Da “Globalizzazione
addio. 2016: i pentiti del libero scambio” di Federico Rampini, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 30 di giugno dell’anno 2016: New
York - "Quando sarò presidente - annuncia Donald Trump - usciremo dal
Nafta (mercato comune con Messico e Canada), e denuncerò la Cina per
concorrenza sleale e manipolazione del cambio". Gli risponde la US Chamber
of Commerce che è l'equivalente della Confindustria: "Se si realizzano le
proposte di Trump avremo rincari dei prezzi, una recessione, tre milioni di
posti di lavoro a rischio. Il 40% dell'occupazione americana è legata in
qualche modo al commercio estero". A sinistra Bernie Sanders annuncia che
darà battaglia alla convention democratica di luglio, a Philadelphia: vuole che
Hillary Clinton metta nella suo programma elettorale una forte presa di
distanza dai nuovi trattati di libero scambio. All'ultimo G7 in Giappone, prima
dello shock di Brexit, un alto dirigente della Commissione europea aveva
paventato uno scenario estremo: "Che ne sarà dell'economia mondiale, se
fra un anno il prossimo G7 riunirà come leader dell'Occidente Donald Trump,
Boris Johnson, Marine Le Pen e Beppe Grillo?". Ma non è solo dalle frange radicali,
dai populismi di destra e di sinistra, che parte l'assalto alla
globalizzazione. Segnali di ripensamento, ripiegamento e ritirata arrivano da
molte direzioni. La Cina sotto Xi Jinping è più nazionalista, rivaluta il
capitalismo di Stato e il dirigismo, moltiplica le forme di protezionismo
occulto, gli ostacoli alle imprese occidentali. L'India si vede incoraggiata
nella sua reticenza ad abbracciare il liberismo: ha sempre mantenuto un alto
livello di intervento pubblico e molteplici barriere agli stranieri. Perfino
tra i protagonisti americani delle prime stagioni della globalizzazione,
dilagano i "pentiti". Un caso clamoroso è Larry Summers. Quando era
segretario al Tesoro di Bill Clinton, fu l'artefice della deregulation
finanziaria. Ora che è tornato a fare il professore a Harvard, parla di
"stagnazione secolare" e fa autocritica. "Nuove ricerche -
riconosce Summers - hanno cambiato le idee dominanti sul commercio
internazionale. Abbiamo le prove che la globalizzazione ha aumentato le
diseguaglianze all'interno degli Stati Uniti, ha aumentato le opportunità
riservate ai più ricchi e ha esposto i lavoratori a una competizione più
serrata". Summers avanza proposte per aprire un nuovo corso. "La
maggiore mobilità del capitale e delle imprese non deve togliere agli Stati la
capacità di proteggere i cittadini". Sul trattato Tpp fra gli Stati Uniti
e l'Asia- Pacifico, le idee di Summers non divergono molto da quelle di Barack
Obama: i nuovi patti devono includere meccanismi vincolanti sui diritti dei lavoratori,
le conquiste sociali, la protezione dell'ambiente. Nella sua recente visita in
Vietnam, Obama ha sottolineato che grazie al Tpp il governo comunista di Hanoi
s'impegna a consentire dei sindacati liberi. Un altro protagonista del
revisionismo è Paul Krugman. Il premio Nobel dell'Economia nel 2008 gli fu
assegnato proprio per i suoi studi originali sul commercio estero. Fu uno dei
primi teorici della globalizzazione. Anche lui è diventato più critico. Senza
ripudiare l'idea che gli scambi tra nazioni sono benefici, Krugman sottolinea
che la distribuzione dei vantaggi dipende dalle regole, e le regole sono il
frutto di scelte politiche. I sistemi fiscali sono stati distorti per favorire
il grande capitale e le multinazionali. Le regole sul mercato del lavoro hanno
rafforzato il potere contrattuale delle imprese e indebolito i dipendenti. La
stessa traiettoria l'ha percorsa l'economista Jeffrey Sachs della Columbia
University: "Ho sempre creduto all'utilità degli investimenti
internazionali. Anch'io ho contribuito a promuovere la globalizzazione. Ma non
bisognava dare il controllo di questi processi in mano a Wall Street e Big
Pharma". Tra le sue proposte: trattare in modo diverso gli investimenti
produttivi e quelli della finanza speculativa a breve termine.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
sabato 30 giugno 2018
venerdì 29 giugno 2018
Quodlibet. 92 “Stagnazione secolare. «2008: lo shock della finanza»”.
Da “Globalizzazione
addio, 2008: lo shock della finanza” di Federico Rampini, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 29 di giugno dell’anno 2016: New York - La frana dei titoli
bancari nel post-Brexit è l'ultimo sussulto di una crisi che riporta alla
memoria precedenti ben più gravi. 15 settembre 2008: un assembramento di
telecamere circonda il grattacielo al numero 745 della Settima Strada,
Manhattan. Riprendono "gli ultimi minuti della Lehman Brothers", la
banca d'investimento che ha appena fatto ricorso al Chapter 11, la legge sul
fallimento. Le immagini dei dipendenti che escono con i loro effetti personali
nelle scatole di cartone, fanno il giro del mondo. La maggioranza degli
americani e degli europei ancora non sospettano la gravità dello shock
sistemico che sta per innescarsi, le conseguenze drammatiche che colpiranno
l'economia reale, l'ecatombe dei posti di lavoro. In quelle ore si consuma una
svolta storica: si chiudono gli anni ruggenti della globalizzazione, il ruolo
della finanza finisce sotto accusa, inizia una fase di convulsioni politiche
che alimentano populismi fino a fenomeni come Brexit e l'ascesa di Donald
Trump. L'implosione di Wall Street nel 2008 è stata preceduta da segnali
premonitori. Nel 1997 la crisi asiatica con le svalutazioni a catena nei
"dragoni" dell'Estremo Oriente; nel 1998 il crac dello hedge fund
Ltcm salvato con mezzi d'emergenza dalla Federal Reserve di Alan Greenspan; nel
marzo 2000 l'esplosione della bolla speculativa di Internet e il tracollo del
Nasdaq. Tremori lievi se paragonati al sisma del 2008, seguito dalla più grave
crisi dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. Ma due studiosi di storia
degli shock finanziari, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, osservano che i crac
diventano sempre più frequenti, sempre più ravvicinati. Sul banco degli
imputati finisce la deregulation finanziaria degli anni Novanta, avallata anche
da governi di sinistra sulle due sponde dell'Atlantico. In particolare sono
sotto accusa Bill Clinton e i suoi segretari al Tesoro Robert Rubin e Larry
Summers: decisero di abrogare la legge Glass-Steagall che separava i mestieri
della banca di deposito (che gestisce il risparmio) e dell'investment bank che
investe in partecipazioni azionarie e titoli a rischio. La "Terza
Via" di Clinton e Tony Blair è sospetta di subalternità al neoliberismo. È
una storia che viene da lontano. Risale alla fine degli anni Settanta la
diffusione dei titoli derivati, teorizzati da Milton Friedman, premio Nobel
dell'economia e patriarca dell'ideologia mercatista. Ha fatto proseliti anche
nelle socialdemocrazie europee e nel partito democratico americano, quell'idea
che la libertà globale dei movimenti di capitale, e lo sviluppo di strumenti
finanziari sempre più sofisticati, moltiplica le opportunità di rendimento per
i piccoli risparmiatori. Alla lunga il bilancio è diverso.
giovedì 28 giugno 2018
Quodlibet. 91 “Stagnazione secolare. «Gli anni ruggenti 1999-2001»”.
