“…siamo a Roma, febbraio, 2016” scrive
Diego Bianchi nel Suo pezzo “Due santi
che sembrano rockstar tra suorine affannate e legionari di Cristo”
pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 19 di febbraio ultimo
scorso. È che, come ogni qualsivoglia operazione di marketing richieda, nell’anno
giubilare dei fedeli in Cristo è parso straordinariamente logico tentare il
colpo maestro facendo giungere nella città eterna le mummie del frate Padre Pio
e di un tale Leopoldo santificato. Del primo sono conosciute a menadito la vita
e le opere prodigiose. Ma di questo Leopoldo cosa se ne conosce? Passi per scontata
la mia personale totale indifferenza sul personaggio. Ma i fedeli applauditori creduloni
cosa ne sanno? E qui ci sta bene leggere la giocosa scrittura di Diego Bianchi che
di certo non rimarrà negli annali del giubileo ma che al contrario ci dà conto
di come e perché nell’anno 2016 possano suscitare una partecipazione così
massiccia operazioni di “mercato” che fanno a pugni con ciò che dovrebbe
passare per sacro: «Le religiose! Patrizia! Le suore!!», urla il maestro di cerimonie a
Patrizia, colei che per qualche forma di moderna penitenza si trova al
microfono nel momento più delicato, quello dell’avvio della processione. «Le
suore comincino a prepararsi» dice Patrizia, ma il principale la interrompe.
«No prepararsi, devono venire qui subito!». Si spostano le transenne, le suore
lasciano i segnaposto con scritto «suore», appunto, e avanzano alla testa del
corteo. «Comincino a prepararsi i legionari di Cristo e i ministranti», accenna
Patrizia. Ma non è giornata. Scuotendo il capello e accentuando l’accento
padano, lo spazientito mossiere urla rivolto al microfono: «Nooo, i cappuccini
prima! Cappuccini, seminaristi, clero!».
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 29 febbraio 2016
sabato 27 febbraio 2016
Sfogliature. 55 “Vedi alla voce bontà”.
Mercoledì 26 di gennaio dell’anno
2005 postavo “Vedi alla voce bontà”, titolo
ripreso nella “sfogliatura” di oggi. Lungi dal poter prevedere allora l’onda
lunga ed impetuosa dei migranti che da ogni dove si arena sulle nostre spiagge
richiedendo il necessario, umanitario aiuto. A quel tempo i governi avevano
provveduto a rendere l’indigenza, se non la povertà, un dato sociale
inestirpabile, come destino immodificabile, donde ne vennero fuori le “carte
sociali” per una elemosina garantita dallo Stato. Svaniva nel nulla l’impegno
a determinare condizioni di vita tali da poter affermare che si stesse
realizzando quanto previsto dalla “Costituzione”. Ma è storia e cronaca al
contempo. Allora scrivevo che… È pur vero che l’America rappresenti il “mondo nuovo”, anzi che anticipi e di
molto quale “mondo nuovo” si avrà anche
da questa parte dell’Atlantico. Ma il fenomeno evidenziato nella bella e
graffiante corrispondenza di Vittorio Zucconi dal titolo “Quattro soldi di bontà”, apparsa su di un supplemento del
quotidiano “la Repubblica”, giunge forse un tantino in ritardo, ché anche da
questa parte del mondo, ovvero nel vecchio continente, la catena della bontà si
è da tempo ben radicata e dispiega tutta la sua potenza mediatica. È capitato anche
a noi, come famiglia intendo dire, essere finiti su di un mostruoso, gigantesco
“prontuario della bontà” e da quel momento, per una incauta anche se voluta ed
entusiastica prima donazione, non essere stati più liberi di decidere a chi destinare
le scarse risorse per i nostri gesti di solidarietà. Fu per un istituto
oncologico dell’Ospedale San *** della città di *** all’inizio, ma poi tutto il
cronicario di questo mondo ha potuto accedere, telefonicamente almeno, alle
nostre scarse disponibilità, con l’evidente imbarazzo da parte nostra, di volta
in volta, di negarsi, di giustificarsi, insomma di vergognarsi nel non poter
soddisfare tutte le richieste, oggi infinite, di aiuto. È forse perché le
teorie socio-politiche, al pari delle masse d’aria, trasmigrano molto più
velocemente da una sponda all’altra dell’Atlantico, per cui la novella parola
dei “neocon”, con il loro implacabile impegno nel distruggere qualsiasi traccia
di stato sociale, ha trovato adepti entusiasti anche da questa parte
dell’Atlantico. È forse per questi motivi che per rispondere ai bisogni di chi
poco o nulla dispone si è dovuta attrezzare una catena della bontà che fa leva
non sul diritto di cittadinanza ad avere garantito da tutta la collettività la
salute, ovvero l’istruzione, ovvero il lavoro o quant’altro, ma sulla
caritatevole adesione degli altri un tantino più fortunati che, seppur
apprezzabili e lodevoli nelle loro gare di solidarietà, sgravano così, con i
loro gesti di solidarietà, gli stati ed i governi e le maggioranze del momento dal
farsi carico di problematiche sempre più complesse ed alle quali sarà sempre
più difficile dare, singolarmente, attraverso quella catena della bontà, adeguate
risposte in termini economici, di solidarietà, eguaglianza e fraternità. Stati
sociali quindi sempre più poveri e politiche economico-sociali dei governi “neocon”,
o meglio “teocon” in alcune realtà, sempre più svincolate dall’impegno etico
del riequilibrio e della redistribuzione della risorse e delle ricchezze, collettivamente
create con il lavoro, con il bel risultato che intere fasce sociali si vedono oggi
e si vedranno domani risucchiate nel mare della povertà vera o soltanto
inizialmente percepita, così come oggi suol dirsi con un bel parlare. Il tutto
in uno straordinario, per il momento, scenario di pace sociale, o di sonno
mediatico. Zucconi annota:
giovedì 25 febbraio 2016
Sfogliature. 54 “Non spegnete l’utopia”.
