Giovanni Torres La Torre. "Deportazione".
Proponevo, il 27 di gennaio
dell’anno 2011, il giorno consacrato alla “Memoria”, un post nella sezione “Eventi” di quello che è stato questo
blog quand’era allocato su di un’altra piattaforma. Ho riportato alla “luce”
quel post, caduto e divorato dalla oscurità profonda della rete, scorrendo
l’e-book - alle pagine 530/533 - che ne è rimasto. Lo ripropongo per la “Giornata
della Memoria” 2013.
Ha lasciato scritto nel Suo “Se
questo è un uomo” Primo Levi: “Le
madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono
i bambini, e fecero i bagagli e all’alba i fili spinati erano pieni di
biancheria infantile stesa al vento ad asciugare. (…) L’alba ci colse come un
tradimento… I vagoni erano dodici e noi seicentocinquanta… in viaggio verso il
nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo”. Era il 22 di febbraio
dell’anno 1944. Iniziava il lungo viaggio dal quale in tanti, in tantissimi,
non sarebbero mai più ritornati. Se si accusa oggigiorno una certa retorica
stantia nel ricordare quelle date e quegli avvenimenti, la lettura delle
memorie, delle testimonianze di chi visse quei tragici giorni concorre a
cementare l’idea che “il giorno della
memoria” abbia bisogno di resistere e sopravvivere all’indifferenza del
tempo, all’acquiescenza o, peggio ancora, al negazionismo che, crudele, si
affaccia in ampi strati sociali e che occhieggia a tante formazioni politiche
senza una “memoria” ed una storia
vera. Ma il primo treno a partire dal campo di Fossoli, nei pressi di Carpi,
era stato il 26 di gennaio dell’anno 1944. Primo Levi fu caricato, al pari
degli altri sventurati, su un treno, forse successivo, di quel terribile
febbraio. Di Primo Levi il quotidiano l’Unità ha ritrovato e pubblicato col
titolo «Dal fascismo ad Auschwitz c’è
una linea diretta» una intervista inedita dell’anno 1973 che lo scrittore
concesse ad uno studente allora giovanissimo -15 anni- Marco Pennacini che, al
tempo, frequentava la seconda classe del liceo “Gobetti”. L’intervista,
contenuta in cassette, fortunosamente salvate dalla mamma di Marco, sta a
raccontarci di una storia che il tempo o l’indifferenza degli uomini non
potranno giammai cancellare. Di seguito trascrivo nella sua interezza quella
straordinaria intervista.
“- Primo Levi, come mai ha
voluto scrivere «Se questo è un uomo»? - «Perché ero appena ritornato dalla
prigionia, e avevo un tremendo bisogno di raccontare queste cose, un bisogno
che diventava ossessione.(...) Nel lager cercavo di immagazzinare tutto, di mettere
tutto in una specie di tasca».
- Allora vedevi già con un
occhio più distaccato quel che ti succedeva... - «No, non era possibile. Nel
lager c’era il problema di sopravvivere. Sì, avevo una vaga idea di
sopravvivere per scrivere, questo sì, mi ricordo di averlo detto a qualcuno.
Addirittura quando ero in laboratorio e avevo una matita e un quaderno ho
scritto qualche pagina».
- Che poi hai perso... - «L’ho
persa, l’ho scritta così, per l’urgenza di scrivere, sapendo benissimo che poi
l’avrei persa».
- Certo -. «Ma era molto
importante per me allora la possibilità di diventare un testimone, lo sentivo
già allora. Non solo io, ma un po’ tutti, tutti quelli con cui si parlava
dicevano: “È importante sopravvivere per poterlo raccontare perché il mondo
le sappia queste cose”. Avevamo piena consapevolezza: però non è che questo
ci permettesse di fare gli esploratori del lager. Non era possibile, c’erano
questioni immediate, come quello di trovare un pezzo di pane, di proteggersi,
di aver salva la vita. Quindi io e altri immagazzinavamo tutto voracemente,
tutte le esperienze. Anzi, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la
storia degli altri. Ed effettivamente cadevano su un terreno buono, perché
queste cose sono indimenticabili. Io ancora adesso mi ricordo le facce di gente
vista trent’anni fa».
- Le facce? - «Le facce. Tanto
che quando mi è successo, come mi è successo, di ritrovarne qualcuno, l’ho
subito riconosciuto, e lui me. Ho riconosciuto, ho ritrovato Pikolo, quello del
canto di Ulisse... Jean...»
- E questa discussione su Ulisse,
si è svolta veramente? - «Non c’è niente di inventato nel libro. Non c’è
nulla di inventato. Non una parola.(...) L’unica autocritica che potrei fare è
quella che non ho messo in luce abbastanza questa validità politica del
libro».