Da “Globalizzazione
addio, gli anni ruggenti 1999-2001” di Federico Rampini, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 28 di giugno dell’anno 2016: New York - L'81esima Brigata
della Washington State Patrol batte in ritirata. Si dimette il capo della
polizia di Seattle. Bill Clinton deve chiamare la Guardia Nazionale. Il
vertice-simbolo della globalizzazione nasce e muore nel caos. 30 novembre 1999:
Seattle è sotto assedio. Un summit tra capi di Stato deve varare i nuovi
negoziati mondiali sulla liberalizzazione degli scambi. Protagonista è la World
Trade Organization (Wto), Organizzazione del commercio mondiale, arbitro e
cabina di regìa della globalizzazione. Ma a Seattle converge la "madre di
tutte le proteste": 40.000 manifestanti, in una serie di cortei dove si
fondono i sindacati operai, le ong ambientaliste, i primi black-bloc. Irrompe
sulla scena il movimento no-global. Il vertice finisce nel caos: molti leader
dei governi assediati negli alberghi non riescono neppure a raggiungere il
centro congressi, avvolto in nuvole di lacrimogeni, le forze dell'ordine sono
sopraffatte. Quel giorno viene scritto un copione che si ripeterà in molti
summit successivi, raggiungendo l'apice al G8 di Genova nel 2001. Perfino il
World Economic Forum di Davos, l'esclusivo ritrovo dei Vip ad ogni fine gennaio
sulle montagne dei Grigioni, dopo i precedenti di Seattle e Genova è costretto
a blindarsi. Seattle lancia temi che sono attuali oggi: gli effetti della
globalizzazione sui salari occidentali; i danni per l'ambiente e la salute dei
consumatori; lo strapotere delle multinazionali. 17 anni fa è già vivace quella
critica che oggi prende di mira una nuova generazione di trattati, il Tpp tra
America e Asia-Pacifico, il Ttip tra Stati Uniti ed Unione europea. Ma la vera
ragione per cui fallisce il vertice di Seattle è un'altra: 40 delegazioni
governative venute dall'Africa e dall'America latina respingono l'accordo; sono
i paesi dell'emisfero Sud a far saltare le trattative, allora, perché si
ritengono sopraffatti dagli interessi del capitalismo occidentale. Il movimento
no-global condivide questa narrazione. Anche in Occidente gli avversari della
globalizzazione pensano che nel nuovo assetto economico mondiale i perdenti
saranno i paesi in via di sviluppo. Il tema dell'ingiustizia viene declinato
lungo l'asse Nord-Sud. Lo stesso vale per i primi guru teorici del no-global.
Il più celebre è Joseph Stiglitz, che vince il Nobel dell'economia nel 2001,
dopo avere "divorziato" dall'ortodossia liberale: negli anni Novanta
era stato consigliere economico di Bill Clinton e capo economista della Banca
Mondiale. Il suo libro "La globalizzazione e i suoi oppositori"
(2002) è un attacco al "consenso di Washington": le dottrine a base
di austerity e privatizzazioni che la Casa Bianca e il Fondo monetario internazionale
impongono ai paesi del Terzo mondo. I progressisti in Occidente sono convinti
che la globalizzazione sia un nuovo capitolo dell'imperialismo post-coloniale.
mercoledì 27 giugno 2018
Quodlibet. 90 “Il «tempo perso» di Ingrao”.
Da “Il tempo
perso di Ingrao. Il valore della contemplazione” di Pietro Ingrao,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di giugno dell’anno 2017: (…). Io
nutro ancora una speranza, la mia unica speranza, senza la quale sarei
veramente disperato: che le cose possano cambiare. Nel corso della mia lunga
vita ho ricevuto tanto dagli altri, ben più di quanto meritassi, per cui non ho
una visione funerea dell’attuale società. Credo però che effettivamente si sia
aperta una grande questione, che si prospetti un grave pericolo. Io sono
vissuto tutta una vita nella lotta per la tutela e la salvezza del lavoro, di
quel grande fatto umano che è il lavoro. Fin da bambino ho imparato che il
valore dell’esistenza era inscindibilmente legato al lavoro. Sono del resto due
secoli che si parla di espressione della propria identità nel lavoro: è un
concetto che accomuna capitalisti e comunisti. Anche nella cristologia si
possono trovare visioni simili. Ora, tuttavia - (…) -, sento sorgere un dubbio su questa scala
di valori, che in passato ritenevo tanto assoluta. Un evento fondamentale è
stato per me lo sviluppo della macchina, prodotto dell’industria moderna. Chi
verrà dopo di noi scriverà che nel XX secolo le macchine hanno straripato, si
sono diffuse inondando il mondo, a seguito di una rivoluzione sconvolgente che
ha posto al suo centro l’atto meccanico del produrre. Io sono stato addentro a
questa logica e ho combattuto questa battaglia. Ora, però, temo che tutti
dormano, che si siano dimenticati momenti ulteriori dell’esperienza umana, che
ritengo invece essenziali al pari del lavoro. Ciò significa che è necessario un
grande passo in avanti. Non basta più chiedere una ulteriore settimana di
vacanza, bisogna invece spostare l’intero asse dei valori. Non bisogna più
avere soltanto la scala del reddito medio o minimo, oppure del tempo con cui si
produce qualcosa. Mi spavento quando sento il poco valore assegnato alla
“perdita di tempo”, quando vedo l’inganno che rappresenta l’espressione stessa:
“perdita di tempo”. Allo stesso modo mi spaventa il disprezzo verso il
notturno, verso quel che è l’io, che a me pare una soglia e che è in fondo
l’aprirsi di un’altra sfera, il liberarsi di qualcosa di sé, inteso però anche
nel suo senso più preciso e letterale, come disse Freud. Mi spaventa una
società che non se ne cura, che lo manda al diavolo se la macchina ha bisogno
di lavorare durante la notte. Al diavolo però vanno non solo le ore che si
perdono, poiché non si tratta soltanto di quantità di tempo: è la qualità di
quel tempo a essere perduta. Si perdono l’inoltrarsi nel sogno, il vagabondare,
il contemplare. Di nuovo, il contemplare.
martedì 26 giugno 2018
Terzapagina. 34 «La democrazia finisce piano piano».
Da «La
democrazia finisce piano piano», colloquio di Marco Damilano con la
senatrice Liliana Segre, a 14 anni deportata - numero di matricola 75190 - nel campo
di sterminio nazista di Auchwitz-Birkenau pubblicato sul settimanale L'Espresso del 3 di giugno 2018: Lo ricorda bene, quel due giugno 1946, il
giorno del referendum istituzionale in cui l’Italia scelse di voltare pagina e
di diventare una Repubblica. «Avevo quindici anni e non potevo votare, però ho
ancora quella sensazione di gioia collettiva. Qualcosa di nuovo dopo tante
tragedie, l’esplosione di felicità per questa Italia ritrovata, in
ricostruzione, ottimista, questo mondo intorno a me che festeggiava, anche se
io ero personalmente lacerata. Ero una vecchia ragazza che aveva già visto
l’indicibile, come lo ha chiamato Primo Levi». (…).
Sembra di vederla nel 1946, provo a
immaginarla, doveva avere la stessa età della ragazza che compare nella foto
simbolo di quel giorno, quella che alza la prima pagina del giornale a titoli
cubitali con la notizia più emozionante: è nata la Repubblica italiana. «Per
quello che succedeva attorno a me, con quel che restava di me stessa, ero
felice. Nella mia casa, prima della tragedia, mio padre e mio zio erano stati ufficiali
nella Prima guerra mondiale. Mio zio fascista, mio padre antifascista. Si
amavano molto, discutevano moltissimo. Mentre mio padre è finito ad Auschwitz,
mio zio si è salvato, ha vissuto a lungo ma per tutta la vita aveva l’incubo di
non essere riuscito a portare giù dal treno per il lager suo padre, mio nonno.