La “sfogliatura” che si
propone è di un post del 29 di marzo dell’anno 2005. Undici anni addietro, con
gli anni a seguire che hanno visto realizzarsi la “fine” di quelle “utopie” che
dovrebbero essere proprie delle giovani generazioni. Viene da chiedersi a chi
addebitare un simile sconvolgimento nella vita delle giovani persone, giovani
persone che hanno rappresentato da sempre il futuro. Da dove è iniziato lo
sconvolgimento che domina tuttora la vita di
moltissimi giovani, come è stato possibile che la “cecità” dei
cosiddetti adulti non abbia intuito gli sbocchi finali verso i quali in
tantissimi si sentono irresistibilmente attratti? La famiglia, la scuola, la
religione e perché no la politica portano le responsabilità del tracollo delle “utopie”
da sempre ossigeno per le giovani generazioni. Annotavo allora… (…).
…come le mie finestre: ognuna mi dà un pezzo di prato, ma io il prato non lo
vedo mai. Poveri giovani. Non possono pre-vedere, pro-grammare, pro-gettare. E
così non sanno più cosa fare da grandi. Gli si aprono davanti decine di
finestre, e in ognuna vedono un pezzo di qualcosa, ma quel qualcosa non lo
vedranno mai per intero. Stanno lì a guardarle tutte insieme quelle finestre,
le tengono tutte aperte, in fila, orizzontali, e non sanno. Non sanno se
preferiscono occuparsi di astronomia o di chirurgia plastica, informatica o
odontotecnica. Non lo sanno. Perché non mettono più le virgole, perché noi non
glielo insegniamo abbastanza. (…).
mercoledì 24 febbraio 2016
Paginatre. 23 “Umberto Eco: Il catalogo degli sconfitti”.
Da “Il catalogo degli sconfitti” di Umberto Eco, sul quotidiano la
Repubblica del 2 di luglio dell’anno 2011: (…). Non è la prima volta che un risultato
elettorale favorevole alle sinistre viene attribuito alla mobilitazione
spontanea della società civile. Il caso più macroscopico è stata la prima
vittoria di Prodi (e dell’Ulivo) nel 1996. Ebbene, che cosa ha fatto seguito a
questa vittoria? Non molti mesi dopo (nel marzo 1997) convenivano nel castello
di Gargonza quasi tutti gli esponenti del mondo politico che si era
riconosciuto nell’Ulivo, e molti rappresentanti appunto della società civile
che in qualche modo avevano contribuito a quella vittoria, per confrontarsi e
discutere lo stato delle cose ed eventuali prospettive per il futuro. E in
quella occasione Massimo D’Alema aveva rivolto un monito severo alla società
civile, che è efficacemente riassunto nel brano che riporto: “Noi non siamo la
società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti. È una verità
indiscutibile. Perlomeno se c’è qualcosa che somiglia di più ai partiti nella
dialettica italiana siamo noi, non sono gli altri. Non possiamo raccontarci
queste storie tardo-sessantottesche. Se c’è qualcosa che somiglia ai partiti in
ciò che di nobile sono stati nella crisi attuale, siamo noi, non sono gli
altri. Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai
cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico delle
professioni intellettuali. E fino a questo momento non si conoscono società
democratiche che hanno potuto fare diversamente. L’idea che si possa eliminare
la politica come ramo specialistico per restituirla tout-court ai cittadini è
un mito estremista che ha prodotto o dittature sanguinarie o Berlusconi e il
“comitato” è un sottoprodotto rispetto a queste due tragedie. La politica
professionale è esattamente quella struttura che consente ai cittadini di
accedere alla politica, perché se manca quella struttura non vi accedono. Si
parte con l’idea che devono governare le cuoche e nel frattempo si governa con
la polizia politica … e noi abbiamo una certa esperienza nel nostro campo. Poi
magari questa transizione dura settant’anni perché nel frattempo ci si
dimentica il programma originario. Quindi non inseguiamo qualcosa che, secondo
me, non siamo in grado di inseguire e non è neanche un grande obiettivo di
modernità”.
lunedì 22 febbraio 2016
Paginatre. 22 “U.E. e l’U.E.”.
Propongo alla attenzione Vostra ed alla Vostra riflessione
la lettura di uno degli ultimi lasciti del “Maestro” Umberto Eco, un lascito
dal profondo spirito “europeista” tratto da “Cari ragazzi ringraziate di essere europei”, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 29 di novembre dell’anno 2014: In che
senso si può parlare di una comune cultura europea? Prima di rispondere a
questa domanda vorrei fare una premessa, perché penso che alcuni di voi (o
forse alcuni dei vostri compagni che non sono qui) si chiedano a che cosa serva
loro l'Europa con tutte le sue complicazioni burocratiche, mentre ci si
dovrebbe occupare dei problemi specifici del proprio paese, o della propria
regione, mandando al diavolo persone che parlano lingue incomprensibili.
Ebbene, vi citerò alcune cifre. Nella Prima guerra mondiale del 14-18 ci sono
stati in Europa 9 milioni di morti. Poco, se li paragoniamo ai morti europei
della Seconda guerra mondiale. Escludendo pertanto le perdite umane della
guerra nel Pacifico, abbiamo 41 milioni di morti. Non sono sicuro se il computo
tenga conto anche dei sei milioni di ebrei e dei due milioni di zingari
massacrati nei campi di sterminio nazisti, e in tal caso la cifra salirebbe a
49 milioni. Ma ricordo che l'Europa ha cominciato faticosamente a formarsi come
complesso di popoli ciascuno con un dialetto e poi con una lingua nazionale
diversa dalla fine dell'impero romano, e in questo decorso di secoli ci sono
stati massacri ininterrotti. Lo avrete studiato a scuola, dalle invasioni
barbariche alla guerra dei cento anni, e poi la guerra dei trent'anni, la
guerra dei sette anni, le guerre di successione, le guerre di religione, il
sacco di Roma, sino alle guerre napoleoniche (4 milioni di morti, e solo a
Waterloo, tra francesi, inglesi e prussiani, alla sera giacevano sul campo
41.000 cadaveri).
sabato 20 febbraio 2016
Lalinguabatte. 11 “Che ci faccio in cattedra?”.
