Da “Noi di
sinistra dobbiamo chiedere scusa per l’euro” di Alfredo D'Attorre –
deputato della “Sinistra italiana” -, su “il Fatto Quotidiano” del 26 di
ottobre 2016: (…). Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista
riproporsi credibilmente alla guida del Paese senza fare un bilancio onesto
degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il
centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio, ossia l’adesione
incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell’euro? Se gli
economisti discutono sulla praticabilità di un’uscita dalla moneta unica, su
altri due punti la discussione scientifica è chiusa, nel senso che le evidenze
empiriche conducono univocamente nella stessa direzione: Primo: l’euro è stato
costruito in una maniera radicalmente sbagliata, funzionale solo agli interessi
della Germania e dei suoi satelliti, ha enormemente accresciuto la divergenza e
l’ostilità tra i popoli europei e si è rivelato incompatibile con una logica di
sana cooperazione politica ed economica su base paritaria fra i diversi Stati.
Secondo: l’Italia è uno dei Paesi per i quali la scelta dell’euro ha prodotto
gli effetti più negativi. Basta prendere in considerazione un qualsiasi grafico
che illustri comparativamente l’andamento della produttività, della bilancia
commerciale, del reddito pro capite o del PIL fra Italia e Germania prima e
dopo l’introduzione della moneta unica per aver un quadro impressionante. Si
pensi solo al fatto che ancora nel 2015 l’Italia era l’unico Paese
dell’eurozona, Grecia compresa, in cui il livello del PIL pro capite rimaneva
inferiore a quello del 1999, l’anno in cui siamo stati ammessi nella moneta
unica e sono stati fissati i cambi tra le diverse valute nazionali. Di fronte
all’evidenza di tale disastro economico e sociale, a cui vanno aggiunti gli
effetti sulla qualità della nostra democrazia, le forze progressiste dovrebbero
riconoscere apertamente l’errore storico compiuto nell’appoggiare un progetto
fallimentare e, ciascuna per la propria parte di responsabilità, chiedere scusa
agli italiani. Si tratterebbe, a mio avviso, di un atto politico in grado di
riaprire un rapporto con settori della società italiana un tempo vicini alla
sinistra e che oggi rischiano di essere consegnati irreversibilmente alla
destra xenofoba o all’avventurismo del M5S. L’altra riflessione che si dovrebbe
aprire fra gli intellettuali e i politici progressisti, (…), riguarda il
rapporto fra euro e Costituzione repubblicana. (…). …è arrivato il tempo di
interrogarsi sulla compatibilità fra il progetto di società tracciato dalla
Carta costituzionale e quello contenuto nei Trattati europei, su cui il
funzionamento della moneta unica si regge. Le famigerate ‘riforme strutturali’
richieste dall’Europa in materia di lavoro, pensioni, sanità, istruzione,
risparmio non sono un accidente della storia, ma la diretta conseguenza di un
modello economico chiaramente alternativo a quello disegnato nella prima parte
della nostra Costituzione e strettamente funzionale al mantenimento della
moneta unica.Decine di studi hanno ormai chiarito che per le economie della
periferia dell’eurozona l’austerità, gli alti livelli di disoccupazione e la
conseguente deflazione salariale non sono una condizione transitoria legata a
una fase di crisi, ma il presupposto per mantenere le economie di quei Paesi su
una linea di galleggiamento dentro la moneta unica, in una situazione in cui
essi hanno rinunciato al controllo della leva fiscale e di quella monetaria.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 30 dicembre 2016
martedì 27 dicembre 2016
Scriptamanent. 56 “Le guerre del male contro il male”.
