato gradito da chi gestisce il potere, perché su di esso si fonda la possibilità di esercitare forme di controllo, evitando che il potere si trasformi in arbitrio, si nasconda nell’opacità. La democrazia è governo del popolo, ma pure governo in pubblico. Due elementi che rendono indispensabile uno spirito critico diffuso, sì che il suo attenuarsi si trasforma inevitabilmente in un indebolimento, o in una vera e propria scomparsa, della democrazia. Ma, si dice, l’attribuire pubblica rilevanza all’esercizio dello spirito critico implica discussione e così rallenta i processi di decisione, la cui velocità sembra essere divenuto l’unico bene da salvaguardare. Vengono, allora, presentati come un imperativo la separazione o almeno l’allentarsi del legame tra decisione e controllo, con l’inevitabile conseguenza di una riduzione degli spazi dove lo spirito critico può essere accettato, o benevolmente tollerato. Spazi privati, ovviamente, dove rifugiarsi per praticare un irrilevante otium, che non inneschi alcuna forma di contagio. (…). Ma lo spirito critico non ha diritto di cittadinanza se alle Camere viene attribuito solo il ruolo di ratificare le decisioni prese dal Governo. La pretesa di discuterle, allora, diviene perdita di tempo o sabotaggio. La cultura politica, non più alimentata dal pericoloso spirito critico, si rattrappisce, si affida alla tecnica del sondaggio o a quella della comunicazione. E questo nuovo spirito del tempo alimenta un rifiuto che si estende al di là della fase parlamentare, investe l’intero processo di decisione e produce il paradosso di una trasparenza ingannevole, perché lo sguardo del pubblico può posarsi su progetti provenienti dalla sfera politica, a condizione però di limitarsi a contemplarli, senza pretendere di contribuire alla loro definizione. (…). …una deriva che, muovendo dall’insofferenza per lo spirito critico, approda all’insignificanza della cultura. Ma una politica che divorzia così clamorosamente dalla cultura, che si rifugia nell’autoreferenzialità, si priva dello strumento essenziale per conoscere davvero il mondo che pretende di regolare. Non dimentichiamo che la cattiva politica è sempre figlia di una cattiva cultura. (…). Così gli spazi per la formazione e l’esercizio dello spirito critico si restringono ulteriormente, contribuendo a consolidare una insofferenza per il controllo che si è estesa a una istituzione come la magistratura, la cui incisiva presenza è stata ritenuta insopportabile da troppi detentori di poteri, grandi o piccoli che fossero. (…). Non c’è annuncio nell’arrembante azione di governo di un cambio d’indirizzo nella conduzione della cosa pubblica nel bel paese, bensì la prosecuzione di una pratica politica che mira a restringere gli spazi di quel “sapere critico” che è il sale proprio delle democrazie. Scrive ancora Tomaso Montanari su “il Fatto quotidiano” di ieri: Ecco, questo Renzi non se lo può permettere: sa benissimo di essere un prodotto che vende solo in regime di monopolio, e con un marketing senza smagliature. La prima funzione del pensiero critico, al contrario, è quella di mostrare che c’è sempre un’alternativa: sempre. Un filologo, un giurista, uno storico, un fisico sanno partecipare al discorso pubblico demistificando la retorica dell’ultima spiaggia e dell’uomo della provvidenza. Perché lo fanno usando argomenti comprensibili e razionali, dimostrabili e verificabili. Tutte cose pericolose per chi basa l’acquisizione del consenso non sul cervello, ma sulla pancia degli ascoltatori-elettori. La cui digestione non dev’essere turbata da dubbi. Quel famoso discorso di Mussolini si chiudeva così: “Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi”. (…). Ora Renzi fa leva sulla disperazione diffusa, sul viscerale rigetto per il criminale immobilismo di chi lo ha preceduto, sul riflesso condizionato prodotto dalla promessa degli ottanta euro. (…). È il momento di «fare»: ma guai a chi si chiede cosa si stia davvero facendo. Guai a chi sa dimostrare che il re è nudo. Ha scritto sempre ieri Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica - “Osare più democrazia” – a specificare ancor meglio di quella continuità - Berlusconi-Monti-Renzi - che è il connotato di questa confusa e convulsa fase della vita politico-istituzionale del bel paese: Memorabile fu la dichiarazione di Monti, intervistato dallo Spiegel il 5 agosto 2012. Accennando ai veti opposti dai Paesi nordici alle decisioni europee, e al mandato affidatogli dalla Camera (difendere a Bruxelles gli eurobond), disse:«Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere. (...) Se io mi fossi attenuto in maniera del tutto meccanica alle direttive del mio Parlamento, non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles. Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa». Renzi dunque completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in «spirito del tempo». È lo «spirito del tempo» chiosa magistralmente Barbara Spinelli. “Zeitgeist”, ovvero "spirito del tempo" che nella durezza della lingua tedesca sta ad indicare quella tendenza culturale che predomina nello spazio di un’epoca. Il verso non è cambiato proprio.
