“Ce ne faremo una ragione”.
È il mantra di questi giorni. Irriverente. Come tutte le cosiddette “battute”
di un qualsivoglia “bagaglino”. Il peggio del peggiore degli avanspettacoli. Ma
detto nei fatti della politica. Incontra incontrastato successo. È accaduto in
tante altre occasioni. È la formuletta magica che poi corre di bocca in bocca,
per tutte le ubertose contrade del bel paese, in bocca ad un popolo imbesuito. Ha
scritto quel grande, geniale viaggiatore inglese che ha nome George Robert
Gissing (1857-1903) nel Suo celeberrimo “Sulle
rive dello Jonio” (1901): Tutte le colpe degli italiani sono perdonate
appena la loro musica risuona sotto il loro cielo. E poi, dopo aver
dismessa la pietistica benevolenza aggiungere una annotazione sociologica che
ha resistito al tempo: È un paese stanco e pieno di rimpianti, che
guarda sempre indietro, verso le cose del passato; banale nella vita presente e
incapace di sperare sinceramente nel futuro.(…). È legittimo condannare i
dirigenti dell’Italia, quelli che s’incaricano di plasmare la sua vita politica
e sconsideratamente la caricano di pesi insopportabili.
Sembra scritto da un viaggiatore di questo primo decennio di secolo. “Ce ne faremo una ragione” è il mantra di questi giorni. Come quel “rosiconi” dell’arrembante che, nell’immaginario collettivo, rimanda a quella più che diffusa fobia scientificamente definita “musofobia”. Scriveva Curzio Maltese sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 27 di maggio dell’anno 2011: - “Cosa accadrà dopo di lui nel paese dei pinocchi che non sanno crescere” -: Il berlusconismo è stato per quasi vent’anni una risposta culturale, prima che politica, al bisogno di un’intera nazione di sfuggire ai dilemmi del presente. È stata la fissazione ad un paesaggio degli anni Ottanta, l’infantilizzazione prima e la regressione totale poi di una società che ha smarrito verso la metà degli anni Ottanta la speranza di un futuro migliore. L’illusione che tutti i problemi complessi della modernità, dalla mondializzazione dell’economia alla concorrenza dei mercati emergenti, dalla riconversione post industriale all’immigrazione, potessero essere risolti a colpi di slogan e miracoli, ricondotti a vecchie categorie di visione del mondo come il comunismo e l’anticomunismo. Questa restaurazione è dilagata, in assenza di un vero progetto alternativo e moderno di sinistra, ha finito per conquistare tutti i territori. Non solo la politica, ma la comunicazione, il costume, i modelli culturali e la vita quotidiana. Il modo per esempio di considerare la figura della donna, con un salto all’indietro di quaranta o cinquant’anni, a molto prima dei movimenti femministi. La maniera di gestire o meglio di ignorare del tutto il problema del ricambio generazionale, costringendo i giovani italiani a una condizione unica in Europa e nell’Occidente democratico di eterna infanzia, perenne precarietà. Il ritorno alla fanciullezza di un Paese troppo invecchiato è stata la chiave del berslusconismo, ben rappresentata dall’immagine che vediamo ogni sera sulle nostre televisioni. Lo spettacolo di anziani signori che litigano, urlano e ripetono come filastrocche le stesse cose, come appunti in una classe d’asilo gestita da un supplente distratto. Non serve allora invitare a moderare i toni. Piuttosto un esempio volto a maturare i toni, a confrontarsi da persone adulte. A questo infantilismo da bambini capricciosi e anarcoidi si è piegata tutta la cultura, anche quell’opposizione che continua a sfornare antidoti bambineschi alla malattia, non solo attraverso i casi eclatanti di Di Pietro e Grillo. Nel regno dei Pinocchi mai cresciuti è normale che vinca il più bravo a raccontare bugie. Uscire da questo incantesimo alimentato per vent’anni, in assenza si spera di eventi catastrofici, sarà molto più difficile che liberarsi di Berlusconi. Ecco che ai “casi eclatanti di Di Pietro e Grillo” or se ne aggiunge un terzo arrembante nel sembiante, nel fare e nel pensare. La tanto attesa discontinuità s’è così vanificata. “Ce ne faremo una ragione”. Ma quando? Quando si sarà presa coscienza che il ventennio non ancor trascorso lascia il suo velenoso operare nelle pieghe più profonde di un popolo mitridatizzato ed imbesuito oltre misura? Era giocoforza che volendosi sostituire all’unto si dovesse ripercorrere la stessa via. “Ce ne faremo una ragione”. Dei corpi sociali. Già! Dei “professoroni”. Bene! E poi? Di tutto ciò che possa intromettersi con il “sapere critico”, con lo “spirito critico”. Categorie sempre invise ai detentori del potere. “Ce ne faremo una ragione”. Ma quando? E poi, sono ancora intatte le forze intellettuali e morali per contrastare la muova marea montante? Titola Silvia Truzzi la Sua intervista al professor Gustavo Zagrebelsky su “il Fatto Quotidiano” del 9 di marzo “Questo renzismo è una girandola di parole a vuoto”: - A un certo punto, (…), Ippolít dice a Myskin (ne’ “L’idiota” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij n.d.r.) ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza’. (…). Infatti, l’hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell’Oscar a La grande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non dire nulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è detto in certo modo, è anche seducente. (…).