E lui che era stato ufficiale dell’esercito regio ed era stato a Caporetto,
fascista e monarchico, quel giorno votò per la Repubblica e mi disse: mai mi
sarei aspettato di votare felicemente per la Repubblica». (…).
Il Quirinale, la sede della presidenza, la
suprema garanzia costituzionale, assediato dalle critiche (legittime) e dagli
insulti (vergognosi). Il capo dello Stato minacciato, offeso perfino
nell’affetto più caro, il fratello Piersanti ucciso dalla mafia, con i messaggi
ripugnanti apparsi sui social. Il silenzio di partiti, sindacati, intellettuali
che in passato sono scesi in piazza per difendere le istituzioni repubblicane e
che in questa occasione balbettano. E l’esigenza sempre più urgente di trovare
figure che sappiano parlare a tutto il Paese stremato e allibito dal balletto
dei politici sulla crisi, simmetrico a quello degli speculatori sui mercati. «Oggi
sono molto rattristata per la mia Italia, paese amato, alle soglie di qualche
sorpresa, di situazioni che mi sarei aspettata di non vedere più. (…). Abbiamo
avuto tante crisi politiche in questi decenni, formule di ogni tipo, ma quello
che sta accadendo in questi giorni è totalmente inaspettato. La Repubblica è la
cosa di tutti, ma oggi rischia di essere strattonata da una parte e dall’altra,
lo vediamo tutti, sono preoccupata. C’è una tristezza di fondo, nelle
polemiche, nelle speculazioni, anche nei giudizi della stampa internazionale,
così lontana dalla bellezza dell’Italia e da un popolo che non si merita questa
severità dei giudizio».
Sono tanti i motivi di preoccupazione e di
amarezza per la senatrice Segre, nominata a Parlamento sciolto, accolta tra gli
applausi a Palazzo Madama durante la prima seduta, il 23 marzo. «Conosco i miei
colleghi senatori a vita, sono stata troppo poco in aula per farmi un giudizio
degli altri, non sono una vecchia volpe. Quando sono stata nominata ho detto al
presidente Mattarella che sono sempre una bambina: mi hanno chiuso la porta
della scuola e ottant’anni dopo mi hanno aperto quella del Senato».
lunedì 25 giugno 2018
Sfogliature. 96 “Ma forse era solo un’altra Italia”.
“Sfogliatura” di martedì
25 di gennaio dell’anno 2011. Ove si discetta(va) sulla “doppiezza delle coscienze del
bel paese”. Si dirà: nulla di nuovo. È che i decenni trascorsi nella
mala-politica sono rimasti, quei decenni dicevo, come intrisi sino alle midolla
dalla spregiudicatezza e dalla im-moralità che non si riesce oggigiorno a ben
sperare in un rinnovamento ed un riscatto. Risultano inutili financo gli
avvicendamenti del personale della politica che portano con se, come stimmate
purulenti, quanto di più perverso la mala-politica sia riuscita a creare nei
decenni passati. E di quella “doppiezza delle coscienze del bel paese”
ne fanno buon uso e mostra mediatica i novelli reggitori della cosa pubblica
che, nell’avvilupparsi caotico della politica sui temi più scottanti, additano
alla “pancia” del bel paese i possibili “nemici” da cui difendersi, ovvero i
trafugatori di matasse di rame, dimentichi come avviene di additare alla
pubblica opinione invece i principali responsabili delle rapine, ovvero coloro
che hanno depredato il paese al comando delle loro banche, o magari hanno
dilapidato milioni di pubblico denaro non già al servizio della politica ma per
inconfessabili interessi e motivi personali e/o di gruppo. Sta tutta qui quella
“doppiezza
delle coscienze del bel paese”, tanto è vero nei “luoghi di
accoglienza” preposti si contano ben pochi frodatori dei beni pubblici, mentre
si stipano in essi i diseredati e i più dei miserabili – nel senso alla Hugo –
cittadini. Scrivevo allora, il 25 di gennaio dell’anno 2011: Mi ero avventurato, in un mio post di mercoledì
19 di gennaio, a scrivere:“È che vien fuori sempre la doppiezza delle coscienze
del bel paese. Ove esiste da sempre una doppia moralità. Coloro che oggigiorno
sostengono, arditamente e spudoratamente, che la vicenda sia da ricondursi ad
un fatto privato di quel mattacchione di cavaliere, reagirebbero in tale modo
se ad essere vittima di quel cavaliere stravagante fosse una familiare
prossima, una minore della sacra famiglia, della tribù?”. Mi ero avventurato, incoscientemente,
a fare un esame sociologico non avendone gli strumenti adeguati. Imprudenza
somma. Sono stati i fatti dei giorni a seguire a farsi carico di smentire
quella mia improvvisata disamina dei processi sociologici ed antropologici in
corso, che caratterizzano il bel paese all’inizio del secondo decennio del terzo
millennio della Storia. Ne chiedo venia. I fatti dei giorni a seguire mi hanno
smentito clamorosamente. Non più di una doppiezza di moralità bisognerebbe
parlare oggigiorno per il bel paese. La moralità ha subito una evoluzione per
la quale ben più pressanti premure, immancabilmente materiali, determinano e
dettano le regole ed i comportamenti degli “italioti”.
Sono cadute quelle improvvisate mie asserzioni dinanzi allo scempio palese di tante
coscienze che di fatto rendono auspicabili ed accettabili comportamenti che, in
altre stagioni della vita e della Storia del bel paese, non avrebbero trovato tanto
spazio e/o paternità alcuna. Oggigiorno urge l’accaparramento. Che sia lecito o
meno, che sia frutto delle proprie abilità e qualità non importa, purché ci si
accaparri di ciò che il “sogno” di un
arricchimento facile, anche furbescamente e/o delittuosamente conquistato,
anche in barba alle leggi vigenti, arricchimento per tutti fatto balenare nelle
verdi contrade del bel paese, si materializzi e giunga a portata di mano dei più. Come, non importa. Meglio
ancora, che l’accaparramento avvenga nelle forme più semplici e spedite, di un
arricchimento che nasca anche dal dolce mestiere delle tante “bocca di rosa” cantate da quello
straordinario artista che è stato Fabrizio De Andrè. Ma pur c’è stata una
stagione nella vita e nella Storia del bel paese nella quale l’orgoglio della
propria esistenza, di una dignità fatta non sulle cose possedute né tanto meno
sull’apparire, ma sull’essere e sulle qualità che l’essere dispiega quando è
specchiato e veritiero, quell’orgoglio e quella dignità anche se limitati o
poveri nei mezzi, erano una costante largamente diffusa nelle ubertose contrade
del bel paese. Oggi i fatti reali e concreti, e non tanto le spericolate
alchimie sociologiche che si ingegneranno di spiegare ciò che è spiegabile di
questi tristissimi anni, s’ingegnano e ci dimostrano, in forme
incontrovertibili, che di quella umanità, di quell’essere orgogliosi e
dignitosi, si è persa traccia in ampi strati delle popolazioni che abitano il
suolo italico. “Ma forse era solo
un’altra Italia” scrive il giornalista e scrittore Claudio Fava sul
quotidiano l’Unità del 24 di gennaio dell’anno 2011 nel Suo editoriale “Il silenzio dei padri”, che di seguito
trascrivo in parte.
sabato 23 giugno 2018
Sullaprimaoggi. 2 “L’«homo dignus» di Stefano Rodotà”.
