Ha
scritto Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica del 2 di aprile col
titolo “Osare più democrazia”: «Per governare efficacemente nel XXI secolo
serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di
legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra
». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli
imperativi. Cambiano le sequenze, perfino i vocaboli: prioritaria diventa la
rapidità, e i ministri sono «componenti di squadre». (…). In fondo è
qualcosa di già visto e sentito. Portato ora a compimento. E già che si è sul
viale della “rottamazione” a tutto spiano si era pur sentito dire che nelle
cosiddette “camere” sarebbe stato bastevole fare votare non i
rappresentanti eletti dal sempre cosiddetto popolo sovrano ma solamente i
cosiddetti capi-gruppo. Una semplificazione annunciata ed auspicata quando
della “rottamazione” non si aveva ancora contezza. Ma c’è un “ma” che
induce a riflettere.
Scrive in proposito Barbara Spinelli: Ovunque i governi sentono che la
terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo
lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione,
ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi. La perdita di sovranità e
il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate
sono il problema, non i «lacci» interni che sono la Costituzione, i sindacati,
addirittura il suffragio universale. Il farmaco non è la velocità in sé, ma il
cambio di prospettiva. L’equivoco è ben spiegato dal sociologo Zygmunt Bauman:
la crisi del governare è indubbia, «benché in definitiva sia una crisi di
sovranità territoriale» (…). Scansare gli ingombri della democrazia è una
tentazione ormai antica in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi.
(…). È in fondo la tanto attesa “confessione” da parte di una politica
che si sente messa all’angolo e che misura, in quel suo agitarsi forsennato e
senza senso, l’inadeguatezza della propria risposta “politica” alle esigenze di
un mondo che si globalizza sempre più e di fronte al quale essa, la politica
che non sa fare più politica, si trova spiazzata nelle analisi e nelle
proposte. Avviene così che il soverchiante potere del capitalismo della finanza
possa dettare l’agenda alla politica che rinuncia di fatto ad intervenire sulla
realtà nuova di un mondo senza più limiti interni. L’anacronismo dell’oggi –
sempre che così lo si possa definire - è che le ambizioni di semplificazione e
di “rottamazione”
proprie di una destra becera ed avventuriera e senza ambizioni di governare le
nuove realtà siano state messe in cantiere proprio da quella parte avversa che
un tempo veniva definita la sinistra. E l’anacronismo sta proprio in ciò,
ovvero nella constatazione dell’inesistenza di una “sinistra” che possa
contrapporsi validamente e contenere lo straripante potere della finanza che
incontrastata detta le sue regole al mondo sempre più globalizzato. A questo proposito ho trovato interessante l’intervista
di Paolo Griseri al sociologo Marco Revelli – “Post-sinistra: la catastrofe di un mondo senza politica” - pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 22
di marzo: (…). Revelli, che cosa resta oggi della sinistra? «Resta ben poco.
Perché resta molto poco della politica, della capacità di offrire
un’alternativa razionale a quello che è sempre stato definito l’ordine naturale
delle cose, l’immutabile susseguirsi di scelte che privilegiano una piccola
parte della società a scapito di una maggioranza subalterna».
Politica e sinistra sono dunque sinonimi?
«Nell’Occidente capitalista è così. La destra non propone di mettere regole
all’economia e al sistema sociale. Al contrario, propone di toglierle: non si
fa carico di una proposta organica di società ma si limita a suggerire le
ricette ideali perché sia il libero mercato con i suoi istinti a plasmare la
realtà».
Dunque dire che non c’è più la politica, significa
dire che ha vinto la destra? «In un certo senso è così. Non ha vinto una destra
politica in senso stretto, ma hanno vinto i tecnocrati che applicano le sue
ricette. Mi colpì molto, un anno fa, la considerazione che fece il
neogovernatore della Bce, Mario Draghi, all’indomani del controverso risultato
elettorale alle politiche italiane. Eravamo effettivamente in una situazione di
stallo, aperta a tutti gli esiti possibili. Draghi commentò: “Non c’è da
preoccuparsi in modo particolare. Chiunque alla fine governerà, sulle grandi
scelte c’è un pilota automatico che garantisce la rotta”».