Da “Le
guerre del male contro il male” di Furio Colombo, su “il Fatto Quotidiano”
del 27 di dicembre dell’anno 2015: Questo non è lo scontro finale fra il bene e
il male, il biblico Armageddon che deciderà le sorti del mondo. Il bene non
partecipa a questo scontro. Questo è lo scontro finale del male contro il male,
fra coloro che credono davvero nella guerra come netta soluzione chirurgica di
un Paese potente a chi osa sfidarlo. E coloro che sono persuasi che l’insidia
del terrore, sempre presente, e mai rintracciabile, possa creare una sorta di
follia epidemica che, fra celebrazioni e vendette, genera massacri, odio e
terrorismo. La macabra scuola della Shoah comincia a dare i suoi frutti: una
volta definito un “target”, tutti i cittadini sono altrettanto da uccidere e
non fa differenza se siano innocenti, estranei, bambini, o anche propri
compagni di lotta che si trovano nel luogo sbagliato. Seguiamo i due lati della
guerra del male contro il male, che si differenzia, come vedremo tra poco, non
per potenza, non per ricchezza, non per diversi tipi di scrupolo morale, ma
soltanto per modalità di strategia prescelta. Sul versante del terrorismo vi
sono tre grandi trovate: una, dare allo scontro – tramite adeguata propaganda –
una dimensione così universale che lo scontro non può finire. Vittoria non è
pace. La pace non è un bene desiderato. Secondo, sbandierare come sacra e
assoluta la religione. In verità, non si è mai visto un terrorismo più laico, a
confronto, per esempio, con il quasi misticismo delle Br italiane e della Raf
tedesca, per non parlare del fondamentalismo cristiano armato negli Usa.
S’intende, non sto tenendo conto delle posizioni soggettive dei vari gruppi. È
bene smettere, però, di credere che così tanta gente si faccia saltare in aria
per meritare le fanciulle vergini di un paradiso. Alle dovute condizioni
psicologiche, sociali, umane, tanti soldati del mondo, quando gli eserciti
erano di popolo, sono stati capaci di simili sacrifici per la patria, per il
re, per i sacri confini, per l’ultima trincea da difendere: le centinaia di
migliaia di morti (detti “caduti”) di Verdun e del Carso, le decine di milioni
di morti della Seconda guerra mondiale, sono tuttora celebrati per la morte
“affrontata e cercata” e il danno arrecato al nemico (i morti del nemico). Ma
nel frattempo si immagina una infantile e manipolata follia religiosa e cieca
del kamikaze che vuole morire e uccide solo per diventare martire (categoria
già nota ai fascisti) e salire al cielo giusto.
lunedì 26 dicembre 2016
Paginatre. 59 “Il giorno in cui ho smesso di credere in Dio”
Da “Il
mestiere di uomo” di Umberto Veronesi – Einaudi Editore (2014); € 18,50 – riportato
sul quotidiano la Repubblica del 17 di novembre dell’anno 2014 col titolo “Il giorno in cui ho smesso di credere in
Dio”: (…). …da bambino non perdevo mai una messa né un rosario, ero un
inappuntabile chierichetto ed ero persino stato elevato al grado di «paggetto»,
una vera e propria onorificenza nella Chiesa di allora. (…). Non saprei dire
qual è stato il mio primo giorno senza Dio. Sicuramente dopo l’esperienza della
guerra non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era
iniziato molto prima. Durante il liceo fui bocciato due volte, ero un discolo
in senso letterale: non andavo bene a scuola. Ero il tipico ragazzo di
periferia, i miei atteggiamenti erano spavaldi, avevo sempre bisogno di
mettermi in mostra: era l’unico modo che conoscevo per vincere la timidezza e
affermare la mia personalità. Di fatto, sono sempre stato anticonformista,
ribelle ai luoghi comuni e alle convenzioni accettate acriticamente, e questa
mia natura mal si conciliava con l’integralismo della dottrina cattolica che
era stata il fondamento della mia educazione di bambino [...]. Poi arrivò la
guerra e i miei interrogativi si fecero più drammatici. A diciotto anni non
volevo andare a combattere, ma finii in una retata e mi ritrovai con indosso
un’uniforme che non aveva per me alcun valore e fui ben armato per uccidere
altri ragazzi, in tutto e per tutto uguali a me, salvo per il fatto che
indossavano una divisa diversa. Ho vissuto in pieno, soprattutto nel lungo
periodo di clandestinità (legata alla Resistenza), la violenza dissennata della
Seconda guerra mondiale, fui gravemente ferito e sono uno dei pochi
sopravvissuti allo scoppio di una mina, su cui saltai mentre scappavo da
un’imboscata nemica. Oltre alle stragi dei combattimenti, ho toccato con mano
anche la follia del nazismo e non ho potuto non chiedermi, come fece Hannah
Arendt prima e Benedetto XVI molti anni dopo: «Dov’era Dio ad Auschwitz?».
