È tutto un accapigliarsi nel “teatrino”
– per dirla con le parole tanto care all’egoarca di Arcore – della politica del
bel paese. Tutti a disconoscere la paternità dell’IMU. È tua. No, è tua.
Nessuno ad aver sottoscritto i trattati fiscali dell’Europa della moneta. Sei
stato tu! No, li hai sottoscritti tu! E di questo passo sbugiardandosi a
vicenda e facendo scadere le istituzioni ad un caravanserraglio. Il dovere
primo di dire la verità ai cittadini non passa per la mente agli strateghi
della politica. Ha scritto un magistrale pezzo Barbara Spinelli il 3 di ottobre
– la Repubblica “La latitanza dei
partiti” - prima che non si verificasse l’ingenua profezia dei Maya.
Scriveva Barbara Spinelli: (…). L’epoca che viviamo è per molti versi
postcostituzionale (…), e son simili epoche, secondo il filosofo Leo Strauss,
che secernono fatalmente il cesarismo. (…). Il problema è che pochi (…)
ricordano che candidarsi e parlare di programmi e alleati è dovuto, in
democrazia. Qui è il pericolo, ma anche il fascino, che il cesarismo
postpolitico pare esercitare. È una delle singolarità italiane su cui vale la
pena riflettere. In Grecia, in Spagna, cittadini indignati denunciano con
impeto quello che vivono come diktat non tanto esterno, quanto inconfutabile.
In Italia le proteste si frammentano, i sindacati gridano, ma le piazze non si
riempiono. Non è una sciagura, ma è una passività colma d’ira che ha qualcosa
di malato ed è un’anomalia, nella cosiddetta periferia d’Europa. Sembra
confermare quello che Luciano Canfora considerava, nel 2010, la questione
cruciale dei nostri tempi: i governi europei hanno scelto la strada
dell’abdicazione, per quanto attiene a poteri decisionali fondamentali, in
favore degli “esperti”. Ma accade, nella “singolarità” del bel
paese, che i cosiddetti “tecnici” s’ingegnino a scimmiottare
il parlare vacuo dei politicanti dell’antipolitica al potere. È la scena
stucchevole ed a tratti disgustosa che si ha in questi giorni d’avvio della
campagna elettorale. Nel bla bla bla generale non una parola che sia spesa per
dire ai cittadini tutta la verità, nient’altro che la verità. La verità ti fa
male, si cantava un tempo. Ed allora necessita sfuggire a quell’unitile bla
bala bla per poter afferrare briciole di una verità altrimenti negata. Ed una
verità, suffragata dalle Sue conoscenze, ce la offre Luciano Gallino – “Il baratro fiscale dell’Agenda Monti”
su la Repubblica dell’8 di gennaio – laddove scrive: (…). L’art. 4 (del
trattato europeo in materia fiscale n.d.r.) prescrive: “Quando il rapporto tra il
debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il
valore… del 60%... tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio
di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un
precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso
la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015. (…). Ridurre
davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal
Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha
soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese;
aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D.
Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere
semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ‘60 non
da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti.
(…). Al fine di ripagare un debito a
lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il
debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni
anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in
media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico
italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per
cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha
superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come
prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi
l’anno per un ventennio. La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre
quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse
sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi
l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che
quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi,
avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi
dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi
(2000-50+78). L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi
di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi
vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4
del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo
aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle
stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco
superiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli
interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare
passerebbero da 50 a
60. (…). E fin qui Luciano Gallino. Orbene, di tutto ciò cosa ne
perviene al cittadino-elettore? Il nulla. Gabbato, ancora una volta. Poiché la
tenzone elettorale si ridurrebbe a scegliere e premiare quei partiti che
indicassero come evitare quel baratro non succhiando il sangue sempre ai soliti
“fessi”.
Nulla invece di tutto ciò. Ed ora che la politica si svolge tra i personalismi
più sfrenati, è ingenuità sperare in una virata che rimetta al centro quei
stramaledetti problemi. Conviene tornare al pezzo di Barbara Spinelli per decifrare
il tempo che ci è dato da vivere. Scrive infatti: Seguendo alla lettera Tietmeyer (già
governatore della Bundesbank n.d.r.), (i politici-tecnici, nuova specie
zoologica della politica del bel paese n.d.r.) prediligono di fatto il
permanente plebiscito dei mercati (…). Ma i primi responsabili del male non
sono i mercati. Essi constatano il vuoto di politica, e lo riempiono con loro
ansie, esigenze. Responsabili della diserzione sono i partiti, i politici che
antepongono la sete di potere alla competenza. E responsabile è il popolo
italiano, che a questo andazzo ventennale s’è assuefatto se non affezionato.
L’abdicazione dei partiti è ricorrente, palese. Se davvero volessero governare,
se non fossero anch’essi attratti dalla passività, riconoscerebbero che i
poteri dei mercati tendono a espandersi naturalmente (vale anche per i mercati
quel che dice Montesquieu: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli
arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere
occorre che il potere arresti il potere”. Solo il politico può frenare l’abuso,
correggere la vista corta di chi giudica solo il minuto, e contrapporre un
potere legittimato democraticamente che duri un po’ più a lungo di una seduta
di borsa). Ma i partiti vogliono veramente governare? Vogliono essere
protagonisti, o preferiscono assegnare il compito a esperti e tecnici, pur di
evitare il difficile o l’impopolare? Tutto fa pensare che un potere così
rischioso non lo desiderino, né a destra né a sinistra. Se davvero ambissero a
governare, e non solo a espugnare un ben remunerato spazietto, predisporrebbero
alleanze durature. (…). Ogni partito ha lo sguardo fisso su sé stesso, pur
sapendo perfettamente che da soli si naufraga. (…). Anche il popolo elettore
tuttavia ha le sue responsabilità. Non dai tempi di Berlusconi, più volte
rieletto, ma da molto prima, nutre sfiducia nella politica, nei propri
rappresentanti, nello Stato. (…). A tal punto inaffidabili si sono rivelati i
partiti e la politica italiana, inviluppata non nel mistero soltanto ma nella
corruzione. (…). In Italia (…), tutte le istituzioni vacillano, e nell’inerzia
si continua a implorare un Cesare postcostituzionale. È così da quando è finita
la prima Repubblica. La seconda non è mai cominciata. Tutti questi anni sono passati
nell’inane, fallito tentativo di uscire dalla prima. Sta tutta qui
l’italica “singolarità”. Bene a sapersi; cosa resta allora da sperare? Torna
comodo all’antipolitica al potere latitare sui veri, assillanti problemi del
bel paese. Tutto il resto sono le chiacchiere dei latitanti al potere.
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