Sembra scritto da un viaggiatore di questo primo decennio di secolo. “Ce ne faremo una ragione” è il mantra di questi giorni. Come quel “rosiconi” dell’arrembante che, nell’immaginario collettivo, rimanda a quella più che diffusa fobia scientificamente definita “musofobia”. Scriveva Curzio Maltese sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 27 di maggio dell’anno 2011: - “Cosa accadrà dopo di lui nel paese dei pinocchi che non sanno crescere” -: Il berlusconismo è stato per quasi vent’anni una risposta culturale, prima che politica, al bisogno di un’intera nazione di sfuggire ai dilemmi del presente. È stata la fissazione ad un paesaggio degli anni Ottanta, l’infantilizzazione prima e la regressione totale poi di una società che ha smarrito verso la metà degli anni Ottanta la speranza di un futuro migliore. L’illusione che tutti i problemi complessi della modernità, dalla mondializzazione dell’economia alla concorrenza dei mercati emergenti, dalla riconversione post industriale all’immigrazione, potessero essere risolti a colpi di slogan e miracoli, ricondotti a vecchie categorie di visione del mondo come il comunismo e l’anticomunismo. Questa restaurazione è dilagata, in assenza di un vero progetto alternativo e moderno di sinistra, ha finito per conquistare tutti i territori. Non solo la politica, ma la comunicazione, il costume, i modelli culturali e la vita quotidiana. Il modo per esempio di considerare la figura della donna, con un salto all’indietro di quaranta o cinquant’anni, a molto prima dei movimenti femministi. La maniera di gestire o meglio di ignorare del tutto il problema del ricambio generazionale, costringendo i giovani italiani a una condizione unica in Europa e nell’Occidente democratico di eterna infanzia, perenne precarietà. Il ritorno alla fanciullezza di un Paese troppo invecchiato è stata la chiave del berslusconismo, ben rappresentata dall’immagine che vediamo ogni sera sulle nostre televisioni. Lo spettacolo di anziani signori che litigano, urlano e ripetono come filastrocche le stesse cose, come appunti in una classe d’asilo gestita da un supplente distratto. Non serve allora invitare a moderare i toni. Piuttosto un esempio volto a maturare i toni, a confrontarsi da persone adulte. A questo infantilismo da bambini capricciosi e anarcoidi si è piegata tutta la cultura, anche quell’opposizione che continua a sfornare antidoti bambineschi alla malattia, non solo attraverso i casi eclatanti di Di Pietro e Grillo. Nel regno dei Pinocchi mai cresciuti è normale che vinca il più bravo a raccontare bugie. Uscire da questo incantesimo alimentato per vent’anni, in assenza si spera di eventi catastrofici, sarà molto più difficile che liberarsi di Berlusconi. Ecco che ai “casi eclatanti di Di Pietro e Grillo” or se ne aggiunge un terzo arrembante nel sembiante, nel fare e nel pensare. La tanto attesa discontinuità s’è così vanificata. “Ce ne faremo una ragione”. Ma quando? Quando si sarà presa coscienza che il ventennio non ancor trascorso lascia il suo velenoso operare nelle pieghe più profonde di un popolo mitridatizzato ed imbesuito oltre misura? Era giocoforza che volendosi sostituire all’unto si dovesse ripercorrere la stessa via. “Ce ne faremo una ragione”. Dei corpi sociali. Già! Dei “professoroni”. Bene! E poi? Di tutto ciò che possa intromettersi con il “sapere critico”, con lo “spirito critico”. Categorie sempre invise ai detentori del potere. “Ce ne faremo una ragione”. Ma quando? E poi, sono ancora intatte le forze intellettuali e morali per contrastare la muova marea montante? Titola Silvia Truzzi la Sua intervista al professor Gustavo Zagrebelsky su “il Fatto Quotidiano” del 9 di marzo “Questo renzismo è una girandola di parole a vuoto”: - A un certo punto, (…), Ippolít dice a Myskin (ne’ “L’idiota” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij n.d.r.) ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza’. (…). Infatti, l’hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell’Oscar a La grande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non dire nulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è detto in certo modo, è anche seducente. (…).