Divago sul sentiero prima battuto
e poi precipitosamente abbandonato. Di quando nella scuola spendevo doviziosamente
il mio tempo. Avendo a conforto per il mio “sentire” “maestri” grandi ai quali
attingere per trovare slancio e forza. Mentre vado vergando queste poche,
inutili righe apprendo della dipartita di un “maestro” che nel tempo
ha illuminato le nostre vie, le nostre vite: Umberto Eco. Un altro vuoto,
impossibile da colmare. Il titolo di oggi è stato preso a prestito da una
corrispondenza del professor Umberto Galimberti pubblicata su di un supplemento del quotidiano
“la Repubblica” di tanti anni addietro. Pone domande inquietanti, in un paese
nel quale il problema della scuola si è ben ridotto alle solite, inutili comparsate
dei soliti, inutili, improvvisati ministri, in arte ministri del cosiddetto MIUR,
un acronimo da brividi. Il problema della scuola non interessa agli abitatori
del bel paese, tanto da delegarne completamente le problematiche ai soli
addetti ai lavori, considerati, anche se non pubblicamente dichiarati al pari dei
giudici, “stralunati” esseri, nullafacenti o quasi, gloriosamente dediti, e
senza tanti riconoscimenti e ricompense, a qualcosa per la quale la sedicente
società civile ha ben poco da dedicare o da spendere. In tale contesto la
scuola è divenuta purtroppo rifugio o approdo dei tanti che in verità avrebbero
meglio potuto impiegare il loro tempo in altre faccende o mansioni socialmente
più utili. Ne ho fatta esperienza personale in quanto genitore, per via
naturale, ed in quanto insegnante, per scelta inizialmente molto convinta e
motivante, e con il senno del poi del tutto sconclusionata. Nel trascorrere dei
lustri l’asfissiante gabbia entro cui l’istituzione imprigiona gli anni
migliori tanto dei ragazzi che dei docenti, unici questi ultimi nella specie
umana a trascorrere e lasciare, al pari della muta degli ofidi, nelle fetide,
inospitali aule, il meglio della propria vita, ovvero dall’entrarne come alunni
all’uscirne come bacucchi, nel trascorre di quei lustri dicevo la
consapevolezza che il mio lavoro fosse, se non inutile, in fondo ininfluente
allo svolgimento regolare della vita sociale, mi ha condotto ed indotto quella consapevolezza
alla persuasione di un abbandono anticipato, inglorioso forse ma utile e da
toccasana, onde salvare quella parte di me stesso ancora salvabile da un
ruinare verso forme sempre più perniciose di perdita del senso della realtà e,
la qual cosa è infinitamente più grave, verso una completa disistima personale,
innescata dalla inconcludenza della quotidiana fatica. E questo senso di smarrimento
lo ritrovo nella vasta letteratura che vado scoprendo di tutti quei colleghi che
hanno pur essi effettuato quella fuga precipitosa verso quella salvezza dalla “pubblica
calamità” che è divenuta la scuola del bel paese; è sempre stato e lo è divenuto
oramai la scuola un problema di “salute pubblica” oltre che di “salute personale“,
ché come tale non interessa a nessuno, se non ai diretti interessati che
sopravvivono nella speranza di una sempre più vicina “uscita di sicurezza”. E
prima della dotta prosa di Umberto Galimberti provo ad offrire un assaggio di
quanto ha scritto Paola Mastrocola nel suo lavoro “La scuola raccontata al mio cane”. Sì, proprio al suo cane,
infinitamente più sensibile a tali problematiche che non i sordi abitatori del
bel paese. È una piena crisi di identità personale e collettiva:
giovedì 18 febbraio 2016
Paginatre. 21 “Ideologie e partiti”.
Da “Il
tramonto della nostra civiltà” (1994 – cap. “Ritratto dell’uomo politico”)
di Piero Ottone: (…). Le ideologie sono il tentativo di ordinare la vita sociale secondo
ragione, per raggiungere il massimo di giustizia; quando muoiono le ideologie
compaiono gli avventurieri. (…). Coloro che svolgono attività politica nel
nostro tempo presentano caratteristiche analoghe in tutti i Paesi
dell’Occidente: si somigliano tutti. (…). Fanno politica a tempo pieno. E da
essa traggono i loro guadagni, leciti o illeciti. Non manifestano profonde
convinzioni ideologiche, non inseguono nobili ideali, non si sentono investiti
da missioni storiche. La loro migliore qualità, quando c’è, consiste
nell’essere efficienti nell’arte di governo, e quindi ottenere, come nella
conduzione delle imprese,il massimo risultato con il minimo sforzo. Non vi sono
pertanto differenze marcate fra partito e partito, fra gruppo e gruppo. Anche i
programmi, come gli uomini, si somigliano. Quando affrontano temi politici di
carattere generale, sconfinano sovente nella demagogia. Hanno successo coloro
che sanno meglio adoperare i grandi mezzi di comunicazione, ieri la stampa e la
radio, oggi la televisione. La vittoria è questione di immagine; prevalgono
quelli che sanno diffondere l’immagine di una personalità vincente. (…).
lunedì 15 febbraio 2016
Lalinguabatte. 10 “La famiglia”.
Ha scritto Furio Colombo in una
Sua corrispondenza su “il Fatto Quotidiano” del 12 di febbraio dell’anno 2015 –
“Sanremo, lo show dei 16 figli” -: Chi conosce e frequenta questo Paese deve avere
paura della parola "famiglia". Significa sempre negazione di diritti
degli altri, che non siano la replica esatta della famiglia esibita.