Eppure l’arrembante primo ministro si era presentato come colui il quale avrebbe restituito dignità al pensiero, alla intelligente controversia, a quella dialettica plurale che era stata mortificata nel ventennio ultimo ma non ancora trascorso. Poiché sembra proprio essere ripiombati negli anni più oscuri e perigliosi segnati dal dominio dell’uomo di Arcore. Quando la “scarnificazione del pensiero” era portata a strategia di governo e di indirizzo della società tutta. Ma i primi passi dell’arrembante sembrano voler dissolvere ogni qualsivoglia speranza di un nuovo che non si intravvede. Di un verso che si cambia. Il tanto proclamato recupero della centralità della “cultura” e di tutto ciò che con essa abbia a che fare sembra essere stato già rimosso come mossa improvvida della prima ora. Scrive oltre Tomaso Montanari nella Sua riflessione: Ma perché il capo del governo teme così tanto i portatori del sapere critico? Perché sa che la loro funzione, in una democrazia evoluta, è – come ha scritto Tony Judt – “tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità. La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. È il punto dirimente nelle democrazie: “il sapere critico”. E qui lascio il “campo” ad un Maestro eccelso, a Stefano Rodotà inviso proprio ai signori del “potere per il potere”, che nei loro sordidi giochi di palazzo hanno fatto mancare il loro consenso a che quella candidatura al sommo colle si concretizzasse al fine di restituire al bel paese una dignità perduta anche se, a parole, tanto invocata. Ha scritto Stefano Rodotà sul quotidiano la Repubblica del 2 di marzo – “Attacco all’umanesimo” -: Lo spirito critico non è mai stato gradito da chi gestisce il potere, perché su di esso si fonda la possibilità di esercitare forme di controllo, evitando che il potere si trasformi in arbitrio, si nasconda nell’opacità. La democrazia è governo del popolo, ma pure governo in pubblico. Due elementi che rendono indispensabile uno spirito critico diffuso, sì che il suo attenuarsi si trasforma inevitabilmente in un indebolimento, o in una vera e propria scomparsa, della democrazia. Ma, si dice, l’attribuire pubblica rilevanza all’esercizio dello spirito critico implica discussione e così rallenta i processi di decisione, la cui velocità sembra essere divenuto l’unico bene da salvaguardare. Vengono, allora, presentati come un imperativo la separazione o almeno l’allentarsi del legame tra decisione e controllo, con l’inevitabile conseguenza di una riduzione degli spazi dove lo spirito critico può essere accettato, o benevolmente tollerato. Spazi privati, ovviamente, dove rifugiarsi per praticare un irrilevante otium, che non inneschi alcuna forma di contagio. (…). Ma lo spirito critico non ha diritto di cittadinanza se alle Camere viene attribuito solo il ruolo di ratificare le decisioni prese dal Governo. La pretesa di discuterle, allora, diviene perdita di tempo o sabotaggio. La cultura politica, non più alimentata dal pericoloso spirito critico, si rattrappisce, si affida alla tecnica del sondaggio o a quella della comunicazione. E questo nuovo spirito del tempo alimenta un rifiuto che si estende al di là della fase parlamentare, investe l’intero processo di decisione e produce il paradosso di una trasparenza ingannevole, perché lo sguardo del pubblico può posarsi su progetti provenienti dalla sfera politica, a condizione però di limitarsi a contemplarli, senza pretendere di