Scrive Michele Serra – la
Repubblica, nell’Amaca del 9 di gennaio -: L’indissolubile comparaggio tra Lega e
Berlusconi deve avere radici ben solide se riesce a resistere ad ogni sussulto
e ogni separazione. Queste radici sono riassumibili nel fastidio invincibile
che una parte rilevante della piccola borghesia italiana ha per lo Stato, le
tasse, le regole, la Costituzione, l’antifascismo, insomma per la Repubblica
così come è nata, si è formata e bene o male ha percorso quasi settant’anni di
vita nazionale, in evidente scollamento con una parte non piccola di italiani
che non si sente repubblicana e in casi estremi (il secessionismo) neanche
italiana. Il risultato elettorale dell’ennesimo remake forzaleghista (…) ci
dirà a che punto è l’implacabile lotta di quel pezzo di Italia contro l’Italia.
Dubito che le ruberie nelle istituzioni, la triste avidità del clan Bossi, le
crapule di Arcore, tanto meno gli episodi di razzismo che (da anni) fioriscono
in quel campo siano determinanti per quell’elettorato. Che non ha mai brillato
per scrupolo etico. (…). È l’amarissima verità che non sfugge
all’occhio attento e critico di Michele Serra. E che non dovrebbe sfuggire ai
più che posseggano un minimo di “cittadinanza” consapevole e vigile.
Nasce da quel “fastidio invincibile” della grassa borghesia tutto il male che
ha percorso e corrotto la vita pubblica e politica del bel paese. E che ha
consentito l’affermarsi dell’antipolitica al potere che ha scacciato la
politica buona, il ritorno della quale oggigiorno si invoca inutilmente. Una
pratica micidiale che ha svuotato dal di dentro la funzione propria delle
istituzione e dei partiti per come essi la svolgono in tutte le altre democrazie
mature. Prescrive la Carta Costituzionale – all’articolo 49 – che “tutti
i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere
con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Non
avviene più. Svuotati essi di quella prerogativa loro assegnata dalla Carta li
si è visti rinchiudersi nel guscio angusto del loro precario esistere senza che
la loro azione di formazione e di orientamento potesse convenientemente
espandersi all’esterno sul resto della società. È un bel dire che le ultime
primarie delle forze politiche della sinistra del bel paese rappresentino una
riconquistata voglia del corpo elettorale per la politica buona che tornerebbe
a primeggiare scacciando la mala pianta dell’antipolitica che è al potere. È un
grossolano abbaglio. 3 milioni di cittadini che abbiano fatto la fila per le
primarie quanto rappresentano rispetto al corpo elettorale – inteso come
l’insieme di tutti i cittadini che abbiano diritto di voto - che sarà chiamato
alle urne il 24 di febbraio? Una piccola parte. Significativa ma pur sempre
piccola. Ma è quella piccola parte che con ostinazione si oppone al grosso “che
non ha mai brillato per scrupolo etico”. Di quella gente volenterosa ne
ho ritrovato commovente memoria nella bellissima prova cinematografica
dell’esordiente Susanna Nicchiarelli nel Suo “Cosmonauta”, film di memoria e di formazione. Scrive Ilvo Diamanti
– la Repubblica del 9 di gennaio, “Perchè
non possiamo fare a meno dei partiti” -: Ormai l’antipolitica è dovunque.
È entrata nel linguaggio corrente della vita quotidiana e nel discorso
“politico”. Un argomento usato dai leader politici a fini polemici. Tuttavia,
il bersaglio dell’antipolitica non è la “politica” in quanto tale. Coincide,
piuttosto, con i partiti. È inutile fare della logomachia. È inutile
farne un problema semantico. L’utilizzo del termine – “antipolitica” – andrebbe
corretto nel senso di designare l’azione delittuosa e nefasta di quanti,
chiamati a condurre la cosa pubblica, investiti quindi di pubbliche
responsabilità, ne abbiano fatto un utilizzo personale o di gruppo che sia
andato di fatto contro il cosiddetto “bene comune”. È tempo di uscire
dagli equivoci e dire “pane al pane e vino al vino”. Ecco
perché da tempo mi ostino ad affermare che l’antipolitica è di già al potere,
poiché è essa ad avere scalzato la buona politica del “bene comune”. Continua a
scrivere Ilvo Diamanti: Che, in Italia, godono — si fa per dire — di
pessima reputazione. Peraltro, è largamente condivisa la convinzione che la
“malapolitica” condotta dai partiti costituisca un “male” tipicamente italiano,
che si è propagato con particolare intensità negli ultimi anni. (…). Oggi più
che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai,
dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale,
nella vita quotidiana. (…). Attori essi, i partiti in prima persona,
dell’antipolitica al potere. Ed oltre, in una visione del problema che
l’illustre Autore allarga oltre l’orizzonte dei giorni nostri: La
sfiducia verso i partiti non è un fatto recente, non riguarda il nostro tempo.