Significa celebrazione tipo Sharia
della donna che sta al suo posto, e partorisce senza tante storie. Significa
padre padrone che di figli ne fa quanti ne vuole (e deve, in onore di Dio),
presentati come gloria a Dio, benché
Dio, misurando le risorse del pianeta da lui creato, non lo aveva popolato di uomini e donne - coniglio, (per usare le
parole del Papa). Nel caso a cui abbiamo assistito (festival della
canzone di Sanremo 2015 n.d.r.), la quantità di figli era esibita non come
un gruppo di persone, ma come prodotto
di eccellente accoppiamento. Padre e madre di Sanremo sembravano due atleti che
dopo l'ultimo trapezio saltano e rimbalzano in piedi e accettano applausi. Gli
applausi saranno stati per gli accoppiamenti frequenti, e dunque per le risorse
naturali dell'uomo della
provvidenza (il maschio-padre), o per la capacità della femmina di tenergli
dietro nella sua corsa senza limiti? Certo gli applausi non erano per i figli. Nessuno di loro ha parlato o ha
assunto il ruolo di persona autonoma e separata sia dal meccanismo maschile che
da quello femminile da cui è stato generato. Non la voce di un bambino, non la
voce di un adulto, nella sezione figli,
in quel teatro di Sanremo. Solo una esibizione di proprietà: guardate
quanti ne abbiamo fatti noi. Vedete un
po' se ce la fate a starci dietro! Poiché lo spettacolo, molto imbarazzante,
(perché nessuno dei procreati, e neppure la fammina-madre del clan,
avevano niente da dire e il conduttore
sembrava non essere stato preventivamente informato) è avvenuto a Sanremo,
versione festival, un'idea sarebbe stata se, alla maniera del celebre film
"The Sound of Music", la massa di figli, grandi, piccoli e
neonati, si fosse messa a cantare. Ma,
salvo le lodi a Dio del padre-padrone del ranch, dal gruppone detto
"famiglia esemplare" non è volata una mosca. E al povero Conti messo,
ammettiamolo, a dura prova dalla insolita celebrazione, non è venuto in mente
di chiedere al procreatore: ma lei, quando non si dedica a far nascere
bambini, che mestiere fa? Come vive una
famiglia italiana con sedici figli a carico ? Quella domanda mancata ha
lasciato un vuoto in più nello spettacolo che avrebbe dovuto onorare la
famiglia, ma è venuto fuori come un numero da circo: "Signore e signori,
non uno, non due, non cinque...". Il vecchio Togni, se è ancora in giro,
avrà scosso la testa. Lui non ha mai
esposto nel suo circo bambini e adolescenti senza nome e senza voce intesi come elogio affollato e vivente (però
zitto) del produttore. Qualche
risposta posso ben darla.
domenica 14 febbraio 2016
Oltrelenews. 80 “Deflazione, il mondo sotto zero".
Da “Quella
sovrabbondanza infinita che destabilizza l’economia globale” di Paul
Krugman, sul quotidiano la Repubblica del 25 di agosto dell’anno 2015: Che
cosa ha provocato il crollo improvviso delle Borse? Che cosa implica ciò per il
futuro? Nessuno lo sa, e non è un buon segno. I tentativi di spiegare le
oscillazioni quotidiane delle Borse sono in genere sprovveduti: un sondaggio
condotto in tempo reale nel 1987 sul crack delle Borse non riscontrò alcuna
prova che avallasse le spiegazioni che gli economisti e i giornalisti avrebbero
addotto a posteriori, scoprendo invece che la gente vendeva azioni perché –
l’avrete già capito – i prezzi erano in calo. Il mercato azionario, per di più,
è una guida tremenda per presagire il futuro dell’economia: Paul Samuelson una
volta scherzò dicendo che il mercato aveva previsto nove delle ultime cinque
recessioni. E su quel fronte niente è cambiato. Tuttavia, gli investitori sono
ovviamente nervosi. E a buon motivo. Negli ultimi tempi le notizie di economia
provenienti dagli Stati Uniti sono state buone, anche se non eccellenti, ma il
mondo nel suo complesso pare ancora significativamente propenso agli infortuni.
Da sette anni (e chissà per quanti altri ancora) stiamo vivendo in un’economia
globale che procede barcollando da una crisi all’altra: ogni qualvolta una
regione del mondo sembra finalmente rimettersi in sesto, ecco che subito
un’altra inizia a traballare. E l’America non può certo isolarsi del tutto da
queste calamità globali. Ma perché l’economia continua a incespicare? A prima
vista, si direbbe che ci siamo imbattuti in una considerevole quantità di
sfortuna. Prima c’è stata la bolla immobiliare, che ha innescato la crisi delle
banche. Poi, proprio quando il peggio sembrava passato, l’Europa è entrata in
una crisi debitoria e in una recessione che di fatto è una double-dip, una
doppia recessione. Alla fine l’Europa ha raggiunto una stabilità precaria e ha
ripreso a crescere, ma ecco che in Cina e in altri mercati emergenti, che in
precedenza consideravamo solidi pilastri, vanno affiorando grossi problemi. Ricorderete
che più di dieci anni fa Bern Bernanke sostenne che l’impennata del deficit
commerciale statunitense non era il prodotto di fattori interni, bensì di una “global
saving glut”, che potremmo chiamare una “bolla globale di risparmio”: in
pratica, una sovrabbondanza di risparmi sugli investimenti in Cina e in altre
nazioni in via di sviluppo, trainata in parte dalle reazioni politiche alla
crisi asiatica degli anni Novanta che stava arrivando negli Stati Uniti alla
ricerca di profitti. Bernanke si preoccupò un poco per il fatto che l’afflusso
di capitali non era convogliato in investimenti alle imprese, bensì nel settore
immobiliare. Ovviamente, avrebbe dovuto preoccuparsi molto di più (come fecero
alcuni di noi). Tuttavia, la sua supposizione secondo la quale il boom
immobiliare negli Usa era almeno in parte causato dalla debolezza delle
economie estere appare tuttora valida. Naturalmente, il boom divenne una bolla,
e quando scoppiò la bolla inflisse danni enormi. Ma c’è dell’altro, la storia
non finì lì.
giovedì 11 febbraio 2016
Lalinguabatte. 9 “La scuola oltre il sillabario”.
