25 di Aprile 1945. Le "ragazze" della Liberazione.
Ha scritto Sebastiano Vassalli
nel Suo “Infinito numero”: (…).
Gli uomini, senza la lettura, non conoscono che una piccola parte delle cose
che potrebbero conoscere. Credono di essere felici perché fottono, si riempiono
le pance di cibo e di vino e addolciscono le loro vite con questi piaceri,
assolutamente uguali per tutti; ma la lettura gli darebbe cento, mille vite, e
una sapienza e un dominio sulle cose del mondo che appartengono solamente agli
dei. Io, almeno, ne sono convinto. Così, del primato della lettura. Che
è la “memoria”
resa materiale su supporti che siano cartacei o di qualsivoglia altro materiale.
Poiché nella lettura la “memoria” è fissata, quasi per
sempre; e si rende presente, fruibile, ché non lo sarebbe senza il supporto
materiale. E chi non ama coltivare la “memoria” distrugge quei supporti
sui quali la “memoria” è resa fruibile ed alla portata di tutti. Bruciare
libri e quant’altro per cancellare la “memoria” non condivisa. Così è
sempre stato. Ed ancor oggi la lettura delle storie raccontate dai “ragazzi”
di allora, di quelli della Liberazione, aiutano a recuperare quella “memoria”
senza la quale il mondo di ciascuno di noi sarebbe come avvolto nella cecità
più totale. Così, noi che ne abbiamo la fortuna e la voglia di farlo, nella lettura
dei ricordi di Carlo Ricchini – tredicenne al tempo dei Suoi ricordi, tratti da
l’Unità del 24 di aprile dell’anno 2011 -, facciamo nostra quella storia grande
della Liberazione dalla tirannide fascio-nazista che tanto è costata in lacrime
e sangue ai “ragazzi” di allora. Noi, che siamo stati “ragazzi” diversamente e
senza gli affanni di quel tempo crudele e che torniamo come per incanto ad
esserlo leggendo i ricordi dei “ragazzi” di quel tempo.
Territorio di Santo Stefano
Magra, frazione di Ponzano, mattina del 9 settembre 1943. Giorni prima, nella
pineta a ridosso dei muri del cimitero della Madonnetta, si era accampato, come
in altre zone della provincia spezzina, un reparto di alpini reduci dal fronte
russo, stanchi sfiniti, malati, feriti. Avevo fatto amicizia con uno di loro,
Pietro, un sergente alto, magro, scuro nel volto e schivo nei comportamento.
Era di Borgotaro. Sorrideva un poco quando mi incontrava. Gli raccontavo le mie
storie di ragazzo tredicenne e lui, ogni tanto, della tragedia che aveva
vissuto nel gelo, fra morti e cannonate. Sempre poche parole, come se provasse
vergogna d’essere rimasto fra i vivi. Qualche volta mi regalava la pagnotta del
suo rancio e io gli portavo grappoli di uva bianca che rubavo nella vigna del
prete. Quella mattina (la sera prima la radio aveva annunciato l’armistizio)
correvo lungo il sentiero che da casa portava alla pineta, ero felice, ridevo
quando feci irruzione nella tenda. Trovai Pietro piegato sullo zaino, preparava
le sue cose, scuro ancora più in volto. Ma come, non sei contento? E’ finita la
guerra. Puoi tornare a casa. La guerra, comincia ora, qui. Vedrai. Mi sentii
gelare. Prese la via dei monti. Non l’ho più incontrato.
I partigiani stavano sul monte
Grosso. Ogni tanto scendevano a valle per rifornimenti, per abbracciare i
familiari. Quei tre giovani, presi all’alba in una imboscata, erano tutti di
Santo Stefano. Li vidi verso le 9 del mattino, era il 20 agosto, giornata
torrida, li tenevano nel cortile della villa requisita dal comando tedesco.
Erano legati, circondati da soldati con la svastica. La gente, sulla strada,
diceva che li stavano processando. Riconobbi Dario Pietra, un operaio dei
cantieri navali di Muggiano. Mi lanciò un’occhiata piena d’angoscia. Accanto a
lui, con il capo reclinato, lo sguardo a terra, Gino Spadoni e Giovanni
Baruzzo. Più tardi, stretti fra una decina di soldati, li vidi trascinarsi
sulla strada che si inerpica verso Ponzano Superiore. Alla chiesa i soldati
sbarrarono la strada mentre gli altri, con i prigionieri, che ora portavano in
spalla picconi e badili, si spostavano poco lontano dal campanile, su un
terrapieno alberato, nell’ombra, affacciato a un dirupo e sul fianco a una
vigna che a gradoni scendeva verso un torrente.. “Scavate tre fosse”,
ordinarono i tedeschi ai prigionieri. E Dario, Gino e Giovanni, cominciarono a
picconare, senza energia, lentamente, come per guadagnare ancora qualche
respiro di vita. “Ci ammazzeranno fra poco”, disse Dario ai suoi compagni, bisogna
tentare il tutto per tutto. Morire per morire…Guardate ora non ci stanno
guardando, stanno mangiando l’uva…” Ma i suoi compagni ebbero appena la forza
di scuotere la testa. “Vai tu…”. E Dario impalò la terra, la lanciò col badile
sui tedeschi mentre si gettava dal poggio, in mezzo agli sterpi, fra gli
alberi, in una corsa disperata mentre le pallottole gli balzavano tutte
intorno. Si portò fuori tiro, in salvo. Spadoni e Baruzzo furono subito uccisi,
ricoperti con un palmo di terra.
