A fianco. Aldo Ettore Quagliozzi. Uno studio fotografico. "Isole".
Dominano le vie della città intera dall’alto e dalla vastità degli enormi manifesti pubblicitari. Dominano le strade di C*** nel quale luogo, al maggio prossimo, si celebreranno le ritualità democratiche del voto. Dominano inconsapevoli forse del disincanto e della rabbia che contribuiscono a diffondere tra la gente stordita da vite personali e familiari al limite della sopportazione. La cronaca si fa carico di allungare l’elenco macabro di chi non ce la fa più. E che prova a scendere dagli affanni patiti. Ce ne è uno che sfrontatamente promette “impegno, trasparenza, concretezza”. Verrebbe da chiedergli: “impegno” per fare che cosa? Forse e soltanto, verrebbe malignamente da pensare, gli affari propri e della propria congrega politica? Gli esempi in tal senso non mancano e non mancheranno mai. Le cronache, come sempre, stanno a darci notizie sempre più sconfortanti. Passa poi, quel tale, a promettere “trasparenza”. Su che cosa? Non sa il pivello che della sua “trasparenza”, concessaci dall’alto e nella vastità di quel manifesto, a noialtri non importa che sia un bel fico secco? E perché poi farci promessa di “trasparenza” quando essa, la “trasparenza” intendo dire, dovrebbe essere quel qualcosa, quel quid, necessario ed irrinunciabile per poter accedere alle competizioni elettorali e per assurgere alle alte responsabilità della conduzione della cosa pubblica? Chi ha valutato il suo grado di “trasparenza”? Gli iscritti al suo partito? Perché, signori, esiste ancora una vita interna dei partiti? Cosa ha esibito a fronte di questa dichiarata, promessa sua “trasparenza”? Di detta invereconda promessa non ho trovato traccia negli altri manifesti elettorali sinora affissi: ché quelle facce sorridenti non vogliano proprio impegnarsi nella “trasparenza” promessa dal pivello concorrente? Ha raggiunto comunque un prestigioso encomiabile risultato: essere l’unico a promettere “trasparenza”. Per non dire poi anche della “concretezza”. Un inatteso spirito di carità mi porta a sorvolare su quell’offerta di una supposta “concretezza” che lascia sgomenti per quanto prima pensato e detto a proposito dell’”impegno” e della “trasparenza” offerti alla gente. Per non dire poi di un altro che ha fatto scrivere sui suoi giganteschi manifesti “Se hai le mani libere…”. O signore, o dio dall’alto dei cieli: c’è da avere paura, poiché si parla in quella gigantografia proprio di “mani libere”, mica di “mani pulite”, che forse avrebbe avuto un appeal maggiore in una parte almeno dell’elettorato. Poiché quell’ammiccare alla libertà delle mani non promette nulla di buono. Un pensiero cattivo non mi abbandona: avere le “mani libere” per fare che cosa? Sono esagerazioni? Sono esasperazioni? Ché forse non c’è da essere esasperati sempre di più? Lo era anche il grande Italo Calvino in quel 15 di marzo dell’anno 1980 quando sul quotidiano la Repubblica pubblicava il Suo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”. Quanti lustri sono trascorsi da allora? Cosa è cambiato di così sostanziale? Lo trascrivo di seguito in parte. Grazie Italo.
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (…) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori, in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo di una sua autonomia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna, ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale, quindi, non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transazione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che, per la morale interna del gruppo era lecito, portava con sé una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene, il privato che si trovava ad intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro di aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva, senza ipocrisia, convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita. (…). La riscossione delle tasse, che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza di atto di forza (…), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori, pur provando anziché il sollievo del dovere compiuto, la sensazione sgradevole di una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché di soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro centro di potere. Così che era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle guerre tra interessi illeciti oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e di interessi illeciti come tutti gli altri. (…). Così tutte le forme di illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci, si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto, dunque, dirsi unanimemente felici gli abitanti di quel paese se non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano, costoro, onesti, non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici, né sociali, né religiosi, che non avevano più corso); erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso, insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno al lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione di altra persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli onesti erano i soli a farsi sempre gli scrupoli, a chiedersi ogni momento che cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che riscuotono troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in mala fede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (o almeno quel potere che interessava agli altri), non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile. Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che, così come in margine a tutte le società durate millenni s’era perpetuata una contro società di malandrini, tagliaborse, ladruncoli e gabbamondo, una contro società che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare “la” società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante ed affermare il proprio modo di esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera, allegra e vitale, così la contro società degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa di essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.
Grazie, Ettore. Conosco questo bellissimo apologo da molto tempo. Recentemente l' ho postato come commento sul Fatto Quotidiano. Buona Pasqua.
RispondiEliminaFranca.