"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 8 aprile 2014

Cosecosì. 75 “Gli sfruttati di Marx ed i poveri di Gesù”.




Ha scritto Corrado Augias sul quotidiano la Repubblica di oggi martedì 8 di aprile, in risposta ad un lettore di quel quotidiano – “Perché gli sfruttati di Marx non sono i poveri di Gesù” -: (…). …cristianesimo e marxismo sono gli unici due grandi movimenti ad aver messo i poveri al centro della loro dottrina. C’è anche nel marxismo un certo messianismo che non stupisce essendo anche Marx un ebreo. Le analogie però, a mio parere, finiscono qui diversi essendo metodo e finalità di questa presa di coscienza. Marx ragionava in termini di classi sociali, più che ai poveri pensava agli “sfruttati” cioè ai produttori che venivano depredati di una parte del loro lavoro dal sistema capitalistico. È il famoso “plusvalore”, ovvero la differenza tra il valore del prodotto del lavoro e la remunerazione sufficiente al mantenimento della forza-lavoro. Degli individui a Marx importava poco (?), la sua finalità era che le masse, presa coscienza del loro sfruttamento, si ribellassero facendosi levatrici di storia. L’esatto contrario per Gesù che pensava soprattutto ai singoli. È a questo punto che il discorso dell’illustre Autore mi si fa contorto.
Quasi manicheo, nel senso che sembra e voglia essere proteso unicamente ad accentuare le differenze tra quelle due visioni del mondo ritenendole inconciliabili. Continua infatti a scrivere: Egli (l’Uomo di Nazareth n.d.r.) voleva che sani e ammalati, poveri e ricchi sedessero alla stessa mensa, spezzando lo stesso pane. Prima ancora pensava però alla loro salvezza eterna. Che quell’Uomo “nuovo” di Nazareth pensasse in termini di trascendentalità può star pure bene solo che si pensi al divario di epoche che i due, l’Uomo di Nazareth e l’Uomo di Treviri, sono stati destinati a vivere. È certamente vero che il primo, quell’Uomo di Nazareth, avesse a parlare in termini di individualismo, ché a quel tempo i grandi sommovimenti di massa, alla luce di problematiche sociali più stringenti e più avanzate, non penso si potessero immaginare ancor che pensare. L’Uomo di Treviri, che è stato un uomo del secolo decimo-nono, aveva sotto il Suo sguardo attento e speculativo la povertà dickensiana, in quella terra di Albione che vedeva il nascere e l’affermarsi della più spinta industrializzazione, con tutte le conseguenze del caso. Ché l’Uomo di Nazareth possa essere stato al suo tempo spettatore di simili sconvolgimenti? Lo escludo! Nella Sua missione salvifica quell’ebreo aveva posto in cima ai suoi pensieri la salvezza degli individui. E sì che a questo punto c’è da concordare con l’illustre Autore quando afferma: Erano gli individui che voleva rinati alla luce dello spirito; predicava una loro trasformazione interna più che un rivolgimento sociale. Più che di riformare la società Egli si proponeva di risanare gli uomini anche in vista di un avvento del Regno che riteneva, come molti altri, imminente. Ecco, l’Uomo di Nazareth è stato uomo del suo tempo, come l’Uomo di Treviri è stato uomo del suo tempo. E ce ne corre di differenza! Tanto è vero che l’Uomo di Treviri, gran borghese ed estimatore di quella classe sociale, affidava ad essa, almeno nelle sue frange di classe più operative ed illuminate, la fase iniziale della sua rivoluzione che avrebbe dovuto attecchire non certo in uno sfondo socialmente arretrato - come sarebbe stata la Palestina dell’Uomo di Nazareth anche nel secolo decimo-nono – bensì in un ambito socialmente più avanzato e strutturato. Penso anche che l’Uomo di Treviri pensasse agli uomini non nella loro solitaria, sterile individualità ma uniti in una visione del comune destino che solamente la solidarietà di classe avrebbe rafforzato sino a trasformare quella parte di umanità, ancora soccombente, in un nuovo protagonista della Storia umana. E la Storia sta lì non tanto a sconfessare quelle grandi intuizioni – pensando solo ed esclusivamente al disastro del cosiddetto socialismo reale – quanto ad avvalorarne le tesi di fondo che hanno visto la nascita e l’affermarsi, nel corso del 19° e 20° secolo, di tutti quei movimenti che al pari delle grandi rivoluzioni – Illuminismo e Rivoluzione Francese – hanno sottratto quella parte di mondo che oggigiorno configuriamo nella moderna Europa