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Debito
pubblico. Deficit pubblico. Tirare la cinghia. L’unico termine
del quale si ha completa contezza. Degli altri, sappiamo che sono gli spettri,
sempre inquietanti assai, che si aggirano ai giorni nostri. Aggiungeteci, da
oggi, «wage inequality» e siamo così al completo. Della «wage
inequality» ne ho letto sull’ultimo numero del settimanale
Affari&Finanza grazie alla penna sempre arguta e sempre documentata di
Massimo Giannini. Titolo del Suo articolo di spalla: “Se il manager è pagato 380 volte più dell’impiegato”. Di seguito
lo trascrivo nella sua interezza. Non perdo l’occasione di dire la mia. Quei
termini che riempiono le nostre giornate, anzi le nostre vite per intero, non
dicono tutto. Anzi non dicono nulla sociologicamente parlando. Non dicono essi,
nella loro fumosità e nell’indeterminatezza presso il grande pubblico del reale
loro contenuto, le cause reali, le responsabilità sociali e politiche che hanno
determinato la “crisi” che impoverisce le nostre vite e che nega un destino
diverso e migliore alle giovani generazioni di oggi. Non dicono, essi, che nel
mentre le moltitudini tirano e stringono ancor di più quella famosissima
cinghia c’è chi si arricchisce sempre di più determinando uno stato di gravissima
asocialità che in altri tempi storici avrebbe innescato reazioni anche
violente. Oggigiorno tutto ciò non accade. Ma il segno di “classe” della “crisi”
è nella realtà di tutti i giorni e gli analisti attenti non mancano di denunciarne
gli aspetti più inquietanti; ma è la miopia collettiva che tarda a mettere a
fuoco lo stato delle cose. Ha scritto Joseph Roth (1894-1939) – da non
confondere con Philip Roth, ché ce ne corre abbastanza - nella Sua celeberrima
opera “Fuga senza fine” (scritto
“solamente” nel 1927 se ne consiglia caldamente la lettura): (…).
Lassù, dietro le nuvole, vive Dio, la cui bontà infinita è diventata
proverbiale. Un po’ più in basso vivono gli uomini viziati, che stanno bene e
sono così immuni dal contagio della povertà che presso di loro fioriscono le
virtù prodigiose: la comprensione per la povertà, la misericordia, la bontà
d’animo e persino la mancanza di pregiudizi. Ma in mezzo, tra questi uomini
generosi e gli altri che hanno il più urgente bisogno di generosità, sono
infilati come isolante quelli del ceto medio, che praticano il commercio del
pane e provvedono al sostentamento della gente con vitto e alloggio. L’intera
“questione sociale” sarebbe risolta se i ricchi che possono donare un pane
fossero anche i fornai del mondo. Ci sarebbero molte ingiustizie di meno se i
giuristi della corte suprema sedessero nei piccoli tribunali penali e i capi
stessi della polizia arrestassero i ladruncoli. Ma non è così. (…). Infatti
“non
è così. Poiché quelli del cosiddetto ceto medio, molto più largo
oggigiorno rispetto a quello al quale faceva riferimento il grande Joseph Roth,
hanno così tanto amato i ricchi da tentare di copiarne gli stili di vita, le
mollezze, le stravaganze, le civetterie, a gonfiarsi come loro tanto da
scoppiarne ora che la crisi lascia quelli indifferenti alle pene del vivere
quotidiano e stramazza sempre di più i loro incauti imitatori. Avete visto sullo
schermo del piccolo vostro mostro domestico la pubblicità di una automobile dal
costo molto ma molto contenuto? Lei, la vampira che accompagna ad un party di
ricchi l’incauto acquirente, non ha fatto in tempo di suggerire allo sbadato l’acquisto
di una macchina più costosa. Poiché i partecipanti del party si allontanano
dalla coppia disgustati al solo apprendere l’esigua spesa che ha consentito loro
l’acquisto del nuovo mezzo. Roba da pazzi!
Gli studiosi la chiamano «wage
inequality». Vuol dire «disuguaglianza nelle retribuzioni». Al di là del dramma
dei senza lavoro, questa è la vera cifra dei tempi di ferro in cui viviamo.
L’ingiustizia sociale che dilaga, in un Occidente impoverito e accidioso, si
nutre soprattutto di questa paurosa e crescente asimmetria nei livelli di
reddito e nelle condizioni di vita delle persone che lavorano. La virtù del
capitalismo, che pure è esistita fino a un decennio fa, consisteva in questo:
non era affatto perfetto, ma era comunque il migliore degli «ismi» possibili,
perché garantiva a un maggior numero di donne e di uomini di beneficiare di una
distribuzione della ricchezza relativamente migliore di qualunque altro sistema
sperimentato nella storia dell’umanità. Ora tutto è cambiato. S’avanza una
nuova forma di «lotta di classe», che ha ragioni pratiche e non ideologiche. La
scorsa settimana è uscito il rapporto annuale «Executive Paywatch», curato
dalla AflCio, che rivela numeri imbarazzanti. Nel 2011 gli emolumenti medi dei
Ceo americani (in «servizio» presso i colossi industrialfinanziari riuniti
nell’indice Standard & Poor’s 500) sono arrivati a quota 12,9 milioni di
dollari, con un aumento del 14 per cento rispetto all’anno precedente. Un
reddito pari a 380 volte quello di cui, nello stesso periodo, hanno beneficiato
i lavoratori dipendenti e gli impiegati. Nel 2010 sul 2009 l’incremento degli
stipendi dei top manager era stato ancora maggiore: 22,9 per cento. Nel 2009 i
compensi medi dei Ceo erano 320 volte maggiori di quelli dei loro impiegati.
Dunque, una «bolla» inarrestabile. E anche incredibile, perché lievita in una
fase di crisi economica che non ha precedenti, almeno dal Big Crash del 1929. I
sacrifici veri, quelli più pesanti, li stanno facendo solo i «soliti noti».
Quelli che non hanno bonus e stock option, ma stanno a busta paga e campano del
loro salario. Nel 2011, secondo il Rapporto, questa categoria sociale ha
beneficiato di aumenti retributivi pari al 2,8 per cento, sufficienti appena a
coprire l’inflazione. Il dato americano non inganni. Avviene lo stesso anche
nel resto delle moderne democrazie europee, compresa la piccola Italia. Magari
il divario medio tra manager e dipendenti non raggiunge quota 380, ma ci si
avvicina (e in qualche caso eccezionale, vedi Sergio Marchionne, lo supera
anche di molto). Quanto può reggere una società attraversata da queste
disuguaglianze? E come si può pensare di salvare il capitalismo, riformando qua
e là i suoi «istituti», senza affrontare e risolvere anche il problema della
«wage inequality»? L’establishment ha poco da meravigliarsi, se esplode il
conflitto sociale. Come diceva il leggendario principe de Curtis, in «Totò e i
re di Roma», «poi dice che uno si butta a sinistra».
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