È potuto accadere anche a me
qualche anno addietro, prima di abbandonare la nave della scuola pubblica
italiana ondeggiante di già in mezzo ai marosi per un “si salvi chi può” non
più procrastinabile, è potuto accadere anche a me, da poco alfabetizzato
nell’uso di una moderna diavoleria quale è per l’appunto il computer, dicevo è
potuto accadere anche a me dovermi erigere a tutor in un corso di formazione
per neoassunti docenti della pubblica scuola italiana. Un’impresa desolante, in
alcuni momenti avvilente. Avevi voglia di dire loro, i neoassunti, quindi quasi
tutti quarantenni “giovani” e di belle speranze, almeno per il raggiungimento
del tanto agognato “posto fisso”, all’inizio
di una luminosa anche se non folgorante carriera, avevi voglia di dire loro che la dimensione informatica nella vita
quotidiana aveva già raggiunto uno stadio abbastanza avanzato, per la qualcosa essi,
in attesa di conferma nel ruolo a seguito dell’espletamento di quel benedetto corso
di formazione, rappresentavano per l’appunto le avanguardie più agguerrite di
una scuola pubblica che evidentemente sentiva la necessità di non sbattere la
porta in faccia alle nuove tecnologie! Avevi voglia di dire loro,
disperatamente in qualche pomeriggio noioso e piovoso, quando il disinteresse e
la noia sfuggiva loro da tutti i pori della poca pelle esposta ai rigori
invernali, che con il loro atteggiamento
si comportavano a tal guisa di colui che nei tempi andati si fosse opposto a
Gutemberg ed alla sua epocale invenzione! Solamente il fatto non costituiva un
loro interesse, e così stancamente e senza slancio alcuno si giunse alla
fatidica data di chiusura di un corso di formazione informatica che di certo
non avrà lasciato segno alcuno nella carriere e nell’attività quotidiana di
quegli educatori, e che di conseguenza non avrà innovato alcunché nelle
asfittiche aule della scuola pubblica italiana. Sono ricordi strettamente
personali, forse unici nel senso che di tale desolazione non si potrebbe avere
altro riscontro nell’ambito della medesima esperienza di formazione professionale,
ricordi che ancor oggi ritornano alla memoria per riproporre un quesito, che
forse non ha avuto ancora una soddisfacente risposta: col sillabario o anche
oltre il sillabario? Essendo da tempo oramai fuori da quelle aule riconosco di
essere nell’impossibilità di dare una risposta che sia esaustiva, a seguito
anche di tutte le innovazioni che sono intervenute nell’ambito delle riforme
scolastiche. Allora sentivo però la necessità di accostarmi alle nuove
tecnologie anche e soprattutto per una condivisione con le nuove generazioni di
interessi ed esperienze che veicolassero meglio il rapporto educativo docente-discente,
che rimane sempre l’obiettivo principale nell’attività di formazione e di aiuto
alla crescita delle nuove generazioni. Che questo “interesse”, che definirei “
strumentale” non faccia più parte del bagaglio professionale dei docenti
neoassunti della scuola pubblica italiana? Con quale vantaggio per
l’istituzione stessa e per la formazione completa delle nuove generazioni? Capisco
che il tema del dibattito, che spero sia ancora in corso nella scuola, non è
dei più semplici da affrontare e per il quale esista di già una risposta
strutturata e di largo respiro: comunque esso va affrontato, affinché la scuola
pubblica italiana possa mantenere standard formativi che siano adeguati ai
tempi della informatizzazione più spinta di tutti gli aspetti della vita umana.
Penso allora di arrecare un modesto contributo al dibattito in corso con lettura
tratta dallo scritto “Quei monitor poco
reali” di Umberto Galimberti, scritto apparso tanto tempo addietro su di un
supplemento al quotidiano la Repubblica. È uno scritto in verità inquietante
laddove si prospettava l’insidioso uso di quegli strumenti per la gestione
della volontà collettiva.
mercoledì 10 febbraio 2016
Sfogliature. 53 “Un inferno chiamato Terra”.
Il post di questa “sfogliatura” è
apparso su questo blog la domenica 16 di gennaio dell’anno 2005. Aveva per
titolo “Un inferno chiamato Terra”. Come per la “sfogliatura”. Non si
era ancora entrati nella grande “crisi” dei sub-prime e di tutte le altre
diavolerie procurate al mondo globalizzato dal capitalismo finanziarizzato. Sono
trascorsi ben due lustri e passa e siamo ancora lì a leccarci le ferite di una “cancrena”
che non si è capaci di aggredire in alcun modo. Ad ogni proclama di una “luce
in fondo al tunnel” puntualmente sopraggiunge una “gelata” che rimanda tutto ad
un improbabile intervento della provvidenza. E questo “inferno chiamato Terra”
continua ad esserlo sempre di più per la stragrande maggioranza degli esseri
umani. Non si era a quel tempo ancora alle grandi migrazioni di disperati di
questi giorni nostri. Sembra proprio che si siano perse quelle residue speranze
nutrite dal secolo diciannovesimo in poi affinché questo angolo di Universo possa
divenire una “casa” ospitale per tutto il genere umano. Scrivevo a quel tempo:
Proviamo a leggere insieme un numero, per
esempio 1.000.000.000.000.000.000:
facile? È stato facile leggerlo? Bene.
Proviamo a rispondere alla domanda: un anno-luce equivale a quanti chilometri?
