"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 12 gennaio 2013

Cosecosì. 38 Del potere dei partiti sfiduciati.



Scrive Michele Serra – la Repubblica, nell’Amaca del 9 di gennaio -: L’indissolubile comparaggio tra Lega e Berlusconi deve avere radici ben solide se riesce a resistere ad ogni sussulto e ogni separazione. Queste radici sono riassumibili nel fastidio invincibile che una parte rilevante della piccola borghesia italiana ha per lo Stato, le tasse, le regole, la Costituzione, l’antifascismo, insomma per la Repubblica così come è nata, si è formata e bene o male ha percorso quasi settant’anni di vita nazionale, in evidente scollamento con una parte non piccola di italiani che non si sente repubblicana e in casi estremi (il secessionismo) neanche italiana. Il risultato elettorale dell’ennesimo remake forzaleghista (…) ci dirà a che punto è l’implacabile lotta di quel pezzo di Italia contro l’Italia. Dubito che le ruberie nelle istituzioni, la triste avidità del clan Bossi, le crapule di Arcore, tanto meno gli episodi di razzismo che (da anni) fioriscono in quel campo siano determinanti per quell’elettorato. Che non ha mai brillato per scrupolo etico. (…). È l’amarissima verità che non sfugge all’occhio attento e critico di Michele Serra. E che non dovrebbe sfuggire ai più che posseggano un minimo di “cittadinanza” consapevole e vigile. Nasce da quel “fastidio invincibile” della grassa borghesia tutto il male che ha percorso e corrotto la vita pubblica e politica del bel paese. E che ha consentito l’affermarsi dell’antipolitica al potere che ha scacciato la politica buona, il ritorno della quale oggigiorno si invoca inutilmente. Una pratica micidiale che ha svuotato dal di dentro la funzione propria delle istituzione e dei partiti per come essi la svolgono in tutte le altre democrazie mature. Prescrive la Carta Costituzionale – all’articolo 49 – che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Non avviene più. Svuotati essi di quella prerogativa loro assegnata dalla Carta li si è visti rinchiudersi nel guscio angusto del loro precario esistere senza che la loro azione di formazione e di orientamento potesse convenientemente espandersi all’esterno sul resto della società. È un bel dire che le ultime primarie delle forze politiche della sinistra del bel paese rappresentino una riconquistata voglia del corpo elettorale per la politica buona che tornerebbe a primeggiare scacciando la mala pianta dell’antipolitica che è al potere. È un grossolano abbaglio. 3 milioni di cittadini che abbiano fatto la fila per le primarie quanto rappresentano rispetto al corpo elettorale – inteso come l’insieme di tutti i cittadini che abbiano diritto di voto - che sarà chiamato alle urne il 24 di febbraio? Una piccola parte. Significativa ma pur sempre piccola. Ma è quella piccola parte che con ostinazione si oppone al grosso “che non ha mai brillato per scrupolo etico”. Di quella gente volenterosa ne ho ritrovato commovente memoria nella bellissima prova cinematografica dell’esordiente Susanna Nicchiarelli nel Suo “Cosmonauta”, film di memoria e di formazione. Scrive Ilvo Diamanti – la Repubblica del 9 di gennaio, “Perchè non possiamo fare a meno dei partiti” -: Ormai l’antipolitica è dovunque. È entrata nel linguaggio corrente della vita quotidiana e nel discorso “politico”. Un argomento usato dai leader politici a fini polemici. Tuttavia, il bersaglio dell’antipolitica non è la “politica” in quanto tale. Coincide, piuttosto, con i partiti. È inutile fare della logomachia. È inutile farne un problema semantico. L’utilizzo del termine – “antipolitica” – andrebbe corretto nel senso di designare l’azione delittuosa e nefasta di quanti, chiamati a condurre la cosa pubblica, investiti quindi di pubbliche responsabilità, ne abbiano fatto un utilizzo personale o di gruppo che sia andato di fatto contro il cosiddetto “bene comune”. È tempo di uscire dagli equivoci e dire “pane al pane e vino al vino”. Ecco perché da tempo mi ostino ad affermare che l’antipolitica è di già al potere, poiché è essa ad avere scalzato la buona politica del “bene comune”. Continua a scrivere Ilvo Diamanti: Che, in Italia, godono — si fa per dire — di pessima reputazione. Peraltro, è largamente condivisa la convinzione che la “malapolitica” condotta dai partiti costituisca un “male” tipicamente italiano, che si è propagato con particolare