E non è una specialità italiana. Dal punto di vista storico i partiti non hanno
mai goduto di buona stampa. «La colpa», (…), «è nel nome». Perché il partito
deriva dal latino "partire". E, per questo, evoca la parzialità. Per
questo sono distinti dalle “fazioni”. Ma spesso ritenuti equivalenti e
altrettanto faziosi. Così, secondo Hobbes, i partiti diventano «uno Stato nello
Stato». E per questo «è dovere dei governanti disperderli». I partiti, cioè,
vengono considerati veicoli di interessi particolari, in contrasto con
l’interesse “generale”, con il “bene comune”. Ma sono molti altri i critici
autorevoli dei partiti. (…). …fra gli altri, Alexis de Tocqueville, il quale
ammette che «i partiti sono un male inerente ai governi liberi». Dunque, un
male inevitabile, ma comunque, un male. Bisogna attendere il passaggio tra Otto
e Novecento per assistere al cambiamento del clima d’opinione verso i partiti.
E di riflesso al cambiamento del loro rapporto con la società. I partiti conoscono
un’età dell’oro durante la prima metà del secolo trascorso. Quando si affermano
i partiti di massa. Socialisti, comunisti, popolari. Rappresentano e mobilitano
le masse, appunto. Stabiliscono un legame di identificazione e di identità con
i loro elettori. Anche perché sono presenti sul territorio nella società.
Inoltre, sono partiti di iscritti, dotati di un’ampia rete di volontari, ma
anche di funzionari. Per garantire continuità ed efficacia alla loro azione.
Per questo, dispongono di consenso sociale, ma al tempo stesso, si
professionalizzano sempre più. Ed avviene così il passaggio che Ilvo
Diamanti magistralmente analizza: E si evolvono in senso oligarchico. Per
adattarsi alla complessità sociale diventano “pigliatutti”. Partiti elettorali,
che non hanno più un target specifico e definito. Ma si rivolgono, appunto, a
tutti gli elettori. Per questo, perdono le loro specificità ideologiche. «Degli
iscritti, così come delle sezioni territoriali», (…), «non c’è più bisogno». I
partiti, quindi si rifugiano nelle istituzioni e sui media. Diventano, cioè,
partiti di cartello. «Agenzie pubbliche regolamentate e ufficializzate che – (…)
- dallo Stato traggono le loro risorse legalmente con il finanziamento pubblico
e in maniera opaca attraverso il patronage». Investono, cioè, nel controllo
clientelare dell’opinione pubblica. Per questo, (…), «i partiti sono oggi in
Europa molto più forti di un tempo». In Europa, si badi bene. Perché queste
tendenze non riguardano solo l’Italia. Ma coinvolgono tutti i principali paesi
europei. Dalla Francia alla Germania. Dal Belgio all’Austria. Per non parlare
delle nuove democrazie. Il partito è, dunque, divenuto “stato-centrico”. Ma si
è indebolito sul territorio e nella società. Per questo la stima nei loro
confronti è precipitata. Ciò li ha spinti a correre ai ripari. Allargando il
richiamo alla volontà popolare, il ritorno agli iscritti. E agli elettori. In
modo diretto. Attraverso le primarie. Ma anche, in alcuni casi, attraverso lo
scambio diretto tra leader e popolo. In modo carismatico e populista. Da ciò il
problema di questa fase. Perché, (…), «non c’è scampo: senza i partiti non c’è
democrazia. Se vogliamo un sistema democratico e pluralista dobbiamo tenerci
dei partiti». Ma «questi » partiti, «hanno scambiato il potere con la fiducia».
Per reagire, (…), i partiti dovrebbero «spossessarsi di tante delle risorse
accumulate». Una condizione necessaria ma non sufficiente. E, purtroppo,
difficile da realizzare, con “questi” partiti. (…). Perché in fondo al tunnel,
oltre il paradosso che produce forza senza legittimità, non si vede la luce. Ho
dimenticato di specificare che, nel virgolettato, Ilvo Diamanti ha riportato
citazioni tratte dall’ultimo lavoro di Pietro Ignazi che ha per titolo “Forza senza legittimità” – Laterza
editore, pagg. 153, € 14 -. Ovvero, dire del potere dei partiti sfiduciati.
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