"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 9 gennaio 2013

Cronachebarbare. 3 La latitanza (ben gradita) dell’(anti)politica.



È tutto un accapigliarsi nel “teatrino” – per dirla con le parole tanto care all’egoarca di Arcore – della politica del bel paese. Tutti a disconoscere la paternità dell’IMU. È tua. No, è tua. Nessuno ad aver sottoscritto i trattati fiscali dell’Europa della moneta. Sei stato tu! No, li hai sottoscritti tu! E di questo passo sbugiardandosi a vicenda e facendo scadere le istituzioni ad un caravanserraglio. Il dovere primo di dire la verità ai cittadini non passa per la mente agli strateghi della politica. Ha scritto un magistrale pezzo Barbara Spinelli il 3 di ottobre – la Repubblica “La latitanza dei partiti” - prima che non si verificasse l’ingenua profezia dei Maya. Scriveva Barbara Spinelli: (…). L’epoca che viviamo è per molti versi postcostituzionale (…), e son simili epoche, secondo il filosofo Leo Strauss, che secernono fatalmente il cesarismo. (…). Il problema è che pochi (…) ricordano che candidarsi e parlare di programmi e alleati è dovuto, in democrazia. Qui è il pericolo, ma anche il fascino, che il cesarismo postpolitico pare esercitare. È una delle singolarità italiane su cui vale la pena riflettere. In Grecia, in Spagna, cittadini indignati denunciano con impeto quello che vivono come diktat non tanto esterno, quanto inconfutabile. In Italia le proteste si frammentano, i sindacati gridano, ma le piazze non si riempiono. Non è una sciagura, ma è una passività colma d’ira che ha qualcosa di malato ed è un’anomalia, nella cosiddetta periferia d’Europa. Sembra confermare quello che Luciano Canfora considerava, nel 2010, la questione cruciale dei nostri tempi: i governi europei hanno scelto la strada dell’abdicazione, per quanto attiene a poteri decisionali fondamentali, in favore degli “esperti”. Ma accade, nella “singolarità” del bel paese, che i cosiddetti “tecnici” s’ingegnino a scimmiottare il parlare vacuo dei politicanti dell’antipolitica al potere. È la scena stucchevole ed a tratti disgustosa che si ha in questi giorni d’avvio della campagna elettorale. Nel bla bla bla generale non una parola che sia spesa per dire ai cittadini tutta la verità, nient’altro che la verità. La verità ti fa male, si cantava un tempo. Ed allora necessita sfuggire a quell’unitile bla bala bla per poter afferrare briciole di una verità altrimenti negata. Ed una verità, suffragata dalle Sue conoscenze, ce la offre Luciano Gallino – “Il baratro fiscale dell’Agenda Monti” su la Repubblica dell’8 di gennaio – laddove scrive: (…). L’art. 4 (del trattato europeo in materia fiscale n.d.r.) prescrive: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore… del 60%... tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015. (…). Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti. (…).  Al fine di ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio. La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi (2000-50+78). L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di poco superiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60. (…). E fin qui Luciano Gallino. Orbene, di tutto ciò cosa ne perviene al cittadino-elettore? Il nulla. Gabbato, ancora una volta. Poiché la tenzone elettorale si ridurrebbe a scegliere e premiare quei partiti che indicassero come evitare quel baratro non succhiando il sangue sempre ai soliti “fessi”. Nulla invece di tutto ciò. Ed ora che la politica si svolge tra i personalismi più sfrenati, è ingenuità sperare in una virata che rimetta al centro quei stramaledetti problemi. Conviene tornare al pezzo di Barbara Spinelli per decifrare il tempo che ci è dato da vivere. Scrive infatti: Seguendo alla lettera Tietmeyer (già governatore della Bundesbank n.d.r.), (i politici-tecnici, nuova specie zoologica della politica del bel paese n.d.r.) prediligono di fatto il permanente plebiscito dei mercati (…). Ma i primi responsabili del male non sono i mercati. Essi constatano il vuoto di politica, e lo riempiono con loro ansie, esigenze. Responsabili della diserzione sono i partiti, i politici che antepongono la sete di potere alla competenza. E responsabile è il popolo italiano, che a questo andazzo ventennale s’è assuefatto se non affezionato. L’abdicazione dei partiti è ricorrente, palese. Se davvero volessero governare, se non fossero anch’essi attratti dalla passività, riconoscerebbero che i poteri dei mercati tendono a espandersi naturalmente (vale anche per i mercati quel che dice Montesquieu: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere”. Solo il politico può frenare l’abuso, correggere la vista corta di chi giudica solo il minuto, e contrapporre un potere legittimato democraticamente che duri un po’ più a lungo di una seduta di borsa). Ma i partiti vogliono veramente governare? Vogliono essere protagonisti, o preferiscono assegnare il compito a esperti e tecnici, pur di evitare il difficile o l’impopolare? Tutto fa pensare che un potere così rischioso non lo desiderino, né a destra né a sinistra. Se davvero ambissero a governare, e non solo a espugnare un ben remunerato spazietto, predisporrebbero alleanze durature. (…). Ogni partito ha lo sguardo fisso su sé stesso, pur sapendo perfettamente che da soli si naufraga. (…). Anche il popolo elettore tuttavia ha le sue responsabilità. Non dai tempi di Berlusconi, più volte rieletto, ma da molto prima, nutre sfiducia nella politica, nei propri rappresentanti, nello Stato. (…). A tal punto inaffidabili si sono rivelati i partiti e la politica italiana, inviluppata non nel mistero soltanto ma nella corruzione. (…). In Italia (…), tutte le istituzioni vacillano, e nell’inerzia si continua a implorare un Cesare postcostituzionale. È così da quando è finita la prima Repubblica. La seconda non è mai cominciata. Tutti questi anni sono passati nell’inane, fallito tentativo di uscire dalla prima. Sta tutta qui l’italica “singolarità”. Bene a sapersi; cosa resta allora da sperare? Torna comodo all’antipolitica al potere latitare sui veri, assillanti problemi del bel paese. Tutto il resto sono le chiacchiere dei latitanti al potere.

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