Facile anche questa domanda, o è stato necessario ricorrere alle nostre passate
conoscenze scolastiche, in fatto di aritmetica o altro? Ma in verità, le nostre
conoscenze scolastiche sono state in grado di porci nelle condizioni di leggere
quel numero e di rispondere a quella domanda? Nutro dei serissimi dubbi. È questo
un gioco che torna comodo fare per un problema molto più grande ed imbarazzante
per gli umani d’oggi. È che oggi l’umanità, ma che dico, l’umanità progredita e
che abita e consuma nel mondo progredito, non possiede di fatto una cultura,
una mente strutturata che le consentano di partecipare al gigantesco fenomeno
della globalizzazione; l’umanità progredita e consumista a livello di
conoscenze ed anche di strutture mentali, cerebrali, è rimasta come l’umanità
della capanna o al massimo come l’umanità del villaggio, piccolo piccolo e non
globalizzato. La inadeguatezza delle strutture cerebrali non rende di conto a
pieno della gravità dei problemi che affliggono il pianeta Terra, per la
qualcosa un ridimensionamento dei problemi e quindi dei numeri su di una scala
da villaggio preistorico, forse può rendere di più all’attenzione, se non alla sensibilità degli umani progrediti e
consumisti, le problematiche planetarie. In un tale gioco di riduzione in scala
del mondo dell’oggi, ad un villaggio della preistoria, si è cimentato
egregiamente Giuseppe Turani, studioso e commentatore di economia e finanza del
quotidiano la Repubblica. Scrive Giuseppe Turani:
martedì 9 febbraio 2016
Paginatre. 20 “Europa e sinistra”.
Da “Europa e
sinistra” – con sottotitolo “Se l’Europa diventa un club per forti”
- di Nadia Urbinati, sul quotidiano la Repubblica del 13 di luglio dell’anno 2015:
Come
una cartina di tornasole la Grecia mette in luce un sostrato di vecchie ruggini
dentro il cuore dell’Europa. Divisioni che sotto un linguaggio economico
all’apparenza neutro mostrano un grumo di radicati pregiudizi. Che si
manifestano non solo come primato dell’interesse nazionale (dei forti) ma anche
come superiorità culturale di un’area dell’Europa su un’altra. In questo
inquietante ritorno all’antico si materializza la debolezza della sinistra
europea, che non sa fare argine a questi pregiudizi ma, come nel caso della
socialdemocrazia tedesca, li cavalca. Due sinistre, divise come l’Europa: una
incerta e una vociante. La prima, che non riesce a prendere al volo il caso
greco per rilanciare il progetto politico europeo ( un’occasione di leadership
che la Francia e l’Italia hanno sciupato) e la sinistra austro-tedesca, molto
arrogante e determinata a sostenere alleanze preferenziali con i Paesi vicini
alla Germania, quelli del Nord e dell’Est. Una vecchia storia recitata da nuovi
attori. La divisione delle sinistre corrisponde alla faglia che divide l’Europa
in due, con la parte dominante che ha il suo rappresentante nel ministro
tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble, presentato come un figlio politico di
Helmut Kohl e sincero europeista, e che ha tuttavia una visione decisamente
centro-europea dell’Europa. Nel suo lobbismo per la Grexit ha messo in chiaro
che egli non crede ad una integrazione europea, ma a un’Europa a diverse
velocità e in sostanza gerachicamente strutturata in relazione alla vicinanza
di interesse e di cultura con la Germania. È per questa ragione che egli ha
sponsorizzato e messo in circolo una visione che sembrava fino a ieri un tabù:
che l’appartenenza all’Europa è reversibile. Il che significa che l’Europa è a
tutti gli effetti un club, anziché un’unione, nel quale per entrare e starci è
necessario accettare alcune regole stabilite dalla Kerneuropa e non egualmente
costruite da tutti i partner europei. L’Europa come club, ecco la visione
tedesca di Kerneuropa : il nucleo europeo rispetto al quale gli altri popoli
sono periferici. Parte del “cuore” europeo non sono necessariamente i Paesi
fondatori (vi è di che dubitare che vi figuri l’Italia) ma i Paesi vicini per
cultura e interesse al centro propulsore del continente, la Germania. Non è un
caso se in questa drammatica vicenda greca, la Germania abbia goduto del
sostegno dei suoi tradizionali Paesi di riferimento, satelliti o alleati: dalla
Finlandia, le repubbliche baltiche e la Slovenia all’Olanda e all’Austra. Qui
il Kerneuropa prende la configurazione geo-politica degli imperi centrali (non
a caso il settimanale Bild ha recentemente definito Angela Merkel la
“cancelliera di ferro”, il nuovo Bismark). Come hanno messo in evidenza diversi
organi di informazione, da Foreing Affairs al Guardian , il pregiudizio anti-
meridionale che l’ affaire greco ha scatenato si è già tradotto nei fatti. Il
Land austriaco della Carinzia con un indebitamento da “caso Greco” ha chiesto e
ottenuto dal governo federale austriaco lo stato di emergenza, condizione per
l’accesso al finanziamento federale per ottenere prestiti a tasso agevolato, di
fatto una ristrutturazione del debito. La Germania ha concesso questa
condizione alla Carinzia. E ora l’Austria è l’alleato di ferro della soluzione
Grexit. Perché questa differenza di trattamento?
lunedì 8 febbraio 2016
Paginatre. 19 “La fede cattolica è compatibile con la democrazia?”.
Da “L’invasione dei clerico-populisti” di Paolo Flores D’Arcais, sul
quotidiano l’Unità del 10 di luglio dell’anno 2005: (…). La fede cattolica è compatibile con
la democrazia? Dipende. Dipende dal tipo di fede che il cattolico vive, dal
modo in cui fonda la sua fede, dai rapporti che pretende di stabilire tra la
sua fede e la comune ragione umana. C’è la fede di Paolo, la “follia”
della croce, che è “scandalo” per la ragione: è la fede delle prime generazioni
di cristiani, perfettamente sintetizzata nella frase “credo quia absurdum” (…).
C’è la fede di Guglielmo di Ockham, francescano e logico, che col suo “rasoio” distrugge
tutte le pretese di ogni teologia razionale. C’è la fede di Pascal, proposta
allo scettico come vera e propria scommessa. C’è, in tutti questi casi, la
consapevolezza che la fede non è dimostrabile. Neppure per quanto riguarda un
Dio creatore e l’anima immortale. E
quanto al resto, un Dio che si fa uomo, morto sulla croce e risorto, che la
fede è addirittura follia rispetto alla ragione. Absurdum. (…).