Ha scritto Luigi Manconi – in “Quanto manca il militante Rodotà”, sul settimanale L’Espresso del
17 di giugno - nel Suo accorato “ricordo” di Stefano Rodotà ad un anno dalla
scomparsa dell’insigne studioso ed Uomo pubblico: L’homo dignus è la nuova
manifestazione della personalità umana nel costituzionalismo dei diritti di cui
scriveva Rodotà: l’eguale dignità di ciascuno supera l’astrazione del vecchio
individualismo liberale e riscopre la centralità della concreta esperienza
della persona umana a partire dal suo corpo e dai suoi bisogni. Una nuova
morfologia è la chiave interpretativa con cui Stefano Rodotà ci guida per le
strade più impervie: la corporeità fisica o elettronica è il centro di
attrazione di vecchi e nuovi diritti così come il corpo è il luogo della differenza
delle persone e dei loro bisogni, tutte e tutti meritevoli di riconoscimento e
di garanzia. In questo primo anniversario ri-propongo la lettura del
testo a firma di Stefano Rodotà “La dignità della persona” pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 12 di febbraio dell’anno 2017: «Siate
realisti: chiedete l’impossibile». Questo ammonimento, che Albert Camus affida
a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di riferimento per
tutti coloro che pensano e agiscono politicamente - e comunque identificano la
politica con il cambiamento. Il rischio concreto, altrimenti, è quello di una
sorta di tirannia dei fatti che, se considerati come un riferimento da
accettare senza alcuna valutazione critica, come l’unica misura e regola del
possibile, ben possono trasformarsi in una trappola, o una prigione. Una
questione di evidente rilievo culturale e che, se trasferita sul terreno
politico, può aprire una strada verso finalità sostanzialmente conservatrici. È
quel che sta accadendo in molti casi, con una scelta che non può essere
considerata inconsapevole o innocente. L’attribuire ai nudi fatti la competenza
a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine ad una sorta di
naturalismo che sconfigge la necessaria e consapevole artificialità della
regola giuridica e della decisione politica.
venerdì 22 giugno 2018
Sullaprimaoggi. 1 “La paura è di destra, la vergogna sia di sinistra”.
Da “La paura
e la vergogna” di Wlodek Goldkorn, pubblicato sul settimanale L’Espresso
del 17 di giugno 2018: Le parole sono: paura e vergogna. (…). Partendo
da una riflessione di un intellettuale cosmopolita, vittima (più volte) e
avversario (per scelta) di ogni nazionalismo, di ogni chiusura delle menti e
dei porti. Partiamo da una riflessione quasi marginale, in apparenza fatta a
caso, di Zygmunt Bauman. Era l’anno 2007, un anno prima dell’inizio della
grande crisi, di quell’evento che da una decade ormai rende insicuri non solo i
nostri risparmi e posti di lavoro, ma che ha messo in questione la stessa
parola avvenire. Bauman stava scrivendo uno dei suoi numerosi libri, intitolato
“L’arte della vita”. E tra le altre cose ragionava sui casi delle persone,
nella storia europea, per le quali (parole sue) «il senso della vergogna era
più forte della paura della morte». Intendeva coloro che mettevano a rischio la
propria vita, pur di salvare le vite degli ebrei durante la Seconda guerra
mondiale, ma anche degli eroi delle lotte per la libertà e la dignità umana di
quei Paesi (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Russia) che oggi sono
all’avanguardia nel calpestare ogni concetto della dignità umana; e a cui come
a un faro guardano certe forze politiche italiane. Diceva il sociologo e
filosofo polacco, esule in Inghilterra: per queste persone il senso della
vergogna era più forte della paura della morte. Erano eroi? Forse, ma prima di
tutto erano uomini e donne che nell’altro, in colui che soffre, che viene
umiliato e privato di ogni diritto, perfino del diritto alla vita, vedevano un
fratello, una sorella, un altro io. E per parafrasare Hannah Arendt: la
banalità del male è l’assenza dell’empatia. O forse quella cosa che due
sopravvissuti alla Shoah, la senatrice Segre, appunto e il comandante in
seconda della rivolta nel ghetto di Varsavia, Marek Edelman, hanno chiamato
“indifferenza”. L’indifferenza, spesso, equivale alla condanna a morte.
Parlando dell’Europa e muovendo oggi accuse (giuste) all’Europa conviene
ricordarselo. C’è una parola di cui abbiamo fatto abuso (anche noi di sinistra)
e che per le destre, per tutti gli imprenditori della paura è un termine
chiave, un lemma che deve incutere terrore. La parola è “clandestino”. Ma che
cosa è un clandestino?
giovedì 21 giugno 2018
Quodlibet. 89 “La storia rottamata”.
Da “La
storia rottamata” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la Repubblica
del 21 di giugno dell’anno 2016: (…). In realtà dopo Tangentopoli, la morte
dei grandi partiti storici e l'era berlusconiana durata vent'anni, abbiamo
vissuto (…) nella palude finale della Seconda Repubblica, segnata da un
confronto-scontro tra destra e sinistra che ha prodotto l'alternanza anche se
non è riuscito in due decenni a riformare il sistema e a cambiare il Paese. Tutto
questo è finito (…).
mercoledì 20 giugno 2018
Quodlibet. 88 “Finisce la stagione della docilità”.
Da “Finisce la stagione della docilità” di Nadia urbinati, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 20 di giugno dell’anno 2011: (…).
Cittadini come donne e come bambini: infantilizzati per non farli cadere in
errore, e bollati di irrazionalità quando agiscono di testa loro! Le carte
vengono rovesciate. Poiché quando gli italiani si identificano con un capo
carismatico sono razionali, mentre quando votano contro le sue indicazioni sono
emotivi. Un controsenso plateale se si pensa che il diritto di voto è praticato
in silenzio proprio per consentire a ciascun cittadino di scegliere
liberamente, con la propria testa.
martedì 19 giugno 2018
Primapagina. 100 “Quello&l’altro”.
Da “Matteo
Due, la barzelletta che fa ridere soltanto lui” di Antonio Padellaro, pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” del 17 di giugno 2018: (…). Venerdì sera (15 di
giugno n.d.r.), Matteo Salvini se la ride in tv mentre commenta il lavoro dei
magistrati romani. Scherza, sfotte, si sente invulnerabile, in un ventre di
vacca. I 200 mila euro versati dal costruttore Parnasi alla Lega? Ah ah, tutto
legale. Lui se ne catastrafotte (Cammilleri). Pensate, è il ministro degli
Interni, dovrebbe rappresentare “con onore e disciplina” (art. 54 della
Costituzione) il governo, le istituzioni. Ma è un problema che neppure lo
sfiora quando definisce “il nulla” l’inchiesta della Procura della Capitale.
Migliaia di pagine di verbali? Ah ah, il nulla. Ammissioni e dimissioni (il Mr.
Wolf di Acea, Lanzalone). Il nulla. Da scompisciarsi. Come dargli torto? Ormai
cammina, anzi si libra, sospeso in una nuvola di lodi, celebrazioni,
incensamenti. Già prima era tutto un turibolare Matteo Due (spesso gli stessi
che avevano turibolato Matteo Uno Renzi). Quanto è bravo, un politico di razza,
un profeta. A dirlo erano i suoi amici leghisti, gli elettori con la bava alla
bocca, gli italiani (quelli che vengono “prima”) dal grilletto facile. Poi,
domenica scorsa, la “vomitevole” decisione di chiudere i porti ai 629 migranti
dell’Aquarius e Salvini diventa santo subito. A spellarsi le mani soprattutto
quelli che lo hanno sempre considerato un furbacchione, un perdigiorno, un ganassa.