[...]. Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale punto della
mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di cui ero
stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male ancora
più inspiegabile della guerra, il cancro, e sfidando la rassegnazione che
allora imperava, decisi di indagare se attraverso la conoscenza e il sapere si
potesse vincere quell’immenso e assurdo dolore. [...] Per chi il male non è
un’idea astratta, ma è qualcosa che si vede, si tocca e, nel mio caso, ha un
nome, tumore, diventa molto difficile identificarlo come una manifestazione del
volere di Dio. (…). Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato
una prova della non esistenza di Dio. Ho sviluppato questa convinzione
soprattutto all’Istituto nazionale tumori di Milano, dove ogni tanto
frequentavo il reparto di pediatria. Come puoi credere nella Provvidenza o
nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo
consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche
libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore
dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del
«non so». Perché accade – e per i bambini oggi succede sempre più spesso – che
il dubbio diventi concreta speranza e poi guarigione, e quando questo avviene,
è pura gioia.
domenica 25 dicembre 2016
Capitalismoedemocrazia. 58 “Trump, trumpismo e povertà”.
Ora che l’”epopea” obamiana volge al termine è il
caso di cercare di tirare le cosiddette somme di un’epoca che sinistramente e
con presagi poco rassicuranti si sta chiudendo. E ritorna così spontaneo alla
memoria ricordare come tra i pochi amici ed ancor più tra i pochissimi
conoscenti ci si sia impegnati, all’alba di quella “epopea”, a stroncarne gli
entusiasmi suscitati da quella elezione americana. Poiché si aveva sin d’allora
la certezza che la “sovrastruttura” – marxianamente parlando - di quella società
avrebbe imbrigliato l’azione dell’eletto, condizionandone i progetti e
limitandone la portata qualora essi – i progetti della nuova amministrazione - non
rientrassero negli schemi ultraliberisti che avevano incendiato il mondo in
quegli anni che nel nostro Paese venivano definiti – con riferimento all’azione
dei socialisti d’allora, Craxi in testa – come anni “da bere”. Poiché tutti i
mali odierni derivano da quell’abbaglio che condusse la politica – anche della
cosiddetta “sinistra” – ad uniformarsi al nuovo dogma, ritenendolo inevitabile
ed accettandolo come un ineludibile “destino”. Ci si ritrova così ad aver
supinamente accettato un capitalismo scarsamente manifatturiero a fronte di un
montante capitalismo finanziario senza obblighi sociali. Non un’azione di contrasto,
non un’azione di re-indirizzo. Ha scritto Federico Rampini sul settimanale “D”
del 17 dicembre ultimo – “Ricordi dei magnifici
anni ottanta” -: “Il modello veniva dall’America di Ronald
Reagan, che aveva riabilitato i ricchi, l’ostentazione del lusso. Il consumismo
era eticamente benedetto da una teoria economica e perfino come strategia
geopolitica: al termine di quel decennio l’Occidente sconfisse l’Impero del
male (l’Unione sovietica) non solo in virtù dei suoi ideali ma anche perché noi
non ci facevamo mancare niente”. Furono quelli gli anni “da
bere”, in Italia come nel resto del mondo occidentale; indebitamento collettivo
pubblico e privato ed il miraggio di potersi arricchire rapidamente e facilmente
speculando sul denaro, mezzo del e per vivere affascinante ed al contempo
diabolico. Poiché sin da quegli anni era evidente che l’”epopea” obamiana
avrebbe dovuto piegarsi alla “sovrastruttura”, docile e
sonnacchiosa in apparenza ma vigile per indirizzare l’azione dei governi per il
trionfo, alfine realizzato, della “globalizzazione” e della speculazione
finanziaria, la cui azione ha sovrastato e sovrasta i governi resisi ad essa remissivi
ed in ultima analisi storicamente complici. Ed oggi Trump. Ed il “trumpismo”,
che tende a dispiegare le sue ali sull’intero mondo dell’Occidente. Aggiunge ancora
Federico Rampini nel Suo scritto: “Donald Trump è la riscossa degli anni
Ottanta. Fin nei minimi dettagli, i più kitsch, insopportabilmente volgari”. Poiché
Trump viene da quel mondo, mondo che nel corso dell’”epopea” che sta per
chiudersi ha morso il freno, preparando sotterra, ma non tanto, il ritorno a
quello spirito che, seppur apparentemente sconfitto, viveva nelle viscere di
quel mondo aspettando il momento magico per quell’appuntamento che ora si è
realizzato. Conclude Rampini: “Prepariamoci dunque a dover convivere con
gli anni Ottanta. In tutti i sensi. Impossibile dimenticare che è proprio nelle
politiche economiche di quegli anni – meno tasse sui ricchi, libertà di
speculazione finanziaria – che tutti i mali del nostro tempo affondano le
radici”. Sta tutto qui il male creato dalla “sinistra politica”; essersi
seduta, quale disperato convitato di pietra, ad un banchetto nel quale i resti,
se non i rifiuti, di un certo mondo, le venivano generosamente offerti in
cambio della sua acquiescenza se non del tradimento della sua Storia.
venerdì 23 dicembre 2016
Primapagina. 21 “#quellichecapaciditutto”.
