"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 5 aprile 2012

Sfogliature. 1 Ceto medio chi?


A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.

Sfogliatura. Recita il vocabolario italiano alla voce “sfogliatura”: - Sfogliatura s.f. Operazione dello sfogliare un albero, un ramo e sim.| Sfogliatura del gelso, per alimentare i bachi da seta | Sfogliatura della vite, per soleggiare i grappoli -. Di tutte queste antiche, straordinarie, dolcissime pratiche non ho perizia alcuna. Ma il lemma mi affascina. Mi rimanda profumi e sapori di un tempo. Il frinire nella campagna assolata. I covoni raccolti sull’aia a formare immaginifiche figure all’imbrunire. Suoni e rumori di civiltà antiche. Saggezza senza tempo. Ché tutto sembra come scomparso dagli orizzonti di noi umani inciviliti, progrediti. Nuovi barbari. Nel caso specifico mi piacerebbe utilizzare l’atto della bucolica “sfogliatura” assimilandolo ad un atto che mi è più consono, ovvero all’atto dello sfogliare. Fogli. Solamente fogli. Sfogliare fogli di carta. Sfogliare un libro; sfogliare un giornale; sfogliare una rivista.“Sfogliatura”, come sostantivizzazione dell’atto dello sfogliare. Di un fare a me più prossimo. Conosciuto da sempre. La “sfogliatura” di un qualcosa che mi è appartenuto. Oggigiorno, la “sfogliatura” di quel che è rimasto di questo b-log quando esso “viveva” su di un’altra piattaforma della rete immensa. Come sfogliarne le tantissime “foglie/pagine” che ne sono sopravvissute. Immaginarle non accartocciate, semmai sempre verdi, non come avviene in quelle pratiche che non  mi sono usuali. Oggigiorno ancora leggibili e perché no attuali. “Sfogliatura” da quell’albero che non è più e che alla fine del suo “vivere” in rete contava duemilaseicentoventicinque – 2625 (!) - pagine elettroniche. Con dentro di tutto. Il primo risultato dello “sfogliatura” mi riconsegna un post del martedì 14 di novembre dell’anno 2006. è appartenuto alla categoria “Mediaculturapotere”. Titolo mio di quel post: “Ceto medio chi?”. Tratto da “Il ceto medio è di moda, peccato che non esista più” di Giampaolo Fabris, che è stato professore di sociologia dei consumi nelle università di Torino, Venezia, Trento, Milano e prematuramente scomparso (2010), pubblicato a quel tempo sul settimanale “ Affari & Finanza “. Assaporarne l’attualità. Tasse ed evasione; equità e privilegi; manovre finanziarie e sacrifici “lacrime e sangue” e quant’altro oggigiorno ci tormenta. Come da sempre la Storia insegna.

C’è un termine che, da qualche tempo, presidia con molta evidenza la titolazione dei giornali: ceto medio. Che adesso sarebbe furioso, e sul piede di guerra, perché tartassato dall’attuale Finanziaria. Anche se, in realtà, a condividere questo stato d’animo è quella parte della popolazione che paga sino in fondo le tasse, non ha contenziosi col fisco e le vede adesso ulteriormente aumentare. Il, peraltro condivisibile, progetto governativo di maggiore equità sociale deve essere realizzato utilizzando i proventi dell’enorme ammontare dell’evasione e non penalizzando ulteriormente – davvero al di là della sopportabilità sociale – importanti settori che hanno sempre compiuto il loro dovere di cittadini. A parte queste considerazioni colpisce la miopia e il gravissimo ritardo culturale nella lettura della società italiana, della sua struttura e della sua dinamica che il riferimento ai ceti medi comporta. Un riferimento che, nella sua vaghezza e nell’essere storicamente e culturalmente datato, ha perso qualsiasi significato. Pensare che il dibattito sociopolitico abbia come centro d’attenzione un soggetto che non esiste, che si continui a leggere e ad interpretare il nostro Paese con categorie desuete ed anacronistiche è motivo di non poca preoccupazione. Errori nell’individuazione della composizione della società italiana non possono che degradare la Finanziaria che pure dovrebbe costituire il principale strumento della politica economica a calcolo ragionieristico di riequilibrio dei conti. Non ho mai sentito, da parte di chi fa ricerca sui consumi, dal mondo del marketing e della pubblicità fare ricorso alla categoria ceto medio. Eppure sono proprio questi operatori a dover restare costantemente in sintonia con la struttura e l’evoluzione dei mercati che costituiscono un importante epifenomeno del sociale con il nuovo che emerge. Sono questi, pena l’espulsione dal sistema, obbligati ad essere in grado di interpretare e di intercettare i bisogni, il sentiment, il sistema di attese delle diverse tipologie di cittadini e di consumatori. La conferma della sintonia con i mercati il riflesso sulle market shares avviene in tempo reale è di quasi immediata evidenza. Non è necessario attendere anni per il responso elettorale o basarsi sui dubbi dati dei sondaggi di opinione. Parlare di ceti medi significa evocare periodi storici in cui la composizione di classe veniva letta in termini di capitalisti/proletariato, borghesia/classe operaia se non di sfruttatori e sfruttati. I ceti medi a cui non veniva già allora riconosciuto il ruolo di classe, di soggetto collettivo si collocavano come cuscinetto interstiziale all’interno di queste dicotomie sociali. Per la sociologia anglosassone costituivano la middle class, sostanzialmente i white collars, vale a dire gli impiegati, contrapposti ai blue collars, gli operai. Negli ultimi decenni la composizione/stratificazione sociale è così mutata da registrare la scomparsa di quelli che forse, un tempo, erano davvero soggetti collettivi. I ceti medi non esistono: non è questa una questione nominalistica, il che sarebbe poco rilevante, ma sostantiva. In una società iperframmentata, come è oggi il nostro Paese, parlare di ceti medi un aggregato informe, eterogeneo, dissimile nei comportamenti, atteggiamenti, valori, tenore di vita non ha alcun senso. Così come tutti i riferimenti di cui il nostro Istituto Centrale di Statistica è indiscusso campione che si richiamano al concetto di media statistica. Non è ipersemplificando e banalizzando che si affrontano i problemi di una società complessa. Media è la negazione della complessità. Non si realizzano conquiste con le armi dei conflitti precedenti. Per interpretare correttamente il sociale si deve necessariamente far ricorso in una società in cui, per una larga parte, è sempre meno scontata la relazione tra reddito e tipo di lavoro e in cui non è più la professione a determinare l’identità sociale a tipologie di segmentazione che coniughino il livello di reddito con la composizione familiare, lo stile di vita, gli stili di consumo. Queste esistono e sono quelle a cui fa ricorso il mondo delle imprese per studiare i mercati. Solo allora si potranno decrittare le esigenze, i bisogni, i sistemi di aspettative, mettere a punto una corretta imposizione fiscale. Vi è il sospetto che ceti medi sia un termine volutamente elusivo per non esplicitare che è soltanto l’ammontare del reddito a cui fanno riferimento le scelte di politica economica e che siano "i ricchi" ("anche i ricchi piangono") quelli da snidare. E chi si colloca al di sopra di 2582 euro netti al mese (Guido Gentili Il Sole 24 Ore) è da considerarsi benestante e quindi deve pagare più tasse. Realizzando così un eccezionale exploit : il danno e la beffa.

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