La fede cattolica diventa (…) incompatibile con la democrazia non appena
pretenda che un nucleo cospicuo di tale fede sia anche una verità di ragione,
una norma naturale e obiettiva, iscritta nel cuore dell’uomo a somiglianza del
patrimonio cromosomico, e che ogni uso “retto”
della ragione possa scoprirla e debba dunque obbedirla. Ogni
qual volta avanzi tale pretesa, la fede cattolica diventa incompatibile con la
democrazia. Incompatibile per natura e in potenza (…). Che poi si scontri
davvero con la democrazia, o si rassegni a un modus vivendi, dipenderà da
circostanze storiche, rapporti di forza, addirittura personalità e psiche
(inconscio compreso) dei singoli papi. (…). Assoggettare il potere
politico alla “Verità” è stata (…) la dottrina della Chiesa. Qualsiasi potere
politico. E quello democratico più che mai, perché il più refrattario a
piegarsi. La Chiesa,
insomma, e checché se ne dica, non ha mai riconosciuto la democrazia liberale
in quanto tale. Perché una democrazia sia “vera e sana” lo
Stato deve essere “unità organica e organizzatrice di vero popolo” e il governo
vedere “nella sua carica la missione di attuare l’ordine voluto da Dio (…). Se
l’avvenire apparterrà alla democrazia, una parte essenziale del suo compimento
dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa”. Sono
parole – davvero inequivocabili – pronunciate da Pio XII nel radiomessaggio “Il
sesto Natale di guerra”. Inutile girarci intorno: la democrazia, per essere “vera
e sana” deve “attuare l’ordine voluto da Dio”. Insomma, si scrive democrazia, ma
si pronunzia teocrazia. Nulla di più pretendeva il Sillabo di Pio IX, quando
nella “proposizione LVII” gettava l’anatema contro ogni legge che non si
conformasse “alla divina ed ecclesiastica autorità”. (…).
La democrazia è un’altra cosa. Agli antipodi.
domenica 7 febbraio 2016
Paginatre. 18 “Il destino di Dio nel mondo dell’opulenza”.
Dal volume “Dio
e il suo destino” di Vito Mancuso – Garzanti editore (2015), pagg. 463, €
20 – pag. 29: (…). …il vero nemico dell’idea di Dio in Occidente non è l’ateismo, non
è il relativismo, non è nessuna delle minacce di cui parlano spesso gli uomini
di Chiesa: è invece l’idea di Dio prodotta nei secoli dal potere religioso e
depositata nella cosiddetta dottrina, a protezione della quale vennero collocati
una serie di fossati e di fili spinati detti anatemi e scomuniche, senza
esitare a togliere violentemente la vita a tutti coloro che la contestavano e
che non potevano essere vinti con la limpida verità delle argomentazioni. Il vero
nemico dell’idea di Dio è ciò che (…) denomino Deus. (…).
sabato 6 febbraio 2016
Oltrelenews. 79 “Europa addio?”.
Da “La
lezione di Angela: colpirne uno (la Grecia) per educarne ventisei” di
Alessandro Robecchi, su “il Fatto
Quotidiano” del 15 di luglio dell’anno 2015: La storia non mai già scritta,
eppure capita che la si sia già letta. E allora nei giorni della battaglia di
Atene, conclusa con la marcia trionfale dei generali del Fondo Monetario sotto
il Partenone, si è forse esagerato con le metafore e le allegorie. Ma sì, dai,
quelle cose a base di carrarmati e blitzkrieg, con il Beethoven dell’Inno alla
Gioia mai così wagneriano, e le condizioni poste alla Grecia molto simili a
ordini secchi urlati in tedesco: in fila! Marciare! Spalle al muro! Un déja vu
potente, che chiama spontaneamente l’equazione, essendo almeno la terza volta
in cent’anni che si vede la Germania senza argini europei. E però: troppo
facile. Va bene per la vignetta, va bene per il paradosso, che sono preziosi,
eppure la metafora è un’altra, l’immagine è per così dire più moderna: è quella
della testa di cavallo nel letto, della “proposta che non puoi rifiutare”.
Insomma, non il Terzo Reich, ma Il Padrino. Si sa che il creditore tende a non
ammazzare chi gli deve dei soldi, per il semplice motivo che poi il morto non
pagherà i debiti. Tenderà piuttosto a mandargli qualche picciotto armato a
spaventarlo, metterà qualche ragioniere a gestire i suoi affari (il gioco
d’azzardo a Chicago, l’alcol illegale nel proibizionismo, le pensioni greche,
la sanità in Portogallo, il mercato del lavoro in Italia…). Ma anche alla
regola aurea di non ammazzare il debitore ci sono eccezioni. Per esempio una
lezione dura e un’umiliazione cocente potranno sì, far perdere qualche dollaro
al Boss, ma saranno preziosissimo esempio per gli altri debitori. Dunque non
solo colpirne uno per educarne cento (ventisei, nel caso europeo), ma
addirittura sacrificarne uno per tener buoni tutti. Questo è stato fatto
dall’Eurogruppo a guida Shauble-Merkel alla Grecia ribelle. E le metafore
belliche in stile Terzo Reich dipendono appunto dal fatto che passano gli anni,
ma le parole no, e la parola è: rappresaglia. Ammesso che ora gli sconfitti si
adeguino alle sanzioni dei vincitori, sia chinando la testa, sia cambiando
governo e certificando che le elezioni greche si svolgono a Berlino, una cosa è
certa: il Boss guarderà soddisfatto come le altre famiglie si ritirano
intimorite con la coda tra le gambe. La soluzione greca non riguarda la Grecia,
riguarda tutti gli altri, assistere oggi indifferenti all’umiliazione di Atene
significa una cosa sola: essere tutti umiliabili domani. E già si vedono gli
effetti. Altri debitori in bilico sulle curve pericolose dei loro precarissimi
conti già plaudono alla soluzione. Dovendo schierarsi, lo fanno con il Boss a
cui devono molti soldi, illudendosi che quando verrà il momento quello sarà con
loro più comprensivo: stupidi, perché non s’è mai visto uno squalo dire “sono
sazio”, o “non ho più fame”. (…). E si dirà, sì, ma i soldi, sì, ma i debiti… E
questo mentre in silenzio e zitto zitto qualche funzionario a Berlino
ristrutturava senza clamori il debito dell’Austria: premio per esser stati in
silenzio, sconti secchi di un miliardo e mezzo, apprezzamento per non aver
alzato la voce e la testa come i greci. Il messaggio è questo: siate docili e
vivrete. Don Vito Corleone non avrebbe saputo dirlo – e farlo – meglio.
giovedì 4 febbraio 2016
Uominiedio. 21 “Se il divino diviene il problema”.