Da “Capaci
di tutto” di Marco Travaglio, su “il Fatto Quotidiano2 del 22 di dicembre
2016: (…). …il capace Renzi (…) ha nominato la vigilessa Antonella Manzione a
capo dell’Ufficio legislativo di Palazzo Chigi e poi alla Corte dei Conti
(contro la legge); e Antonio Campo Dall’Orto Ad della Rai, autore di 21 nomine
già bocciate come illegittime dall’Anac. (…). Il capace Sala, (…), nella scelta
dei collaboratori è un cane da tartufo: all’Expo non gliene hanno arrestato
uno, ma tutti. Tranne lui medesimo, che è indagato solo tre volte. Ora però ha
autosospeso l’autosospensione, per via di una scoperta sensazionale: “Sono
innocente” (la sentenza l’ha scritta lui). (…). …il capace Renzi e la capace
Boschi, autori di una “riforma” costituzionale scritta coi piedi in una lingua
ancora misteriosa, bocciata dal 60% degli italiani al referendum, nonché di una
legge elettorale, l’Italicum, che essi stessi hanno già cestinato (mai usata)
prima che gliela accartocciasse la Consulta. (…). …la capace Marianna Madia
che, amorevolmente assistita da Napolitano jr. e Mattarella jr., ha scritto una
riforma della Pubblica amministrazione appena bocciata dalla Corte
costituzionale in quanto illegittima. (…). …i capaci Renzi e Padoan che si sono
appena visti bocciare la legge sulle banche popolari e hanno lasciato
incancrenire per mesi e mesi il disastro creditizio, tant’è che ora ci chiedono
un obolo di appena 20 miliardi per fare ciò che avevano sempre negato di voler
fare, grazie al cavaliere bianco Jp Morgan: nazionalizzare Mps a spese nostre. (…).
…la capace Valeria Fedeli, non laureata né diplomata salvo che sul suo
curriculum farlocco, ergo ministro della Pubblica Istruzione, Università e
Ricerca scientifica. (…). …il capace Giuliano Poletti, già celebre per il
cenone con Buzzi, Alemanno, Panzironi e Casamonica, che da ministro del Lavoro
ha desertificato il settore col Jobs Act e i voucher ora insulta gli italiani
all’estero (“fuori dai piedi”), tanto suo figlio Manuel resta in Italia perché
lo finanzia il governo di papà alla modica cifra di 200 mila euro l’anno. (…). …il
capace Paolo Gentiloni che, da ministro degli Esteri, si astenne sul voto
Unesco contro Israele, decisione definita “allucinante” da Renzi, che poi
scambiò Gerusalemme per la capitale della Palestina e ora ha indicato Gentiloni
come premier-prestanome. (…). …il capace Angelino Alfano, che parla l’inglese
come Totò il tedesco (“Noio volevan savuar l’indiriss”), dunque ora è ministro
degli Esteri, anche per l’esperienza in sequestri di donne e bambine kazake
maturata all’Interno. (…).
martedì 20 dicembre 2016
Storiedallitalia. 79 “Ministro Poletti ci spieghi quella cena”.