all’arretratezza ed alla miseria materiale e di pensiero. Mi trovo in verità molto più in sintonia con quanto ha scritto Claudio Sardo sul quotidiano l’Unità di domenica 8 di aprile (strana, provvidenziale coincidenza di date!) dell’anno 2012 – “La radice cristiana” – che viene in soccorso per una interpretazione più realistica di quel che è stato il Cristianesimo, senza confessionalità aggiunta: (…). Il cristianesimo non è una cultura, né una morale. Già la lettera a Diogneto, uno dei primissimi manoscritti cristiani, sottolinea che i seguaci di Gesù non sono «da distinguere dagli altri uomini né per regione, né per voce, né per culture» e che «partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri». Il cristianesimo è un incontro che modifica un destino. Lo stesso orizzonte escatologico la vittoria della vita sulla morte non è motivo di separatezza, né alibi per chiusure fondamentaliste. È semmai una spinta a vivere le contraddizioni della città dell’uomo e partecipare con gli altri alle sue liberazioni. Da questa fedeltà scaturisce, prima che da una dottrina, l’impegno sociale dei credenti, il nodo inscindibile tra fede e carità, dunque anche il contributo a tanti movimenti progressisti. Del resto, come contenere la forza delle Beatitudini, oppure quella del Magnificat: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha mandato i ricchi a mani vuote». Naturalmente nella storia la Chiesa si è trovata tante volte dalla parte della conservazione politica, o della reazione autoritaria contro la modernità e la scienza. Ma sarebbe un errore non cogliere, accanto ai limiti e agli errori, il contributo importante che la fede anche come forza rinnovatrice della stessa pratica religiosa porta alla comunità intera. Innanzitutto proprio perché non rinuncia a dare un valore e un traguardo alla storia dell’uomo: il mondo migliore non si potrà raggiungere del tutto, ma può essere avvicinato. E non per una imposizione divina, bensì perché la libertà e la capacità degli uomini sono in grado di modificare gli equilibri dei poteri. La fede cristiana non comprime l’impegno sociale dell’uomo né la sua sfida politica: è anzi una spinta ad agire, guidata da una luce ottimistica sulla ragione. Per questo può portare speranza al pensiero progressista. E non è poco in un tempo come questo, dominato dal paradigma individualista il cittadino solo davanti al mercato e allo Stato e dalla prepotenza della globalizzazione finanziaria che sottomette le stesse istituzioni democratiche -. In fondo individualismo e strapotere della finanza sono due facce della stessa medaglia: non a caso qualcuno ha parlato di «fine della storia». Tutte le idee di fraternità e uguaglianza, di solidarietà e di liberazione si fondano invece sulla convinzione che la storia non finirà finché ci sarà l’uomo. Che si può cambiare. Che si può cambiare insieme. Nessuna autorità sulla terra e neppure le crisi che colpiscono la Chiesa potranno impedire ai cristiani di impegnarsi per una società più giusta. E questa forza in campo continuerà ad alimentare la speranza e l’impegno di tutti gli uomini di buona volontà, che vogliono costruire un mondo migliore in nome di diverse visioni dell’uomo. (…). Non ci sono liberazioni facili. La vita è una battaglia. Dove l’uomo rischia se stesso e dove gli errori incombono. Ma ciò di cui non possiamo essere privati è il desiderio, la volontà di costruire con le nostre mani. La politica è uno strumento di questa costruzione. Non l’unico. Non c’è politica senza un umanesimo, senza un’idea dell’uomo. Non c’è giustizia se l’uomo non viene considerato nella sua interezza, titolare di sentimenti, vocazioni, carismi, socialità. Ma la politica è importante ed oggi è minacciata da un pensiero dominante che cerca di eliminarla, o marginalizzarla. La nostra società, avvolta da una crisi non solo economica, ha bisogno di riconoscere il tremendo significato antropologico di questo furto di speranza nella storia futura. L’uomo è impoverito più delle sue tasche. È un furto perpetrato innanzitutto a danno dei giovani. La sinistra di cui abbiamo bisogno deve essere capace di raccogliere da tutte le fonti, da tutte le energie disponibili, la forza per cambiare. E le fedi religiose possono essere tra queste fonti molto propizie. 

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