In tempi difficili e perigliosi
alquanto, nella contrapposizione interessata e senza più freni delle fedi su
scala planetaria, quando ritorna alle narici il puzzo antico di bruciato di
corpi innocenti lasciati morire in nome di un dio, uno dei tanti, e quando
sembra di veder di nuovo mulinare spade, e sentire il tintinnio di sciabole e
scimitarre benedette dal proprio benevolente e misericordioso dio, ebbene è
proprio in tempi come questi che la trepidazione assale forte con l’angoscia di
una domanda alla quale ben difficilmente, se non nell’obnubilamento assoluto della
ragione, potrebbe trovarsi - per darsi - una risposta: ma di quale dio si parla?
Io non ho risposta sicura, ché se ce l’avessi proverei paura immensa, una
risposta sicura sì e grande e confortevole per lo spirito, se non la miserevole
mia personale esperienza, maturata dolorosamente negli anni, che or sono tanti
ma non tantissimi, in un agnosticismo sempre trepidante ed in ansia di ricerca,
per la qual cosa abdico prontamente all’ardua impresa ed avverto che questo mio
misero scritto è senza pretese escatologiche ed introspettive ed è lasciato
alla libera riflessione dei pochi pochissimi incauti navigatori della rete che
dovessero incagliarsi tra codesti anfratti. Riporto da “Le stanze dell’immaginario“ di Umberto Galimberti:
martedì 2 febbraio 2016
Oltrelenews. 78 “Lettere al premier”.
Da “La mamma
di Vito e la promessa mancata del premier: verrò nella scuola di suo figlio”, tratto dal volume “#lacattivascuola - Un’inchiesta
senza peli sulla lingua -” di Alex Corlazzoli, su “il Fatto Quotidiano”
del 9 di giugno dell’anno 2015: “Pronto sono Matteo, disturbo? ”. Dall’altra
parte della cornetta, c’è Cinzia Caggiano, la mamma di Vito Scafidi morto a 17
anni per il crollo di un controsoffitto al liceo “Darwin” di Rivoli. “Matteo
chi? ”, replica la donna confusa per quella telefonata alle dieci della sera.
“Sono Matteo Renzi, il presidente del Consiglio”. Sono trascorsi
poco più di quindici giorni dall’insediamento del nuovo governo alla guida
dell’ex sindaco di Firenze. Cinzia, una donna dal fisico esile, ma dal
carattere determinato, perennemente stravolta da quel 22 novembre 2008, quella
sera decide di scrivere una mail al
nuovo inquilino di palazzo Chigi. “Buongiorno Presidente Renzi, sono Cinzia
Caggiano e le scrivo per raccontarle la mia storia. Ho 44 anni e da cinque vivo
in un incubo. È cominciato il 22 novembre
2008. Un sabato mattina come tanti, in cui ero al mercato a fare la
spesa. Quando è arrivata una telefonata che ha spezzato in due la mia vita.
Pareva che mio figlio si fosse sentito male, a scuola, durante lezione. Solo
dopo ho capito veramente quello che era
successo. Lascio che sia mio figlio Vito a raccontarglielo. “Mi chiamo Vito
Scafidi, non amo parlare di me al passato quindi dico mi chiamo e non mi
chiamavo. Sono un ragazzo normale, l’unica cosa che mi rende diverso da voi è
che avrò 17 anni per sempre perché la mia vita è finita improvvisamente mentre
cercavo di costruire al meglio il mio
futuro. (…). Il soffitto della mia aula scolastica mi è
crollato addosso, spezzando la mia vita. ” (…). Tre ore dopo la chiamata di
Renzi. Cinzia non si lascia intimidire dalla voce del primo ministro. Gli
ricorda che dal 2008 ad oggi ha visto passare sotto i suoi occhi in lacrime,
quattro governi, tante parole e pochi fatti. Ma stavolta si cambia. Renzi le
annuncia che ha stanziato due miliardi per le ristrutturazioni delle scuole e
che dedicherà questa misura proprio a Vito. Si lasciano con l’impegno di
prendersi un caffè insieme perché quella
mamma non è una parlamentare, non
ha un ruolo politico ma conosce meglio di altri le aule del nostro Paese che ha
visto girando l’Italia dal 2008 ad oggi. Non si vedranno mai. Anzi. Mamma
Cinzia prova ad invitare il premier proprio
il 22 novembre del 2014, alla
marcia che si tiene ogni anno per ricordare Vito. Ma nulla. Il presidente non
risponde più alle mail della signora Caggiano. Il premier non si farà vedere.
In
compenso Renzi nel suo primo discorso al
Parlamento, il 24 febbraio 2014, aveva annunciato di continuare a voler andare
nelle scuole proprio come quando era sindaco: “Da presidente del
Consiglio io entrerò nelle scuole, una volta ottenuta – se così sarà – la fiducia
del Senato e della Camera. Mercoledì
mattina, come faccio tutte le settimane, mi
recherò in una scuola; la prima
sarà un istituto di Treviso mentre
la settimana prossima andrò in
una scuola del Sud. E lo farò perché penso che sia fondamentale che il governo
non stia soltanto a Roma e, quindi, mi recherò nelle scuole, come facevo da
sindaco, per dare un segnale simbolico, se volete persino banale che da lì
riparte il Paese”. (…).
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