intensità negli ultimi anni. (…). Oggi più che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai, dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale, nella vita quotidiana. (…). Attori essi, i partiti in prima persona, dell’antipolitica al potere. Ed oltre, in una visione del problema che l’illustre Autore allarga oltre l’orizzonte dei giorni nostri: La sfiducia verso i partiti non è un fatto recente, non riguarda il nostro tempo. E non è una specialità italiana. Dal punto di vista storico i partiti non hanno mai goduto di buona stampa. «La colpa», (…), «è nel nome». Perché il partito deriva dal latino "partire". E, per questo, evoca la parzialità. Per questo sono distinti dalle “fazioni”. Ma spesso ritenuti equivalenti e altrettanto faziosi. Così, secondo Hobbes, i partiti diventano «uno Stato nello Stato». E per questo «è dovere dei governanti disperderli». I partiti, cioè, vengono considerati veicoli di interessi particolari, in contrasto con l’interesse “generale”, con il “bene comune”. Ma sono molti altri i critici autorevoli dei partiti. (…). …fra gli altri, Alexis de Tocqueville, il quale ammette che «i partiti sono un male inerente ai governi liberi». Dunque, un male inevitabile, ma comunque, un male. Bisogna attendere il passaggio tra Otto e Novecento per assistere al cambiamento del clima d’opinione verso i partiti. E di riflesso al cambiamento del loro rapporto con la società. I partiti conoscono un’età dell’oro durante la prima metà del secolo trascorso. Quando si affermano i partiti di massa. Socialisti, comunisti, popolari. Rappresentano e mobilitano le masse, appunto. Stabiliscono un legame di identificazione e di identità con i loro elettori. Anche perché sono presenti sul territorio nella società. Inoltre, sono partiti di iscritti, dotati di un’ampia rete di volontari, ma anche di funzionari. Per garantire continuità ed efficacia alla loro azione. Per questo, dispongono di consenso sociale, ma al tempo stesso, si professionalizzano sempre più. Ed avviene così il passaggio che Ilvo Diamanti magistralmente analizza: E si evolvono in senso oligarchico. Per adattarsi alla complessità sociale diventano “pigliatutti”. Partiti elettorali, che non hanno più un target specifico e definito. Ma si rivolgono, appunto, a tutti gli elettori. Per questo, perdono le loro specificità ideologiche. «Degli iscritti, così come delle sezioni territoriali», (…), «non c’è più bisogno». I partiti, quindi si rifugiano nelle istituzioni e sui media. Diventano, cioè, partiti di cartello. «Agenzie pubbliche regolamentate e ufficializzate che – (…) - dallo Stato traggono le loro risorse legalmente con il finanziamento pubblico e in maniera opaca attraverso il patronage». Investono, cioè, nel controllo clientelare dell’opinione pubblica. Per questo, (…), «i partiti sono oggi in Europa molto più forti di un tempo». In Europa, si badi bene. Perché queste tendenze non riguardano solo l’Italia. Ma coinvolgono tutti i principali paesi europei. Dalla Francia alla Germania. Dal Belgio all’Austria. Per non parlare delle nuove democrazie. Il partito è, dunque, divenuto “stato-centrico”. Ma si è indebolito sul territorio e nella società. Per questo la stima nei loro confronti è precipitata. Ciò li ha spinti a correre ai ripari. Allargando il richiamo alla volontà popolare, il ritorno agli iscritti. E agli elettori. In modo diretto. Attraverso le primarie. Ma anche, in alcuni casi, attraverso lo scambio diretto tra leader e popolo. In modo carismatico e populista. Da ciò il problema di questa fase. Perché, (…), «non c’è scampo: senza i partiti non c’è democrazia. Se vogliamo un sistema democratico e pluralista dobbiamo tenerci dei partiti». Ma «questi » partiti, «hanno scambiato il potere con la fiducia». Per reagire, (…), i partiti dovrebbero «spossessarsi di tante delle risorse accumulate». Una condizione necessaria ma non sufficiente. E, purtroppo, difficile da realizzare, con “questi” partiti. (…). Perché in fondo al tunnel, oltre il paradosso che produce forza senza legittimità, non si vede la luce. Ho dimenticato di specificare che, nel virgolettato, Ilvo Diamanti ha riportato citazioni tratte dall’ultimo lavoro di Pietro Ignazi che ha per titolo “Forza senza legittimità” – Laterza editore, pagg. 153, € 14 -. Ovvero, dire del potere dei partiti sfiduciati.

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