Ieri era: uno che non ha mai lavorato in vita sua. Oggi è: lo statista che
tutto il mondo ci invidia. Quando dice: la pacchia è finita, subito i
massmediologi si arrapano per la genialità del messaggio. Quando definisce “in
crociera” quelli dell’Aquarius, “vomitevole” diventa un complimento. Lui
gigioneggia: “Mi sono fatto sentire, oggi l’Italia viene rispettata”. Sì, come
quello che fa quattro urlacci in una sala: certo che ti sentono ma l’unico
risultato è che poi t’insultano. Il “buon cuore” del premier socialista
spagnolo Pedro Sánchez ci evita il disprezzo del mondo civilizzato per avere
mandato alla deriva una nave di disperati. Infatti, col grande statista non
vuole parlarci nessuno. Infatti, Donald Trump ed Emmanuel Macron si sperticano
in elogi per Giuseppe Conte chi? Non conta una cippa ma dialogheranno solo con
lui. L’uomo del Viminale ci resta male, frigna. Ma il gioco è scoperto. Il
mondo ci rispetta (ah ah) ma i migranti continuano a sbarcare sulle coste
italiane. Lui si accontenta di aver spezzato le reni alle Ong. Sulla vicenda
dello stadio fa il bullo ma “il no so se ci sono altri elementi”, a Testaccio,
si chiama strizza. È un demagogo dal fiato corto che lucra sulle disgrazie
degli alleati Cinque Stelle. A cui più che la compagnia di qualche mariuolo
viene fatta pagare la pretesa di legalità. Come si permettono? Invece, alla
Lega di Salvini, con quei precedenti (tanto per dire: una banca padana fallita,
il tesoro scomparso del tesoriere) si perdona tutto. Lì la pacchia prosegue.
Però, non chiamatelo fascista. Quella fu una tragedia. Questa è una barzelletta
che fa ridere solo lui.
lunedì 18 giugno 2018
Terzapagina. 33 “Qui parla «Prada»”.
Da “Bertelli:
«L'euro ci ha difeso. Attenti al debito e al futuro»", intervista di
Luca Piana a Patrizio Bertelli - “Ceo” di Prada -, pubblicata l’11 di giugno
2018 sul settimanale “A&F”: (…). Il
governo Conte si è appena insediato, Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono i
nuovi uomini forti d'Italia. Interrogativi? “Non è un problema d'interrogativi.
(…). Il fatto è che non ci si può improvvisare imprenditori, così come in
politica non si dovrebbe improvvisare nulla. Hanno parlato di nuovi barbari, ma
secondo me il problema è ben più profondo, riguarda la nostra società".
In che modo? "I nuovi politici sono la
conseguenza di un Paese in cui è stato tolto il servizio militare, senza
sostituirlo con un servizio civile in cui venisse insegnato il senso della
Costituzione, dove si facesse formazione, o si coinvolgessero le persone nel
sistema della protezione civile. Una volta il rispetto lo imparavi in molti
modi, nelle fabbriche grazie al ruolo del partito socialista o del partito
comunista, negli oratori con la Chiesa. Si è dissolto il sistema di formazione
diretta che riguardava non soltanto gli aspetti sociali e culturali, ma anche
il lavoro, l'industria, il mondo contadino. Oggi la formazione i ragazzi la
fanno su Instagram o su Facebook. Mi ricordano un po' gli albanesi che negli
anni Ottanta arrivavano in Italia, convinti che tutto fosse come nei programmi
televisivi".
Le mancano i partiti di un tempo? "No.
Mi manca il senso del sociale che si trasmetteva nelle fabbriche, nei comitati
con cui le istituzioni affrontavano i problemi, nel sindacato. Pensi anche al
cinema, al messaggio d'impegno trasmesso da molti film, penso ai lavori di Gian
Maria Volonté e persino a tante commedie, come "Mimì metallurgico"".
E invece oggi, che genere di messaggio
passa? "Un messaggio che a me sembra insidioso, soprattutto per i ragazzi.
Le persone credono che gli effetti del voto di protesta non possano nuocere a
loro stessi, che alla fine non incidano sulla sfera quotidiana, sui risparmi,
sui rapporti economici su cui è fondata la loro stessa vita. Non pensano che un
voto che vuol essere semplicemente "contro il sistema" rischia di
ribaltarsi contro loro stessi, perché alla fine il sistema siamo tutti noi.
Stiamo vivendo un momento di cecità civica e civile, un po' come i soldati che
venivano mandati in guerra. Nessuno di loro avrebbe seguito i generali, se
avesse saputo che andava a morire. E così si diceva che la guerra sarebbe
durata pochissimo, o che vincere sarebbe stato facile".
Il populismo fa presa ovunque ma l'Italia è
l'unico grande Paese d'Europa in cui i populisti sono al governo, come ha
certificato il premier Conte il giorno della fiducia. Come lo spiega? "In
generale occorre osservare che, oggi, nel mondo le persone che sono nate dagli
anni Ottanta in poi rappresentano già la maggior parte della popolazione.
Parliamo spesso di millennials ma, in realtà, dobbiamo tutti capire che cosa
pensa la "generazione Z", i ragazzi nati dopo il 2000. I vecchi
partiti non hanno compreso che occorreva mettersi in comunicazione con una
moltitudine di persone che comunicano essenzialmente via social. Spiegare
perché da noi queste nuove forze siano arrivate al potere è facile, basta
confrontare il nostro reddito medio con quello di Francia e Germania. C'è
troppa povertà e c'è la difficoltà di molti giovani a trovare un'identità
sociale, che passa per il coinvolgimento nel lavoro. Poi pesa anche un senso di
vendetta nei confronti di decenni di malgoverno".
Quando parla di scelte politiche che si
ribaltano contro gli elettori, pensa anche ai messaggi anti Europa che, in
maniera non limpida, hanno caratterizzato la formazione del nuovo governo? "Gli
imprenditori del Nord hanno votato in massa per la flat tax, ma ora sono
terrorizzati: se si esce dall'euro, vanno tutti a rotoli. L'euro è il collante
dell'Europa. Se non ci fosse, un Paese come il nostro tornerebbe ai tempi in
cui l'inflazione era al 15 per cento. L'euro ci ha difeso, abbiamo avuto grandi
benefici ma, allo stesso tempo, non possiamo pensare di scaricare le nostre
magagne addosso agli altri, e penso soprattutto al debito pubblico".
In questa nuova fabbrica lavorano quasi 800
persone, in Italia avete 2.974 dipendenti nella produzione e 4.706 in totale.
Come si sente un imprenditore a sostenere uno sforzo simile, pensando che
potrebbe essere messo in discussione un aspetto di fondo come l'appartenenza
all'euro? "Non mi faccio condizionare. C'è stato un momento in cui avremmo
potuto decidere se produrre fuori dall'Italia, e abbiamo scelto di stare qui.
La conseguenza è che dobbiamo tenere un livello altissimo, con un forte senso
di appartenenza da parte di tutti".
Perché i gruppi come Prada, con tanti
lavoratori, in Italia sono rari? "È l'effetto del mancato sviluppo tecnologico.
Il nostro mondo produttivo è rimasto troppo artigianale, e naturalmente non
intendo il senso migliore della parola, quello che riguarda la capacità delle
persone di compiere lavorazioni di altissima qualità. Quello è fondamentale, ed
è un punto di forza del made in Italy. Essere artigiani diventa un freno quando
pensi di poter fare tutto da solo".
Tante medie imprese vivono una fase
positiva. Gli imprenditori stanno imparando a superare i vecchi limiti? "Quelli
che esportano sì. Stare sui mercati internazionali ti obbliga a migliorare
continuamente. Molti però non sono ancora riusciti a fare il salto verso una
vera coscienza industriale".
Che cosa potrebbe aiutarli? "È facile
da dire, difficile da fare. Ci vuole un piano per agevolare le imprese che hanno
un progetto, sostenerle mentre lo mettono in pratica e poi accompagnarle
all'estero, con un Paese capace di vendere la propria immagine. L'Italia non si
è guadagnata sul campo i galloni che l'avrebbero fatta rispettare di più. La
nostra posizione, per molti versi marginale, poteva essere più credibile se, ad
esempio, avessimo investito di più in cultura, in forza intellettuale, in
competenza. Siamo sempre stati all'avanguardia, pensi al Rinascimento, ma oggi
non siamo all'altezza dell'eredità che la storia ci ha lasciato".
domenica 17 giugno 2018
Cronachebarbare. 54 “Il risiko furbetto della «sinistra unita»”.