L’uomo del giorno è lui, il rubizzo Poletti
Giuliano. Forse, osereste pensare Voi, poiché riconosce, dagli ultimi dati comunicati
dall’INPS, che il mondo del lavoro si è completamente “voucherizzato” (130.000.000
di voucher venduti nell’anno) e che quindi, da uomo politico di qualità, si appresterebbe
a dare le sue dimissioni dall’incarico considerata l’imprevidenza e l’inconsistenza
del suo operato? Giammai! O forse perché, sempre secondo l’istituto di cui
sopra, si registrerebbe un crollo di oltre il 90% di nuovi rapporti di lavoro a
tempo indeterminato? Non gliene cale. Qual è il problema? Riconosce, “en
passant”, che un qualche problema potrebbe pure essersi creato; ma “vivaiddio”,
non è mica la fine del mondo! Aggiusteremo, aggiusterò. Pensateci bene; un Poletti
Giuliano che da domani prenderà di petto il problema per portare a compimento
la sua missione ministeriale e politica. Quale? Gli chiedeva Roberto Saviano il
4 di dicembre dell’anno 2014 sul quotidiano la Repubblica: “Ministro Poletti ci spieghi quella cena”. Un banchettare del
rubizzo al tavolo di “mafia capitale”, tanto per intenderci. Ed allora, perché
sorprendersi per l’uscita sua ultima che meritoriamente lo designa incontrastato
uomo del giorno? Non è data certezza che abbia risposto a Roberto Saviano il
Poletti Giuliano. Ma trova meglio il Poletti Giuliano elucubrare da par suo per
soffermarsi sul tragico problema delle giovani menti e delle giovani braccia che
hanno lasciato e continuano a lasciare il paese dal rubizzo ministro governato,
per cercare lavoro ed una dignità di vita ed un futuro meno incerto laddove il
rubizzo non troverebbe accoglienza alcuna. Di quali titoli si avvarrebbe per varcare l’arco
alpino? Si sofferma sul tragico problema nel modo e nelle forme che gli sono congeniali
e che tutti avranno a questa ora del giorno letto: “Conosco gente che se ne è andata
ed è bene che stia via, noi non soffriremo a non averli più fra i piedi”. Che
pezzo d’uomo il rubizzo Poletti Giuliano! Quale immenso statista! È il dramma
di questo disastrato paese; quella “gente (…) se ne è andata”, a noi
resta il dramma di avere come ministro della Repubblica Poletti Giuliano. Scriveva
Roberto Saviano: “A domanda risponde" è l'espressione usata nei verbali per
differenziare una dichiarazione spontanea da una dichiarazione sollecitata da
una domanda degli inquirenti. Il ministro Giuliano Poletti non deve rispondere
ai magistrati perché non è indagato. Né coinvolto nell'inchiesta "Mafia
capitale". Quindi la sua dichiarazione non dovrebbe essere trascritta come
"a domanda risponde" ma, piuttosto, come dichiarazione spontanea.
Perché dovrebbe spiegare non ai pubblici ministeri che si occupano di reati, ma
al paese, il rapporto che pare esserci tra lui e Salvatore Buzzi, presidente di
un grande consorzio di cooperative legate alla Legacoop e braccio destro del
boss Massimo Carminati. Che ci faceva, Poletti, quando non era ancora ministro
ma presidente di Legacoop Nazionale, nel 2010, a una cena di ringraziamento
organizzata proprio da Buzzi per tutti "i politici che ci sono a fianco"?
Salvatore Buzzi ha ucciso ed è stato condannato a 24 anni per omicidio. Ex
impiegato di banca vicino all'estrema sinistra, è diventato uno degli uomini
più rilevanti dell'imprenditoria capitolina. Massimo Carminati, formazione di
estrema destra. Il suo uomo più fidato, Salvatore Buzzi, formazione di estrema
sinistra. Ma con l'ideologia i due non hanno più nulla a che fare. Loro unico
obiettivo sono i soldi.
lunedì 19 dicembre 2016
Paginatre. 58 “Un papa tradito dai marpioni che lo circondano”.
Dall’intervista di Beatrice
Borromeo a Dario Fo – “Un papa tradito
dai marpioni che lo circondano” – pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del
14 di febbraio dell’anno 2013:
(…). …- il Papa, tutti i Papi,
sono deboli, hanno potere solo sulla carta, vivono condizionati da marpioni e
ricattatori e non hanno nessuna speranza, se anche ne avessero la volontà, di
cambiare le cose". (…). Tutti parlano di Celestino V, ma ricordiamo che
salì al trono dopo anni di vacatio pontificia, già ultraottantenne. Un Papa
vecchio si può gestire -.
Per questo, Dario Fo, tutti i
Pontefici vengono scelti anziani? - Fa parte delle regole: la Chiesa da una
parta ricatta e dall'altra è ricattata. Vive per tenere nascosti gli affari più
torbidi e per ignorare i crimini più palesi. Un Pontefice giovane e autorevole
incrinerebbe il sistema. Bonifacio VIII, infatti, non ha faticato a far fuori
Celestino V per prenderne il posto. (…) -.