Il rumore che veniva dal cielo
seminava terrore. E non riuscivi a dormire: l’angoscia, la paura, sembrava
entrare nel sangue per giungere al cuore in agitazione. C’era Pippo. Era un
caccia americano che volava di notte ad alta quota: andava e tornava, girava
intorno a paesi, strade, gruppi di case isolate nella campagna. Pare avesse un
radar, ma non colpiva obiettivi militari. Il suo compito era seminare terrore.
Ogni tanto lasciava cadere bombe di piccolo calibro o spezzoni incendiari,
sulle case. Un aereo killer. Una notte, sganciò il suo carico su una casupola
isolata, vicino all’abitato di Santo Stefano, nella campagna verso il fiume
Magra. Uccise nel sonno tre bambini. Li ricordo sul grande lettone dei
genitori, uno accanto all’altro, vestiti con gli abiti della prima comunione,
il fazzoletto bianco nel taschino.
Non c’era più nulla da mangiare.
Il fronte era da mesi fermo a Montagnoso, a pochi chilometri. Era l’estate del
1944. Ogni tanto, annunciate da un rumore sordo che provocava angoscia e
terrore, si vedevano solcare il cielo, sempre pulito e sereno, le fortezze
volanti. Scaricavano bombe laggiù, verso Massa, ma anche sui ponti sul fiume
Magra, senza colpirli. I tedeschi sparavano cannonate da Punta Bianca, il monte
di fianco alla foce del fiume. Tenevano sotto tiro la Versilia e le strade
verso Firenze e Livorno. Ma quasi in continuazione i boschi e i paesi della
sponda opposta, dov’erano i rifugiati i partigiani. Fame e paura. E a qualcuno
venne l’idea di andare a cercare farina verso Parma, nelle fattorie dell’Emilia.
Duecento chilometri, con le salite del valico della Cisa, da affrontare a
piedi, con zoccoli o scarpe scalcagnate. Si formarono cortei di carretti lungo
la strada della Cisa. Uomini di mezza età, ragazzi, donne, non i giovani che
rischiavano di finire in mano ai tedeschi e alle brigate nere ai posti di
blocco. Una marea di carretti, con ogni tipo di ruote, anche quelle di
biciclette o costruite con cuscinetti a sfera. Partecipai a due spedizioni, con
un carretto trainato a mano. La prima volta potemmo rifornirci vicino a
Berceto, la seconda, la farina ormai scarseggiava, ci spingemmo sino in
provincia di Piacenza. In collina. Ci aiutarono a comprare e a caricare i
sacchi un gruppo di partigiani. Amministravano i territori, erano tutti in
divisa. Ricevevano armi e vestiti dai lanci aerei degli alleati, rari dalle
nostre parti, dove gli uomini alla macchia vestivano stracci con le stella
rossa sul berretto. Le carovane della farina dovevano affrontare non poche
insidie: le rapine del denaro all’andata o del carico al ritorno, e i
mitragliamenti dei caccia americani sui tornanti della Cisa. Apparivano
all’improvviso, sparavano ad ogni cosa si muovesse sulla strada. Anche ai
carretti.
Finalmente, il 23 aprile 1945, fu
sfondato anche il lato della linea Gotica fra le Apuane e il mare. Pochi i
combattimenti, i tedeschi erano in fuga dal giorno prima. Arrivano, arrivano
gli americani. Noi ragazzi impazienti correvamo loro incontro nella strada a
rettilineo che veniva da Sarzana. Ad un tratto ci trovammo davanti un carro
armato, gigantesco, impressionante. Faceva paura solo a guardarlo. Dalla
torretta spuntava un cannoncino e la faccia sorridente e tonda di un sergente
nero, che, con due salti, scese con le mani piene di caramelle e cioccolate. Ci
sembrò un gigante. Chiese: “Dove sono stati visti i tedeschi l’ultima volta?”.
Un ragazzo indicò un sentiero sul monte, lontano. “Li ho visti ieri mentre
scappavano…”. Ma il sergente già gridava l’ordine e il cannone sparò a
ripetizione, per una decina di minuti, su quel pezzo di strada che per fortuna,
in quei minuti, era deserta.
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