contribuire alla loro definizione. (…). …una deriva che, muovendo dall’insofferenza per lo spirito critico, approda all’insignificanza della cultura. Ma una politica che divorzia così clamorosamente dalla cultura, che si rifugia nell’autoreferenzialità, si priva dello strumento essenziale per conoscere davvero il mondo che pretende di regolare. Non dimentichiamo che la cattiva politica è sempre figlia di una cattiva cultura. (…). Così gli spazi per la formazione e l’esercizio dello spirito critico si restringono ulteriormente, contribuendo a consolidare una insofferenza per il controllo che si è estesa a una istituzione come la magistratura, la cui incisiva presenza è stata ritenuta insopportabile da troppi detentori di poteri, grandi o piccoli che fossero. (…). Non c’è annuncio nell’arrembante azione di governo di un cambio d’indirizzo nella conduzione della cosa pubblica nel bel paese, bensì la prosecuzione di una pratica politica che mira a restringere gli spazi di quel “sapere critico” che è il sale proprio delle democrazie. Scrive ancora Tomaso Montanari su “il Fatto quotidiano” di ieri: Ecco, questo Renzi non se lo può permettere: sa benissimo di essere un prodotto che vende solo in regime di monopolio, e con un marketing senza smagliature. La prima funzione del pensiero critico, al contrario, è quella di mostrare che c’è sempre un’alternativa: sempre. Un filologo, un giurista, uno storico, un fisico sanno partecipare al discorso pubblico demistificando la retorica dell’ultima spiaggia e dell’uomo della provvidenza. Perché lo fanno usando argomenti comprensibili e razionali, dimostrabili e verificabili. Tutte cose pericolose per chi basa l’acquisizione del consenso non sul cervello, ma sulla pancia degli ascoltatori-elettori. La cui digestione non dev’essere turbata da dubbi. Quel famoso discorso di Mussolini si chiudeva così: “Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi”. (…). Ora Renzi fa leva sulla disperazione diffusa, sul viscerale rigetto per il criminale immobilismo di chi lo ha preceduto, sul riflesso condizionato prodotto dalla promessa degli ottanta euro. (…). È il momento di «fare»: ma guai a chi si chiede cosa si stia davvero facendo. Guai a chi sa dimostrare che il re è nudo. Ha scritto sempre ieri Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica - “Osare più democrazia” – a specificare ancor meglio di quella continuità - Berlusconi-Monti-Renzi - che è il connotato di questa confusa e convulsa fase della vita politico-istituzionale del bel paese: Memorabile fu la dichiarazione di Monti, intervistato dallo Spiegel il 5 agosto 2012. Accennando ai veti opposti dai Paesi nordici alle decisioni europee, e al mandato affidatogli dalla Camera (difendere a Bruxelles gli eurobond), disse:«Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere. (...) Se io mi fossi attenuto in maniera del tutto meccanica alle direttive del mio Parlamento, non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles. Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa». Renzi dunque completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in «spirito del tempo». È lo «spirito del tempo» chiosa magistralmente Barbara Spinelli. “Zeitgeist”, ovvero "spirito del tempo" che nella durezza della lingua tedesca sta ad indicare quella tendenza culturale che predomina nello spazio di un’epoca. Il verso non è cambiato proprio.
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