Professore, che impressione le
hanno fatto i discorsi del neo premier? - Mah! Non tutto piace a tutti allo
stesso modo. In attesa di smentite, mi par di vedere, dietro una girandola di
parole, il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello
status quo. Una volta Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono ‘razza
padrona’ un certo equilibrio oligarchico del potere. Oggi, piuttosto
riduttivamente, la chiamiamo ‘casta’. Un’interpretazione è che un sistema di
potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi
il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori,
riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno. Vorrei dire agli uomini (e
alle donne) nuovi del governo: attenzione, voi stessi, a non prendere troppo
sul serio la vostra novità -.
Il filo rosso di queste
conversazioni è come sta l’Italia. Le risposte non sono quasi mai state
incoraggianti: ci siamo chiesti quali responsabilità abbia la classe dirigente.
- La classe dirigente – (…) – è decaduta a un livello culturale imbarazzante.
La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il
potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura
incompatibile, contraddittoria. Potremmo usare un’immagine: c’è una lastra di
ghiaccio, sopra cui accadono le cose che contano, sulle quali però s’è persa la
presa; cose rispetto a cui siamo variabili dipendenti: la concentrazione del
potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il
degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni, per esempio. Ne subiamo le
conseguenze, senza poter agire sulle cause. Tutto ciò, sopra la lastra. Sotto
sta la nostra ‘classe dirigente’ che dirige un bel niente. Non tenta di mettere
la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno
tentare di metterle in pratica. Che cosa resta sotto la crosta? Resta il
formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli
poteri oligarchici, un formicolio che interessa i pochi che sono in quella
rete, che si rinnova per cooptazione, che allontana e disgusta la gran parte
che ne è fuori. La politica si riduce alla gestione dei problemi del giorno per
giorno, a fini di autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri.
(…). Le cose che, oggi, vengono dette e fatte sono pezze, sono rattoppi
d’emergenza, necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella
migliore delle ipotesi, se non è puro ‘potere per il potere’, è gestione
tecnica. La tecnica guarda indietro; la politica dovrebbe guardare avanti -.
(…).
Giovani parlamentari e governanti
dovrebbero avere un’idea del mondo. - Basta essere nuovi e giovani? No. Quello
che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è
espressione. Una volta si parlava di blocco sociale, pensando alle ‘masse’
organizzate in partiti di appartenenza, in sindacati d’interessi consolidati.
Si pensava alle classi sociali. Oggi, siamo lontani da tutto questo, in attesa
della ricomposizione di qualche struttura sociale che possa esprimere esigenze,
richieste e forze propriamente politiche. In questo vuoto politico-sociale che
cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che
esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma,
ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società
capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i
partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per
di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si
promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano”
giovani uguali ai vecchi. Ecco la parola: il rinnovamento sembra molto spesso
un ‘allevamento’. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo,
giovanilismo, futurismo, creativismo ecc. Tutte cose ben note e di spiegabile
successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava.
Ma, la novità di sostanza dov’è? La ‘rottamazione’ a che cosa si riduce? (…).“Ce
ne faremo una ragione” di tutto ciò. Ma quando?
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