(…). - Qui non vedo paura né
violenza. Piuttosto un lungo logoramento, che ha messo il Papa (Ratzinger
n.d.r.) nella condizione di andarsene. Penso a Vatileaks e ai marpioni che lo
circondano per spiarlo e tradirlo. Non ha pesato solo la malattia fisica -.
Che ruolo avrebbe in una sua
opera il Segretario di Stato Vaticano, Tarcisio Bertone? - Quello dell'uomo
nero, che ha in mano il potere vero, e cura certi affari che chiamare loschi è
un eufemismo. Ma non sono convinto che lui sia il padrone: forse è il servo.
Lui e le altre ombre gestiscono tutto, a partire dallo Ior. Sa, infatti, chi mi
ricorda Ratzinger? -.
Dica. - Papa Luciani: l'altro che
ha messo le mani nella banca di Dio. L'equilibrio, nella Chiesa, viene dalla
gestione di denaro che arriva da luoghi oscuri, come la mafia. Entrambi i Papi
sono stati messi nella condizione di non interferire nel sistema di potere.
D'altronde, nella Storia, è sempre stato così -.
domenica 18 dicembre 2016
Primapagina. 20 “Politica&banche”.
Da “Che cosa
ci insegnano Mps e le altre” di Bruno Manfellotto, sul settimanale l’Espresso
del 30 di ottobre 2016: (…). In principio fu una clamorosa
sottovalutazione. Forse per dovere istituzionale o per spirito nazionale,
governi e authority hanno fatto a gara nel dirci che pericoli non ce n’erano,
anche fidando nel fatto che le banche italiane, a differenza di quelle
tedesche, non sono imbottite di titoli tossici. E così ogni intervento è stato
rimandato mentre gli altri correvano ai ripari: la Spagna con 52 miliardi di
euro, la Grecia con 40, l’Irlanda 42, la Germania 238... E la povera Italietta?
Non servono soldi, proclamò il premier Mario Monti. Orgoglio? Leggerezza?
Vincoli di bilancio? Come che sia, alla fine lo Stato tirò fuori appena un
miliardo. Poi però Mps si è mangiato da solo 15 miliardi di ricapitalizzazioni,
e ormai l’Europa ha provveduto a vietare aiuti di Stato. Su come stanno le cose
si è saputo qualcosa di più solo un anno fa, dopo il default di Banca Etruria e
delle casse di Marche, Ferrara e Chieti quando governo e partiti si sono
trovati ad affrontare le conseguenze del famigerato “bail in” che scarica su
obbligazionisti e anche i correntisti il peso del crac e che essi stessi
avevano avallato a Bruxelles nel 2014. E sono emerse le magagne. La prima è che
le autorità di vigilanza o non hanno fatto fino in fondo il loro dovere
(Consob), o non si sono spinte oltre la semplice denuncia formale (Banca
d’Italia). Poi Renzi ci ha messo il suo addebitando loro buona parte delle responsabilità.
L’altra verità è che il sistema bancario è appesantito da crediti incagliati,
cioè difficili o impossibili da riscuotere, per 350 miliardi. Né ci fanno
dormire sonni tranquilli le rassicurazioni del governatore della Banca d’Italia
secondo il quale le sofferenze vere, cioè non garantite da accantonamenti, non
arrivano a 90 miliardi. Perché al di là della cifra, pur sempre pari a
tre-quattro manovre finanziarie, la crisi ha rivelato un tessuto debolissimo di
piccole e medie imprese finite a gambe all’aria perché tenute in vita solo da
un sistema del credito schiavo del familismo finanziario, del capitalismo di
relazione e dei prestiti facili riservati agli amici degli amici. Così andavano
le cose anche a Siena, naturalmente, dove agli eccessi di campanilismo
creditizio si aggiunge pure il peccato originale di un incauto acquisto
favorito da Bankitalia, quello di Antonveneta, a carissimo prezzo, a debito, e
con l’ausilio di un complicato e oscuro prodotto finanziario dal nome di
dentifricio (Fresh) accreditato dall’autorevole timbro di Vittorio Grilli,
allora alto dirigente del Tesoro, oggi salvatore della patria come capo in
Italia della Jp Morgan chiamata a curare, a carissimo prezzo, l’aumento di
capitale del Monte. Corsi e ricorsi. Per non dire dell’«odor di massoneria»
evocato da Alessandro Profumo, uomo generalmente attento a pesare gesti e
parole. Che pasticcio. Anche in questo caso Renzi se n’è fatto carico in prima
persona, a costo di mettere il naso dove forse non doveva, convocando a Palazzo
Chigi gli uomini di Jp Morgan, disponendo rimozioni e nomine ai vertici di Mps,
annunciando e promettendo. Insomma, personalizzando. Del resto le vicende Banca
Etruria e Mps lo hanno segnato, coincidendo perfino con un punto di svolta
nella sua immagine di rottamatore e nei suoi rapporti con l’opinione pubblica.
