Le notizie di questi turbolenti
giorni si susseguono e si rincorrono come in un “tourbillon” che non
lascia spazio e che fa mancare il respiro. La notizia ultima è la fuga
all’estero di un galantuomo condannato in attesa di giudizio finale, che poi
sarebbe il pronunciamento atteso a giorni dell’alta Corte di Cassazione. Perché
non riparare altrove prima che arrivi il diluvio? E pensare che quel
rispettabilissimo ha avuto modo di decidere per le sorti dell’intero popolo
dello stivale. Al fianco del suo sodale di già condannato in via definitiva e
che spera di sfuggire alle conseguenze dei suoi criminali atti. La seconda
notizia ci è offerta da Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” del 10 di
aprile in un pezzo che ha per titolo “Sono
pazzi questi inglesi”: Ieri (9 di aprile n.d.r.) s’è
dimessa la ministra della Cultura del governo britannico, Maria Miller. Non è
neppure indagata, ma l’autorità di controllo sulla Pubblica amministrazione
l’accusa di aver sottratto alla collettività la bellezza di 5.800 sterline (7
mila euro), infilando nelle sue note spese un pezzettino di mutuo della seconda
casa a Wimbledon (che peraltro dal 2005, quando fu eletta, le serve per
lavorare a Londra, essendo una “fuori sede” in trasferta). La ministra ha
restituito la somma e s’è scusata in Parlamento, ma “non abbastanza” secondo i
giornali e il Labour, il partito di opposizione, che le ha chiesto spiegazioni
più convincenti.
Il suo partito, quello conservatore, l’ha scaricata. E lei se
n’è andata con una lettera al premier Cameron in cui spiega che si assume “la
piena responsabilità delle mie azioni” e che “la situazione era diventata una
distrazione per il lavoro vitale che il governo sta svolgendo per cambiare il
Paese”. Il suo collega dell’Educazione, Michael Gove, ha commentato che le sue
dimissioni, subito accolte dal primo ministro, “devono servire da avvertimento
per l’intera classe politica”. Se ora, com’è già accaduto a diversi ministri e
parlamentari inglesi negli ultimi anni, anche la Miller sarà inquisita e
processata, le sue vicende giudiziarie non avranno la benché minima influenza
sul governo di Londra e sulla vita politica britannica. Perché, a essere
processata, sarà una “ex”. È quanto ci giunge da quel paese. Che sembra
lontano a distanze siderali. Il 3 di agosto dell’anno 2006 in una rubrichetta
senza pretese davo alla luce il post che segue. La rubrichetta, com’è anche
specificato nell’incipit del post, si abbeverava a quel tempo da un volume
fresco di stampa di uno dei maggiori studiosi europei di linguistica e
filosofia del linguaggio e della cultura, studioso che ai Suoi approfondimenti
culturali affiancava una ricchissima attività di saggista politico.
“Io non mi toso” è il
titolo del trentesimo capitolo del volume “Il paese del pressappoco” di
Raffaele Simone, pregevolissimo lavoro che è ispiratore delle pagine di questa
rubrichetta. E nella paginetta che ne è stata tratta rifulge luminoso il
carattere “più” degli abitatori delle felici, solatie ed ubertose contrade del
bel paese. E come non scorgervi i motivi ispiratori di una recentissima opera,
o meglio mala opera, di una esperienza di governo fortunatamente cessata? “(…). … gli italiani sono koinòfobi. Si
tratta di un’altra parola inventata nello sforzo di fissare una delle
peculiarità che ci affliggono. Per koinofobia intendo ‘ l’odio per le cose comuni,
per le cose di tutti, o più in generale odio dell’idea stessa di bene comune. A
questo male endemicamente italiano dobbiamo una quantità di conseguenze, tra cui
una essenziale: una speciale concezione della libertà. In un paese libero le
leggi sono sistemi di restrizioni che sottraggono al singolo piccole porzioni
di libertà per evitare che l’uso della libertà individuale leda quella degli
altri. Ora, dinanzi alle limitazioni imposte dalle leggi ci possono essere
diverse reazioni. Le dispongo secondo una scala. A un estremo c’è la posizione
che consiste nel piegare la testa e rispettare le leggi; all’altro c’è quella
che consiste nel rifiutarle esplicitamente facendo il proprio comodo. In mezzo
si trovano due posizioni più sfumate. Una consiste nel fingere di rispettare le
leggi sostanzialmente ignorandole, cioè aggirandole. L’altra, che è ideale e
quasi mistica, consiste nell’essere felici nel rispettarle, sapendo che il
rispetto delle leggi comporta sì una limitazione dei propri impulsi, ma la
compensa ad abbondanza espandendo il benessere di ciascuno e garantendo una
riduzione del rischio del conflitto. …aggiungerò una quinta posizione (…). La
posizione (…) di chi obbedisce alle leggi non per obbligo o sottomissione ma
per educazione e per eleganza, quasi per un’esigenza di gusto, al di là da ogni
vantaggio pratico che possa ottenerne (…)”. Il concetto è chiaro: uno dei modi
di rispettare le leggi consiste nel farlo per buon gusto e per educazione,
anche se in fondo la cosa non dovesse starci a cuore, con lo stesso spirito con
cui eviteremmo di comparire in società con una macchia sul vestito o con un
abito logoro. A me questa pare una posizione moderna, raffinata com’è, quasi
dandy: può valere infatti anche per chi per cinismo non crede affatto alle
leggi ma ama rispettarle per finezza, per evitare di sporcarsi con una macchia.
Da che parte di questa graduatoria metteremmo gli italiani? Qualcuno può dire
che piegano la testa e stanno al gioco. Se fosse così, saremmo sì un paese di
mugugnatori ( come in effetti siamo ) ma le leggi le rispetteremmo e le cose
andrebbero diversamente. Io ritengo invece che gli italiani ignorano le leggi e
cercano di aggirarle, oppure fingono di rispettarle. Si comportano a questo
modo perché essendo koinòfobi non sentono che
il rispetto delle leggi ha
direttamente a che fare con la pace collettiva e la qualità del vivere. Il
rispettare una legge non produce in loro l’impressione di contribuire al
benessere e alla sicurezza generali, di
cui ciascuno poi per proprio conto. Al contrario, li fa sentire spossessati di
qualcosa, privati di una loro speciale libertà, mortificati nel loro spirito
autoassertivo. (…). In fondo, la mancanza di senso dello stato che viene spesso
attribuita ai nostri politici e civil servant (e che è stato dichiarata
candidamente dal nostro primo ministro nel settembre 2004: io non ho senso
dello stato ma ho il senso dei cittadini) deriva dal seguente ragionamento,
(…): Dato che lo stato vuole limitare la mia libertà, la mia mission è quella
di rompere le limitazioni e di esser davvero libero (anzi, libbero: molti di questi
ideologi sono meridionali)”.
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