Meriterebbe questo “Appelli & coltelli: il risiko furbetto della «sinistra unita»”
di Marta Fana e Francesca Fornario, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” il
sabato del 17 di giugno dell’anno 2017, di far parte di quella rubrichetta “quodlibet”
che vado tenendo e nella quale mi premuro di inserire ciò che ho letto nel
tempo passato e che mi è piaciuto tanto e che potrebbe piacere ad altri. Ma in
questo caso sono portato ad una scelta diversa essendo la “materia prima” di
quell’articolo quanto di più scadente e deplorevole si possa immaginare. E per
materia prima intendo i figuranti della politica del nostro sgangherato paese. Che
non merita quella pessima “materia prima” entrare a far parte di quell’empireo che
raccoglie – o cerca di raccogliere - il meglio delle cose pensate e scritte. Ce
ne fornisce l’ennesima prova di quell’inadeguatezza della “materia prima” Fabio
Bogo sul settimanale “A&F” dell’11 di giugno ultimo, nel Suo pezzo di spalla
nella prima pagina che ha per titolo “Lo
spoils system e il fuoco ai fienili”: (…). All'assemblea di Confcommercio, il
vicepremier e ministro dello Sviluppo e del Lavoro Luigi Di Maio ha infiammato
la platea annunciando l'addio a redditometro, studi di settore e spesometro.
Peccato che i primi due già non ci siano più, e che l'ultimo sia in via di
progressiva sostituzione con la fatturazione elettronica. Ovazione anche
all'annuncio che i commercianti sono tutti onesti e che l'onere della prova
sull'evasione fiscale verrà invertito. Cosa questo significhi non è chiaro, dal
momento che lo Stato che si muove contro un evasore lo fa proprio sulla base di
prove, costituite da violazioni che ritiene di aver accertato. Poi c'è il caso
dei controlli, che verrebbero garantiti grazie all'unificazione di tutte le
banche dati. L'idea in realtà non ha mai avuto grande popolarità in casa
5Stelle. All'avvio del data-base dell'anagrafe tributaria, il cosiddetto
Serpico, Beppe Grillo aveva così commentato: "Ogni transazione dei nostri
conti correnti verrà esaminata, è un passo verso la repubblica dei
Soviet". E infine la pace fiscale. Che si lancia, in modo perlomeno
imprudente, mentre è ancora aperta la rottamazione delle cartelle, i cui
potenziali incassi sono già stati messi a bilancio. Ma di argomenti per
raccogliere ancora consenso ce ne sono molti altri, nella logica della campagna
elettorale permanente che ha preso piede. (…). Si è a questo punto d’ignoranza
grossolana se non assoluta, d’improvvisazione spavalda, di un incessante e
riprovevole saltibeccare come nefaste cavallette su per “li rami” fronzuti - per
loro -, ovvero per quelli della casta della politica. E di saltibeccanti nefaste
cavallette di quella che era abitualmente chiamata la “sinistra” ne hanno
scritto - per l’appunto - le due autorevolissime corsiviste all’inizio citate. Leggiamole:
venerdì 15 giugno 2018
Primapagina. 99 “Il tracimante falso nuovismo leghista”.
Da “Operazione
Gattopardo” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 15
di giugno 2018: (…). Il quadro che emerge è un magnifico selfie di quel che accade in
Italia quando cambia o rischia di cambiare il sistema con i suoi equilibri di
potere. Ciò che è accaduto dopo il 4 marzo ha due soli precedenti in 72 anni di
storia repubblicana. Quello dell’immediato dopoguerra, quando andarono al
governo le forze politiche escluse dal ventennio fascista. E quello del
1992-‘94, quando crollò la Prima Repubblica sotto le macerie di Tangentopoli e
l’istinto di sopravvivenza dell’Ancien Regime produsse subito un formidabile
anticorpo al cambiamento: B. A bilanciarne il gattopardismo provvide una forza
nuova e dirompente come la Lega di Bossi. Che infatti dopo sette mesi lo buttò
giù. Oggi il Gattopardo è la Lega di Salvini che, sotto le mentite spoglie del
nuovo che avanza, ricicla tutto il vecchio che è avanzato (idee, persone,
lobby, prassi), controbilanciato dall’elemento più nuovo che la politica
italiana al momento conosca: i 5Stelle. Questi però non hanno né la solidità
culturale, il savoir faire amministrativo e la classe dirigente adeguata per
arginare il tracimante falso nuovismo leghista. E nemmeno per resistere ai
tentativi di infiltrazione. Parnasi, Bisignani e quelli come loro sanno
benissimo che i Di Maio e le Raggi sono inavvicinabili: hanno mille difetti, ma
non la corruttibilità. E allora aggirano l’ostacolo e bussano alla porta dei
Lanzalone, trovandola spalancata. Distinguere le verità dalle millanterie sarà
compito dei magistrati. Ma leggere di riunioni in casa Parnasi fra Lanzalone e
Giorgetti, leghista per tutte le stagioni, per “fare il governo” e di missioni
di Lanzalone nei palazzi del potere per le nomine pubbliche dà l’idea della
permeabilità del “nuovo” alle infiltrazioni del “vecchio”. Un movimento
cresciuto troppo in fretta e chiamato troppo presto al governo con quadri
improvvisati si affida agli “esterni”: tecnici, consulenti, boiardi,
funzionari, avvocati presi a prestito dal privato, dall’università, dal
Parastato, dalla Pubblica amministrazione, che magari sono fin troppo
competenti, ma non necessariamente condividono i valori di chi li ha chiamati.
E presto o tardi possono cedere a tentazioni di potere, di privilegio, di
conflitto d’interessi o addirittura di corruzione. E allora può succedere di
tutto: di azzeccare la scelta arruolando persone di valore (si spera che Conte
lo sia) o di sbagliare clamorosamente portandosi il nemico in casa, come Marra,
Lanzalone o Giordana (il braccio destro della Appendino dimessosi per una multa
levata a un amico). Troppi campanelli d’allarme per non porsi il problema
strutturale di un Movimento nato sulla trasparenza, sull’onestà e sul civismo
che potrebbe fare del bene all’Italia e invece rischia di perdere – e
soprattutto di farci perdere – un occasione che potrebbe essere l’unica: la
cronica mancanza di una classe dirigente autonoma, forte e preparata e
responsabile, capace di attrarre le forze migliori della società. Col risultato
di affidare la scelta di candidati, sindaci, assessori, ministri,
sottosegretari e consulenti al caso, o al culo. Certo, quando poi la mela
marcia salta fuori, ci si può consolare rinfacciando agli altri di essere
peggio e di non cacciare nessuno nemmeno dopo la condanna definitiva. Ma, fermo
restando che nessuno nasce dal nulla, tutti hanno una vita precedente e la
fabbrica dei santi ha chiuso da un pezzo, una forza “diversa” dovrebbe darsi
gli strumenti più adeguati per selezionare uomini e donne a prova di bomba.
Altrimenti, di errore in errore, passerà fra la gente l’idea che sono tutti
uguali, non si può cambiare niente e tanto vale riaffidarsi ai vecchi puzzoni.
A noi, della sorte dei 5Stelle, importa poco o nulla: ma se anche stavolta le
aspettative di cambiare venissero frustrate, nessun altro ci proverà mai più.
giovedì 14 giugno 2018
Primapagina. 98 “La politica del «serpente mangia serpente»”.