- Parli di “Se questo è un
uomo”? - «Se non lo avessi scritto allora lo scriverei adesso».
- Ma lo scriveresti con le stesse
intenzioni? - «No».
- Come un documento? - «No: lo
scriverei, in primo luogo, con lo stile di un uomo che ha trent’anni di più, e
trent’anni di più vogliono dire molta esperienza in più e molta vitalità in
meno. Quindi non so cosa verrebbe fuori: verrebbe fuori una cosa completamente
diversa. Soprattutto però lo scriverei oggi con riferimento preciso al
fascismo di oggi che nel libro non c’è. Quando ho scritto Se questo è un uomo
il fascismo era finito, non c’era più, era chiaro come il sole che non c’era.
Era finito di fatto, era stato sepolto, come partito politico non c’era né in
Italia né in Germania. Ma se lo scrivessi oggi... userei il mio libro come uno
strumento».
- Lo strumentalizzeresti,
diciamo... - «Sì, già lo userei come strumento. Lo faccio quando vengono i
ragazzi a parlarmi. Tendo a mettere in chiaro che c’è una linea diretta che
parte dalle stragi di Torino del ’22, Brandimarte (capo delle squadre d’azione
fascista: è lui a guidare la strage che a Torino, il 18 dicembre del 1922,
porta alla morte di 14 antifascisti e alla distruzione della Camera del Lavoro.
Nel novembre del 1971, al funerale, un reparto di 27 bersaglieri del 22 ̊ reggimento fanteria della divisione
Cremona, al comando di un ufficiale, rende gli onori militari alla sua salma,
ndr), e finisce ad Auschwitz. C’è una continuità abbastanza evidente».
- Sì, c’è una continuità, ma
hai detto che lo sterminio riguardava i tedeschi, no? - «Stiamo parlando di
qualcosa che è stato inventato in Italia e perfezionata in Germania»
- Ah! è stata inventata in
Italia... - «Le prime stragi fasciste sono italiane... sono torinesi».
- Pensavo che... - «Lo sterminio
industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è
un’invenzione italiana».
- Ho capito. - «Il fascismo è un
brevetto italiano, eh!»
- Purtroppo... - «Torinese,
voglio dire. Insomma la strage del ’22.... Era una caccia, una caccia per le
strade. Non so se hai letto qualcosa in proposito...».
- Sì, qualcosa... - «Brandimarte
(...), è morto nel suo letto (...). È stato assolto per insufficienza di
prove».
- Sì, ma c’è tanta gente ancora
che gira... - «Sì, veterani».
- Sì, sì. - «Federali. Capi di
gabinetto, capi giunta, Almirante: appunto, se scrivessi oggi, metterei più in
chiaro questa cosa (...). Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto
che meritasse la pena di documentare certe cose perché erano finite. Adesso
non sono più finite, bisogna parlarne di nuovo».
- Allora diciamo che lo
scriveresti sotto un profilo meno scientifico, più... - «No, penso che non
toglierei niente, però aggiungerei molto».
- Ah! capisco, e perché non lo
fai? - «Perché non si può scrivere due volte lo stesso libro. (...)Come ti
dicevo prima, che c’è una linea diretta fra Brandimarte e Auschwitz. Questa
linea non finisce ad Auschwitz, continua in Grecia, è continuata in Algeria
con i francesi. È continuata in Unione Sovietica, puoi dire di no?» (...)
- A proposito di Se questo è un
uomo e di La tregua: credi che servano, diciamo, per educare ad una certa
coscienza? - «Dipende dall’insegnante. Il fatto stesso che venga scelto quel testo,
testimonia che l’insegnante ha delle buone intenzioni, cosa poi ne nasca non so
dirtelo. Ho l’impressione che in generale perché vengono molti ragazzi qui, o
mi telefonano per avere delle informazioni che queste cose vengono sentite,
appunto, come passato remoto, una cosa un capitolo arcaico, come i garibaldini
insomma, come la rivoluzione francese, una cosa molto, molto lontana. Infatti
è abbastanza lontana nel tempo, ma... solo nel tempo è lontana»... (...)
- Con che spirito l’hai scritta
La tregua? - «Ho scritto La tregua nel ‘61-‘62 quando era appena crollato il
mito della Russia monolitica, della Russia paese del socialismo, della Russia
perfetta, paradiso secondo i comunisti e inferno secondo gli americani, o
secondo i nostri democristiani. Erano due visioni talmente manichee, talmente
assurde, sia l’una sia l’altra, che mi sembrava molto importante raccontarla
così come io l’avevo vista».”
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