(…). Le visioni della politica e
dell’economia si sono basate sull’idea, che risale al settecento e
all’ottocento, del progresso come legge ineluttabile della Storia. Questa idea
è fallita. Soprattutto, è fallita l’idea che il progresso segua automaticamente
la locomotiva tecno-economica. È fallita l’idea che il progresso sia
assimilabile alla crescita, in una concezione puramente quantitativa delle
realtà umane. Negli ultimi decenni la storia non va verso il progresso garantito,
ma verso una straordinaria incertezza. Così oggi il progresso ci appare non
come un fatto inevitabile, ma come una sfida e una conquista, come un prodotto
delle nostre scelte, della nostra volontà e della nostra consapevolezza. Così
scrivevano Edgar Morin e Mauro Ceruti nell’editoriale “Il progresso è fallito: ora una nuova civiltà”, apparso sul
quotidiano l’Unità del 13 di settembre 2012. Un’idea del “progresso” che
immancabilmente viene associata all’idea della tanto invocata “crescita”.
“Crescita”
dei consumi, “crescita” del superfluo almeno per una parte dei terrestri.
Senza un’idea di redistribuzione, su scala planetaria, delle risorse naturali e
dei vantaggi che il depauperamento di quelle risorse, appartenenti all’intero
genere umano, assottiglierà sempre più per quella parte dell’umanità che è
ancora ben lontana dalla tavola imbandita dei consumi. C’è nel pensiero dei due
filosofi l’invocazione per “una nuova civiltà”, che sia “ora”
prima che il disastro ambientale faccia il suo inarrestabile, disastroso percorso.
È di questi giorni la notizia della probabile/imminente fine della cosiddetta
civiltà degli “yangrou chuan”, gli adorati spiedini, che giorno e notte sfrigolano
sopra griglie improvvisate lungo ogni strada del Paese. Leccornie popolari, per
tasche di massa, imputate ora di una colpa imperdonabile: dopo secoli, il
governo della seconda economia del mondo ha scoperto che, arrostendo sul
carbone, inquinano. La notizia giunge dall’opificio più grande del
pianeta Terra, la Cina, quello che un tempo era denominato l’impero celeste. A
darcene contezza è l’attenzione sempre viva di Giampaolo Visetti per tutto ciò
che avviene in quel laboratorio nuovo del capitalismo dei consumi. Il Suo
dossier, “Smog la sindrome cinese”,
è stato pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 22 di gennaio. Gli “yangrou
chuan” inquinano la Cina. Vanno a carbone le fornacelle per gli
spiedini dei cinesi. Come tutto ciò che, al di là della grande muraglia, serve
per fare andare avanti l’opificio più grande del pianeta. Impossibile fermarlo.
Continua Visetti: Si cela spesso del comico, nel tragico. E così, per impedire che un
numero troppo imbarazzante di cinesi crepi a causa dello smog, assieme al bando
contro il barbecue sbucano dalle nebbie metropolitane altre due singolari
esortazioni: impedire agli scolari di passare la ricreazione in cortile e fare
in modo che gli anziani, tappati in casa, non respirino vicino alle finestre.
Per denunciare un’orrenda verità: …le griglie costrette a spegnersi, come i
bambini chiusi in classe e gli altri esseri viventi impegnati a contendersi le
ultime maschere anti-gas, rivelano improvvisamente alla nazione che si sta
prendendo il secolo, una parte essenziale di ciò che continua a significare il
successo di quell’aspirazione che convenzionalmente chiamiamo crescita: il
sacrificio della vita di chi viene incaricato di promuoverla. Oggi il “sacrificio”
di una vita sana diviene il prezzo altissimo da pagare per una “crescita”
che non rappresenta più un “progresso”. Si è ancora in tempo
per frenare lo sprofondare nell’abisso? Scrive ancora Visetti, nella Sua
corrispondenza che ha tutto l’amaro sapore di quei veleni dei quali ci da
notizia: Da dieci giorni Pechino, Shanghai, Chongqing e decine di metropoli
industriali risultano scomparse dentro nuvole nere, grasse di olii che
impregnano i capelli, di acidi che corrodono la gola e di polveri che bruciano
gli occhi. Lo smog, che fino all’anno scorso le autorità chiamavano nebbia, è
tale che centinaia di voli vengono cancellati per “invisibilità della pista”. Poiché
l’imperativo della “crescita” quantitativa non lascia scampo alcuno anche se quei
lapilli che i tecnici indicano con l’asettica sigla PM2.5, ossia il particolato
mefitico di un diametro fino a 2.5 micron, a Pechino hanno raggiunto la vetta
inviolata di 993 microgrammi per metro cubo. È una quota quaranta volta
superiore al limite massimo stabilito dall’Organizzazione mondiale della
sanità, settantacinque volte più alta dei limiti imposti negli Usa. Gli
scienziati avvertono che per non deteriorare la salute, la concentrazione di