Da “Questo è
un governo di selvaggi, ma il Pd doveva parlare coi 5stelle”, intervista di
Antonello Caporale al professor Aldo Masullo – già deputato del P.C.I. e successivamente
senatore - pubblicata su “il fatto Quotidiano” dell’11 di giugno 2018: (…). “Domenica
3 giugno ero in casa in poltrona come rintronato dalla novità. Le immagini
scorrevano e il nuovo mondo si presentava. Ho provato una enorme solitudine. Mi
sono sentito perso. Il mio era lo straniamento di chi non ritrova non solo i
volti, e questo è naturale, ma le parole, le movenze, le virtù e persino i vizi
di una compagnia alla quale in qualche modo era abituato”.
Professore, lei sebbene col mal di pancia,
ha votato Partito democratico. “L’ho fatto e ancora lo rifarei per il senso che
io do alla parola fedeltà. La fedeltà non è una virtù privata o pubblica oppure
un gesto romantico. So bene quali siano le pecche, quanti gli errori, e il
numero dei narcisi e degli sprovveduti, degli arruffapopolo che sono transitati
nel Pd. La fedeltà che ho tributato al mio partito di riferimento, dal Pci a
tutti i suoi eredi, rappresenta lo sforzo continuo che noi facciamo per dare
una durata alle nostre idee, conservare qualcosa che è avvenuto ieri. Nel
deserto generale delle idee, la stabilità ideologica rappresenta per me un
porto sicuro, un piccolo punto fermo”.
Altri elettori di sinistra, e se ne contano
a milioni, hanno deciso diversamente da lei. “So bene. Perciò mi sarei
aspettato che il Pd, invece di divenire spettatore muto, promuovesse anzi
provocasse nell’immediato dopo voto un confronto con i Cinque Stelle. Io non
avrei atteso la chiamata, avrei invece avanzato dei punti programmatici sui
quali discutere. Forse non sarebbe accaduto nulla di strabiliante, ma avremmo
acquisito una posizione dominante nel dibattito politico e non saremmo relegati
al solo commento di uno scenario così lontano dalle nostre aspettative”.
martedì 12 giugno 2018
Primapagina. 97 “I pirati della «Carta» e le domande che premono”.
Da “Quel
«contratto» e i pirati della Carta” di Salvatore Settis, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 2 di giugno 2018: (…). Lo Statuto Albertino (1848) sopravvisse
cent’anni. Mussolini cercò di cambiarlo nominando una “Commissione dei Soloni”,
antesignana delle commissioni di “saggi” per la modifica costituzionale di
questi ultimi anni. Ma le modifiche proposte dai Soloni erano così tenui che il
duce preferì soprassedere, e alterare l’ordinamento con una raffica di
fascistissime leggi ordinarie, contando sul fatto che lo Statuto non lo vietava
espressamente e sulla complicità del Re. I saggi di nuova generazione ci hanno propinato
soloneggiando la riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciata dal referendum:
perché, per nostra fortuna, la Costituzione repubblicana prevede una procedura
rigorosa. Ma le voglie di cambiar tutto non si sono spente. C’è chi (come
Renzi) sogna di rilanciare modifiche simili a quelle appena naufragate. C’è chi
finge di dimenticare articoli cruciali della Carta, devastando la spesa
sociale, la cultura, la sanità, la scuola, il diritto al lavoro (che in
Costituzione ci sono) in nome dell’ossequio ai mercati (che in Costituzione non
c’è). E c’è chi rispolvera adattandola ai tempi l’opposizione, formulata ai
tempi dello Statuto Albertino, fra Costituzione formale e “Costituzione
materiale”.(…). Alla luce di questa aberrazione strisciante la crisi istituzionale
dei giorni scorsi rivela il diffuso ripudio della difesa della Costituzione che
sembrò unire il Paese nel referendum del 4 dicembre 2016, e la riscrittura di
una fantacostituzione a propria immagine e somiglianza da parte di molti attori
politici e istituzionali. Di qui le crescenti e contrapposte anomalie della
crisi dopo il 4 marzo. Per esempio (lo ha scritto sul Fatto Tomaso Montanari)
“l’irresponsabile percorso di privatizzazione delle istituzioni repubblicane,
culminato nel contratto fra Lega e Cinque Stelle”. Tale testo ripropone sì i
consueti accordi fra partiti, che però non presero mai la forma notarile del
contratto fra alleati che diffidano l’un dell’altro. Ma senza questa diffidenza
non si capisce come mai al ruolo di presidente del Consiglio sia stato
designato non (come vuole l’art. 95 della Costituzione) un responsabile in
prima persona della politica generale del governo, bensì un “esecutore” di
voleri altrui. Il dialogo fra presidente del Consiglio incaricato e Presidente
della Repubblica (previsto dall’art. 92 della Costituzione) ne risultava
compromesso. Da un lato un premier uno e trino, dall’altro un Capo dello Stato
riluttante ad accettare la situazione. In questo scontro non di forze, ma di
debolezze, la prova data dagli alleati giallo-verdi e da Mattarella con
l’impuntatura sul nome di Paolo Savona è l’episodio più singolare. Nel governo
Conte ci sono ministri assai discutibili, come Salvini che vorrebbe armare gli
italiani e deportare i migranti. Ma è su Savona che abbiamo visto scontrarsi
due opposte “Costituzioni materiali”: quella di chi nega al Capo dello Stato il
diritto di discutere la scelta dei ministri che deve nominare e quella di un
Presidente che invoca i mercati per sigillare un suo veto, che poi si rimangia
spostando Savona di una casella sulla scacchiera del governo. E perché mai il
Capo dello Stato dovrebbe impedire che un nuovo governo apra un negoziato sulle
politiche di bilancio e di austerità in Europa? Contro queste politiche si sono
pronunciati molti nostri governanti, anche l’allora presidente del Consiglio
Renzi; ma senza trarne le conseguenze. E l’unica possibile interpretazione del
risultato elettorale è che su questo fronte un altissimo numero di italiani si
aspetta un governo capace non di uscire dall’euro, ma di negoziare un’Europa
più giusta, essendone l’Italia non un servitore o una colonia, bensì uno dei
principali componenti.
domenica 10 giugno 2018
Terzapagina. 32 “Al punto di non ritorno”.
Da “Al punto
di non ritorno” di Massimo Cacciari, pubblicato sul settimanale L’Espresso del
3 di giugno 2018: (…). Temo si sia ormai giunti a un punto di non ritorno. E questo
riguarda il linguaggio stesso della politica, quel linguaggio che è lo
strumento essenziale con il quale possiamo comunicare, intenderci e
fra-intenderci, quel linguaggio che è l’arma fondamentale della democrazia,
poiché essa è tutta pervasa dall’idea che attraverso la parola ci si possa
convincere, che il discorso possa argomentare sulla realtà delle cose in forme
tali da essere più forte di ogni violenza o prepotenza. Questa crisi minaccia
di rappresentare la tomba di ogni sforzo per rendere quanto più possibile
ragionevole e responsabile il discorso politico. Si tratta di ben altro che
della resa incondizionata alle forme di fumettistica gestualità dei social, che
sotto la maschera della semplicità e trasparenza occultano perfettamente
finalità e fattori della lotta politica.
venerdì 8 giugno 2018
Primapagina. 96 “Lettera aperta al Presidente del Consiglio”.