Perché la colpì quella frase? «Perché quella frase è
la negazione della politica. È come se i passeggeri spendessero molto tempo a
scegliere il pilota per poi scoprire che, chiunque sia ai comandi, la rotta è
già tracciata da altri ».
Chi può oggi invertire la rotta tracciata dai
tecnocrati? «Non vedo molte possibilità. Il mercato della politica offre poche
alternative credibili. Ci sono diversi populismi che provano non a invertire la
rotta ma a rassicurare (o a aizzare, che è lo stesso) i passeggeri dell’aereo.
Sono tutte quelle proposte che promettono di tutelare settori particolari della
popolazione: difendere gli indigeni dagli immigrati, i benestanti dall’assalto
dei poveri, ma anche i cittadini dalla casta dei politici».
Per riassumere, dalla Lega a Grillo? «Con le loro
diversità, naturalmente. Ma li ascriverei tutti alla categoria dei populismi».
Poi c’è la sinistra rappresentata dal Pd e, oggi, da
Renzi. Qual è il suo giudizio? «Il Pd è una forza politica che non ha più nulla
a che vedere con la tradizione della sinistra italiana del Novecento. Renzi è
l’ultima bandiera di un’idea della politica che si fonda sulla
personalizzazione e sull’illusione della cosiddetta ripresa. L’idea cioè che la
crisi di questi anni sia come una malattia che passa e poi tutto torna come
prima. Sappiamo tutti che non sarà così ma ci piace credere che con 85 euro al
mese in più in busta paga l’economia riprenderà e passeranno tutti i problemi».
Eppure non si può certo aspettare che arrivi la
catastrofe per cambiare il mondo. E se la catastrofe non arriva? Siamo ancora
ad aspettare la caduta tendenziale del saggio del profitto... «Non si tratta di
attendere la catastrofe ma di guardare la realtà. È evidente che l’attuale
situazione non può proseguire a lungo. Un mondo in cui 85 miliardari possiedono
la ricchezza di tre miliardi di persone non è un mondo che abbia grandi
prospettive. Possiamo far finta che non sia così, possiamo credere che ci sia
la luce in fondo al tunnel ma sappiamo che non è vero».
Un tempo la sinistra aveva proposte di sviluppo.
Modelli alternativi ma realistici per il cambiamento. Oggi non rischia di
proporre solo suggestioni per un mondo che verrà chissà quando? «La sinistra si
è identificata per molti anni con la modernità, con una certa idea di
ammodernamento del mondo. Ma dopo la fine del Novecento che cosa è la
modernità? Velocità e cemento? Pura mitologia del fare?» (…). Conclude Barbara
Spinelli la Sua analisi: L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci
che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli
organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non
elettivi. (…). Più fondamentalmente, l’impotenza dei governi non si sormonta
ignorando il male scatenante che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e
cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a
decidere il lecito e l’illecito. È stata la JP Morgan a sentenziare, in un
rapporto del 28-5-13, che l’intralcio, nel Sud Europa, viene da costituzioni
troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: costituzioni «caratterizzate
da esecutivi e stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro,
dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo». Così
come dalla crisi europea si esce con più Europa, anche dalla crisi delle
democrazie si esce con più democrazia. (…). I continui conflitti sociali e
istituzionali sono un rischio delle democrazie, non una maledizione.
Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni
(«ce ne faremo una ragione») sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole:
i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare.
Resta il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’»unzione »
plebiscitaria di Berlusconi. (…). Manca uno spirito cosmopolita della
democrazia: qui è il cambio di prospettiva. L’Europa potrebbe incarnarlo, se
agisse come argine contro le crisi delle democrazie nazionali, e al contempo
contro l’arbitrio dei mercati. Più democrazia e più governabilità non si
escludono a vicenda; non si conquistano «in sequenza ». O si realizzano
insieme, o perderemo l’una e l’altra. Un pro-memoria per le elezioni
del 25 di maggio.
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