queste particelle deve restare sotto il livello venti. Nella cecità di
un mondo che ha regolato la sua esistenza sulla cognizione della “crescita”
per quantità sempre maggiori e che ha messo al bando la “qualità” dell’esistenza
della vita sul pianeta Terra sfuggono ai più “i dati della Banca Mondiale (che)
mostrano
poi che nel 2009 lo smog è costato alla Cina il 3,3% del reddito nazionale,
schizzato a quasi il 5% lo scorso anno. La gente fa esplodere gli ospedali
pubblici con malattie ai polmoni, al cuore, alla pelle e agli occhi. Impiegati
ed operai si assentano da uffici e fabbriche, con i veleni sparati
nell’atmosfera accusati di una perdita del 7% della produttività. Al resto dei
danni economici ci pensano gli incidenti stradali, la cancellazione dei voli e
perfino una durata inferiore di edifici e infrastrutture, valutata in media
dieci anni. Può apparire spaventoso, ma nel nuovo paradiso di grattacieli,
fabbriche e ferrovie ad alta velocità, l’inquinamento si vendica rosicchiando
anche il cemento che dovrebbe custodire merci e persone”. Ma è nella
logica del capitalismo la ricerca di sempre nuove “terre vergini” da
sfruttare convenientemente nella cecità più assoluta. Ma il disastro è dietro
l’angolo. Ed il popolo di quello che è stato l’impero celeste non ha voglia di
discostarsi da quella tavola imbandita che per lunghissimo tempo è apparsa solo
come un miraggio. Ma urge la “civiltà nuova” preconizzata da
Morin e Ceruti. Non più cieca e sorda ai problemi ambientali. Scrivono in quel
loro lavoro i due filosofi: Altrettanto discutibile è la nozione
tradizionale di sviluppo, definita in una prospettiva unilateralmente
tecno-economica, ritenuta quantitativamente misurabile con gli indicatori di
crescita e di reddito. Ha assunto come modello universale la condizione dei
Paesi detti appunto «sviluppati», in particolare occidentali, alla quale si
dovrebbero ispirare tutti gli altri Paesi del mondo (…). Così si è arrivati a
credere che lo stato attuale delle società occidentali costituisca lo sbocco e
la finalità della storia umana stessa, trascurando i tanti problemi drammatici,
le tante miserie, i tanti sotto-sviluppi, non solo materiali, provocati dal
perseguimento degli obiettivi di una crescita tecno-economica fine a se stessa.
Ma le soluzioni che volevamo proporre agli altri sono diventate problemi per
noi stessi. (…). Allo sfruttamento economico, contro il quale hanno sempre
lottato i sindacati, oggi si aggiunge un’ulteriore alienazione in nome della
produttività e dell’efficienza. Abbiamo urgente bisogno di una politica di
umanizzazione di quella che è ormai un’economia disumanizzata. Se si vogliono
seriamente realizzare gli obiettivi di «sostenibilità» e di «umanizzazione»,
non basta spianare la via con qualche levigatura: bisogna cambiare via. (…).
…la necessità di cambiare via diventa sempre più urgente, nel momento in cui il
dogma della crescita all’infinito viene messo drasticamente in discussione dal
perdurare della crisi economica europea e mondiale, dai pericoli prodotti di
certo sviluppo tecnico e scientifico, dagli eccessi della civiltà dei consumi
che rendono infelici gli individui e la collettività. (…). E per imboccare una
via nuova bisogna concepire una nuova politica economica che possa contrastare
l’onnipotenza della finanza speculativa e mantenere nello stesso tempo il
carattere concorrenziale del mercato. (…). Non ci sono alternative. A
chi si strappa le vesti invocando la “crescita” per come la si è avuta
dal secolo diciannovesimo in poi la risposta chiara è forte dev’essere una: a
quale prezzo? Chiude la Sua corrispondenza Giampaolo Visetti annotando: Il
segnale è che non solo il costo della crescita ha superato i suoi ricavi,
pregiudicando la sopravvivenza di chi ha la missione di produrre, (…). Nessuno
stupore, ieri sera, quando il telegiornale, dopo i drammatici dati su un’altra
giornata con 420 microgrammi di PM 2.5 per metro cubo a Pechino, ha trasmesso
un servizio sulla “guerra per l’energia” nel Pacifico e uno sul boom
dell’hitech nell’ex distretto manifatturiero di Canton. Lo smog cambia la Cina
e la Cina, provando a pulire l’informazione con lo sporco del vento, vuole che
il resto del mondo ne sia consapevole. Respirare, anche in Asia, oggi costa.
C’è davvero qualcosa nell’aria, sopra la Città Proibita: non solo la rinuncia
alla delizia di uno spiedino. Che non siano “quelli” dell’impero
celeste a mostrarci la via per una “crescita” diversa e più
responsabile, insomma per “una nuova civiltà”? La loro “civiltà”,
del resto, ci ha preceduti di tanto sulla via delle invenzioni e delle
applicazioni tecnologiche.
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