Da “Lettera
a Conte sulla Costituzione” di Salvatore Settis, pubblicata su “il Fatto
Quotidiano” dell’8 di giugno 2018: Signor presidente del Consiglio: ho letto
con attenzione il Suo discorso al Senato e mi permetto di sottoporLe qualche
domanda. Due aspetti del Suo testo mi hanno colpito: le fonti d’ispirazione e
la gerarchia delle priorità. Sulle fonti d’ispirazione: Lei ha citato
cinque volte (tutte appropriate) la Costituzione, nove volte (tutte superflue)
il cosiddetto “contratto di governo”, un accordo privato fra leader di partito
che la Costituzione non prevede. È ben vero che Lei si dichiara “consapevole
delle prerogative che l’art. 95 della Costituzione assegna al presidente del
Consiglio dei ministri”, ma due righe più sotto interpreta queste prerogative
nel senso di “rendersi garante dell’attuazione del Contratto per il governo del
cambiamento”. “Garante” è certo molto di più della qualifica di “esecutore” che
Le è stata da altri affibbiata; ma Lei è proprio sicuro che “garante del
contratto” corrisponda ai doveri costituzionali prescritti dall’art. 95,
secondo cui il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del
governo e ne è responsabile”? Di tale “contratto” Lei, così ha scritto, ha
“condiviso i contenuti – pur in via discreta – sin dalla sua elaborazione”. Non
ritiene opportuno spiegare ai cittadini che cosa vuol dire “condividere in via
discreta”, rispetto ai Suoi doveri costituzionali? E di precisare quando e dove
e in che termini, nel Suo discorso, si esplicita la Sua promessa di “anticipare
in quale direzione si esplicherà il Suo personale contributo”? Vengo
al secondo aspetto. Forse perché segue la falsariga del cosiddetto “contratto”,
il Suo discorso è organizzato per punti, offrendo una sorta di mappatura
tematica dei problemi da affrontare, ma non una chiara gerarchia di priorità,
ad esempio indicando il rapporto fra misure di riduzione della spesa pubblica
(o di maggiore introito fiscale) da un lato, e di incremento della spesa
dall’altro. Secondo molte analisi della situazione italiana, il consenso
popolare ai partiti che sostengono il Suo governo è largamente dovuto
all’insoddisfazione generalizzata per le politiche di austerità e di taglio
della spesa sociale imposte dai governi precedenti in nome dell’Europa. Il Suo
discorso contiene in merito affermazioni condivisibili, in particolare sul
possibile ruolo dell’Italia nel re-indirizzare le politiche europee secondo principi
di equità e di giustizia.
giovedì 7 giugno 2018
Quodlibet. 87 “Che fare del Pd?”.
Da “L’identità
perduta” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 7 di
giugno dell’anno 2016: Il buon vecchio "che fare?" dopo
aver perseguitato la sinistra da più di cent'anni oggi dovrebbe modestamente
essere aggiornato così: che fare del Pd? (…). Renzi ha scalato il partito non
tanto per usarlo come un soggetto culturale e politico della trasformazione
italiana, ma come uno strumento indispensabile per arrivare alla guida del
governo. Giunto a palazzo Chigi, ha mantenuto la segreteria del Pd per controllare
la sua massa politica di manovra e di voto, ma dando l'impressione di non saper
più che farsene. Soprattutto, di non aver l'ambizione di guidarlo, ma soltanto
di comandarlo. Ma i partiti, persino in questi anni liquidi, chiedono in primo
luogo di essere rappresentati, e non soltanto indossati, perché non sono dei
guanti. Il problema della rappresentanza comporta prima di tutto un atto di
responsabilità di fronte alla storia che ogni partito consegna al leader
temporaneamente alla guida. Bisogna avere il sentimento delle generazioni che
passano, dei lasciti e degli errori, per caricarsi del peso della memoria
rispettandola, sapendo che una forza politica è un soggetto collettivo che
raccoglie intelligenze ed esperienze diverse, fuse in una tradizione comune che
tocca legittimamente al leader impersonare secondo la sua cultura, il suo
carattere e la sua personalità. Tutto questo cozza contro l'aspirazione di
Renzi a presentarsi come un uomo nuovo, una sorta di "papa straniero"
della sinistra italiana? (…). La domanda che ripetiamo da tempo è proprio
questa: Renzi ha coscienza di far parte di una storia che ha tutto il diritto
di innovare, anche a strappi e spintoni, ma che gli è stata consegnata come un
patrimonio di testimonianza repubblicana, civile, democratica (insieme ad altre
storie politiche concorrenti: e a molti errori) perché venga riconosciuto,
aggiornato, arricchito e riconsegnato vitale a chi verrà dopo di lui? Questo è
ciò che contraddistingue un partito rispetto ad un gruppo di potere e d'interesse,
e distingue la leadership dal comando. Una forza come il Pd non si può
amministrare nei giorni dispari e nei ritagli di tempo, né può essere affidata
a funzionari delegati a funzioni da staff. Ha bisogno di vita vera, di uscire
da quei tristi incunaboli televisivi del Nazareno, di prendersi qualche rischio
di pensiero autonomo e di libera progettazione, per aiutare il governo e
soprattutto se stesso, parlando al Paese. È difficile capire, al contrario,
perché un politico ambizioso come Renzi si accontenti di guidare metà partito,
rinunciando a rappresentare l'intero universo del Pd, che unito potrebbe essere
ancora - forse - la spina dorsale del sistema politico e istituzionale
italiano.
mercoledì 6 giugno 2018
Quodlibet. 86 “Il Pd non esiste, è una invenzione. O un rimorso”.
Da “Noi come l’ancien régime”, intervista di Silvia Truzzi a Barbara
Spinelli pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 6 di giugno dell’anno 2013: (…).
- L’urgenza è come i valori: ce ne sono di supremi, e il resto è relativo.
L’urgenza, in Italia, sono i partiti totalmente inaffidabili e moralmente
devastati; e la politica rintanata in oligarchie chiuse, che nemmeno ascoltano
il responso delle urne. Se sopra tale marasma metti il cappello del capo forte,
non solo congeli lo strapotere presidenziale, ma cronicizzi le malattie stesse
che il presidenzialismo – ma attenzione: è un inganno – pretende di guarire. Il
presidenzialismo dilata ovunque le oligarchie: ergo in Italia dilata la
corruzione -.
Il capo dello Stato ha messo una data di scadenza al governo, una cosa mai
vista. Grillo ha obiettato: “A che
titolo dice queste cose?”. Lei che ne pensa? - Grillo ha perfettamente ragione:
dove sta scritto che il presidente determina in anticipo, ignorando le Camere,
la durata dei governi? Perfino a Parigi, dove tale prerogativa esiste – ed è
grave che esista – l’Eliseo si guarda da dichiarazioni simili. In Francia il
presidente è contemporaneamente presidente del Consiglio dei ministri. La
stessa cosa ormai avviene in Italia: il presidenzialismo nei fatti c’è già.
Questo governo è un Monti bis, con i politici dentro. E alla presidenza c’è
Napolitano. Intendo presidenza del Consiglio, non della Repubblica -.
Così si sfalda il sistema delle
garanzie e dei contrappesi costituzionali. - Salta completamente. E prefigura
già la Repubblica presidenziale. Inoltre abbiamo un presidente della
Repubblica-presidente del Consiglio che gode di privilegi extra-ordinari , che
nessun premier può avere. Tanto più perniciosa diventa la storia delle
telefonate tra Colle e Mancino sul processo Stato-mafia. Esiste dunque un
potere che ha speciali prerogative e immunità, senza essere controllabile. La
democrazia è governo e controllo. Perché Grillo dà fastidio? Perché è sul
controllo che insiste -.
Il professor Cordero parlando di
Berlusconi ha evocato spesso il “golpe al ralenti”. Gli strappi di questi mesi suggeriscono la stessa
idea: eppure l’informazione non ha quasi reagito. – (…). Ma sulle derive
oligarchiche della democrazia, e sul tradimento degli elettori avvenuto con le
larghe intese, stampa e tv sembrano intontite, se non ammaliate. Io insisto
sempre molto sulla questione morale, intesa come dovere di non tradire la
parola data. Ma son pochi a insistere. Perfino Fabrizio Barca, il più cosciente
del naufragio del Pd, ha tenuto a precisare, interrogato su Berlusconi:
“Teniamo separati il piano dell’etica e della politica”. Ma da quando in qua?
-.
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