"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 24 aprile 2012

Cosecosì. 13 Accadde domani, la Liberazione.


25 di Aprile 1945. Le "ragazze" della Liberazione.
 
Ha scritto Sebastiano Vassalli nel Suo “Infinito numero”: (…). Gli uomini, senza la lettura, non conoscono che una piccola parte delle cose che potrebbero conoscere. Credono di essere felici perché fottono, si riempiono le pance di cibo e di vino e addolciscono le loro vite con questi piaceri, assolutamente uguali per tutti; ma la lettura gli darebbe cento, mille vite, e una sapienza e un dominio sulle cose del mondo che appartengono solamente agli dei. Io, almeno, ne sono convinto. Così, del primato della lettura. Che è la “memoria” resa materiale su supporti che siano cartacei o di qualsivoglia altro materiale. Poiché nella lettura la “memoria” è fissata, quasi per sempre; e si rende presente, fruibile, ché non lo sarebbe senza il supporto materiale. E chi non ama coltivare la “memoria” distrugge quei supporti sui quali la “memoria” è resa fruibile ed alla portata di tutti. Bruciare libri e quant’altro per cancellare la “memoria” non condivisa. Così è sempre stato. Ed ancor oggi la lettura delle storie raccontate dai “ragazzi” di allora, di quelli della Liberazione, aiutano a recuperare quella “memoria” senza la quale il mondo di ciascuno di noi sarebbe come avvolto nella cecità più totale. Così, noi che ne abbiamo la fortuna e la voglia di farlo, nella lettura dei ricordi di Carlo Ricchini – tredicenne al tempo dei Suoi ricordi, tratti da l’Unità del 24 di aprile dell’anno 2011 -, facciamo nostra quella storia grande della Liberazione dalla tirannide fascio-nazista che tanto è costata in lacrime e sangue ai “ragazzi” di allora. Noi, che siamo stati “ragazzi” diversamente e senza gli affanni di quel tempo crudele e che torniamo come per incanto ad esserlo leggendo i ricordi dei “ragazzi” di quel tempo.

Territorio di Santo Stefano Magra, frazione di Ponzano, mattina del 9 settembre 1943. Giorni prima, nella pineta a ridosso dei muri del cimitero della Madonnetta, si era accampato, come in altre zone della provincia spezzina, un reparto di alpini reduci dal fronte russo, stanchi sfiniti, malati, feriti. Avevo fatto amicizia con uno di loro, Pietro, un sergente alto, magro, scuro nel volto e schivo nei comportamento. Era di Borgotaro. Sorrideva un poco quando mi incontrava. Gli raccontavo le mie storie di ragazzo tredicenne e lui, ogni tanto, della tragedia che aveva vissuto nel gelo, fra morti e cannonate. Sempre poche parole, come se provasse vergogna d’essere rimasto fra i vivi. Qualche volta mi regalava la pagnotta del suo rancio e io gli portavo grappoli di uva bianca che rubavo nella vigna del prete. Quella mattina (la sera prima la radio aveva annunciato l’armistizio) correvo lungo il sentiero che da casa portava alla pineta, ero felice, ridevo quando feci irruzione nella tenda. Trovai Pietro piegato sullo zaino, preparava le sue cose, scuro ancora più in volto. Ma come, non sei contento? E’ finita la guerra. Puoi tornare a casa. La guerra, comincia ora, qui. Vedrai. Mi sentii gelare. Prese la via dei monti. Non l’ho più incontrato.

I partigiani stavano sul monte Grosso. Ogni tanto scendevano a valle per rifornimenti, per abbracciare i familiari. Quei tre giovani, presi all’alba in una imboscata, erano tutti di Santo Stefano. Li vidi verso le 9 del mattino, era il 20 agosto, giornata torrida, li tenevano nel cortile della villa requisita dal comando tedesco. Erano legati, circondati da soldati con la svastica. La gente, sulla strada, diceva che li stavano processando. Riconobbi Dario Pietra, un operaio dei cantieri navali di Muggiano. Mi lanciò un’occhiata piena d’angoscia. Accanto a lui, con il capo reclinato, lo sguardo a terra, Gino Spadoni e Giovanni Baruzzo. Più tardi, stretti fra una decina di soldati, li vidi trascinarsi sulla strada che si inerpica verso Ponzano Superiore. Alla chiesa i soldati sbarrarono la strada mentre gli altri, con i prigionieri, che ora portavano in spalla picconi e badili, si spostavano poco lontano dal campanile, su un terrapieno alberato, nell’ombra, affacciato a un dirupo e sul fianco a una vigna che a gradoni scendeva verso un torrente.. “Scavate tre fosse”, ordinarono i tedeschi ai prigionieri. E Dario, Gino e Giovanni, cominciarono a picconare, senza energia, lentamente, come per guadagnare ancora qualche respiro di vita. “Ci ammazzeranno fra poco”, disse Dario ai suoi compagni, bisogna tentare il tutto per tutto. Morire per morire…Guardate ora non ci stanno guardando, stanno mangiando l’uva…” Ma i suoi compagni ebbero appena la forza di scuotere la testa. “Vai tu…”. E Dario impalò la terra, la lanciò col badile sui tedeschi mentre si gettava dal poggio, in mezzo agli sterpi, fra gli alberi, in una corsa disperata mentre le pallottole gli balzavano tutte intorno. Si portò fuori tiro, in salvo. Spadoni e Baruzzo furono subito uccisi, ricoperti con un palmo di terra.

Il rumore che veniva dal cielo seminava terrore. E non riuscivi a dormire: l’angoscia, la paura, sembrava entrare nel sangue per giungere al cuore in agitazione. C’era Pippo. Era un caccia americano che volava di notte ad alta quota: andava e tornava, girava intorno a paesi, strade, gruppi di case isolate nella campagna. Pare avesse un radar, ma non colpiva obiettivi militari. Il suo compito era seminare terrore. Ogni tanto lasciava cadere bombe di piccolo calibro o spezzoni incendiari, sulle case. Un aereo killer. Una notte, sganciò il suo carico su una casupola isolata, vicino all’abitato di Santo Stefano, nella campagna verso il fiume Magra. Uccise nel sonno tre bambini. Li ricordo sul grande lettone dei genitori, uno accanto all’altro, vestiti con gli abiti della prima comunione, il fazzoletto bianco nel taschino.

Non c’era più nulla da mangiare. Il fronte era da mesi fermo a Montagnoso, a pochi chilometri. Era l’estate del 1944. Ogni tanto, annunciate da un rumore sordo che provocava angoscia e terrore, si vedevano solcare il cielo, sempre pulito e sereno, le fortezze volanti. Scaricavano bombe laggiù, verso Massa, ma anche sui ponti sul fiume Magra, senza colpirli. I tedeschi sparavano cannonate da Punta Bianca, il monte di fianco alla foce del fiume. Tenevano sotto tiro la Versilia e le strade verso Firenze e Livorno. Ma quasi in continuazione i boschi e i paesi della sponda opposta, dov’erano i rifugiati i partigiani. Fame e paura. E a qualcuno venne l’idea di andare a cercare farina verso Parma, nelle fattorie dell’Emilia. Duecento chilometri, con le salite del valico della Cisa, da affrontare a piedi, con zoccoli o scarpe scalcagnate. Si formarono cortei di carretti lungo la strada della Cisa. Uomini di mezza età, ragazzi, donne, non i giovani che rischiavano di finire in mano ai tedeschi e alle brigate nere ai posti di blocco. Una marea di carretti, con ogni tipo di ruote, anche quelle di biciclette o costruite con cuscinetti a sfera. Partecipai a due spedizioni, con un carretto trainato a mano. La prima volta potemmo rifornirci vicino a Berceto, la seconda, la farina ormai scarseggiava, ci spingemmo sino in provincia di Piacenza. In collina. Ci aiutarono a comprare e a caricare i sacchi un gruppo di partigiani. Amministravano i territori, erano tutti in divisa. Ricevevano armi e vestiti dai lanci aerei degli alleati, rari dalle nostre parti, dove gli uomini alla macchia vestivano stracci con le stella rossa sul berretto. Le carovane della farina dovevano affrontare non poche insidie: le rapine del denaro all’andata o del carico al ritorno, e i mitragliamenti dei caccia americani sui tornanti della Cisa. Apparivano all’improvviso, sparavano ad ogni cosa si muovesse sulla strada. Anche ai carretti.

Finalmente, il 23 aprile 1945, fu sfondato anche il lato della linea Gotica fra le Apuane e il mare. Pochi i combattimenti, i tedeschi erano in fuga dal giorno prima. Arrivano, arrivano gli americani. Noi ragazzi impazienti correvamo loro incontro nella strada a rettilineo che veniva da Sarzana. Ad un tratto ci trovammo davanti un carro armato, gigantesco, impressionante. Faceva paura solo a guardarlo. Dalla torretta spuntava un cannoncino e la faccia sorridente e tonda di un sergente nero, che, con due salti, scese con le mani piene di caramelle e cioccolate. Ci sembrò un gigante. Chiese: “Dove sono stati visti i tedeschi l’ultima volta?”. Un ragazzo indicò un sentiero sul monte, lontano. “Li ho visti ieri mentre scappavano…”. Ma il sergente già gridava l’ordine e il cannone sparò a ripetizione, per una decina di minuti, su quel pezzo di strada che per fortuna, in quei minuti, era deserta.

Nessun commento:

Posta un commento