Insomma, anche il “piano banche” lo vive in qualche modo come un referendum:
non c’entra la Costituzione, ma la fiducia nel sistema del credito e in chi lo
governa, sì.
Da “Banche,
la tempesta perfetta” di Massimo Giannini, sul quotidiano la Repubblica
dell’11 di dicembre 2016:
sabato 17 dicembre 2016
Primapagina. 19 “Politica&corruzione”.
Da “Come è
local la nuova corruzione italiana” di Gianluca Di Feo, sul quotidiano la
Repubblica del 16 di dicembre 2016: (…). Oggi l’identikit del politico corrotto
segnala gusti diversi, con una preferenza per nuovi territori di caccia: i
Comuni e le Regioni, dove le bustarelle sono a portata di mano e si possono
costruire camarille fidate che ignorano le logiche di partito. È la metamorfosi
della razza ladrona che si è imposta dopo Mani Pulite, la selezione della
specie più collusa ritratta in un’analisi sociologica realizzata studiando le
condanne di 541 politici in tutta Italia. L'habitat dell'homo corruptus è
cambiato. Il territorio di caccia prediletto del politico disonesto non sono
più ministeri e Parlamento, ma assessorati comunali e consigli regionali. Non
razzia per finanziare le segreterie nazionali, ma afferra bustarelle per
arricchire il suo branco: quattro-cinque compagni fidatissimi, funzionari
pubblici o professionisti ben introdotti, che lo aiutano a banchettare
nell'ombra. (…). La base statistica è rigorosa: 541 politici sezionati
attraverso le sentenze della Cassazione, casi definitivi di malaffare che
riguardano la corruzione in ogni sua declinazioni. Dati che sono stati poi
integrati con centinaia di fascicoli delle autorizzazioni a procedere del
Parlamento, approfondendo il profilo di ogni imputato, il tutto elaborato
secondo i criteri della sociologia per comporre la storia dei corrotti d'Italia
prima e dopo Tangentopoli. Una razza ladrona che nell'ultimo decennio è tornata
a proliferare nel Meridione e in parte nel Nord Ovest mentre sembra decrescere
nelle "vecchie regioni rosse e bianche". (…). Già, ma chi ruba di
più? L'analisi non è semplice e deve fare i conti con il trasformismo e le
liste civiche dai confini mutevoli. In più ci sono i "surfer", quei
politici che soprattutto al Nord hanno esordito nella Prima Repubblica e hanno
cavalcato l'onda del rinnovamento per finire alla sbarra nella Seconda.
L'appartenenza a uno schieramento inoltre rischia di trarre in inganno, perché
prima del 1992 il 42 per cento intascava i soldi per il partito mentre ora lo
fa solo il 7 per cento. Quelli che invece delinquono per profitto personale
sono schizzati dal 35 al 60 per cento: sono la maggioranza silenziosa del
ladrocinio. E veniamo alla classifica generale dell'ultimo trentennio. Gli
esponenti dei partiti dissolti all'epoca di Mani Pulite - Dc, Psi, Pri, Pci,
Psdi, Pli - sfiorano il 40 per cento dei mariuoli. Quanto alle nuove compagini,
vince il centrodestra con il 32 per cento. Lo segue il centrosinistra con il 17
per cento (ma se limitiamo lo sguardo al Sud si arriva al 25) e il centro
"puro" con circa il 4. C'è poi un 11 per cento di personaggi che
hanno cambiato casacca e un 5 di "non classificabili". Nell'hit
parade delle nuove leve, ossia quelle entrate in politica dopo il 1992, la
distanza tra i due poli aumenta: il centrodestra conta un 52 per cento mentre
il centrosinistra è al 29. Ma la questione morale resta un problema di tutti.
(…). In compenso la minaccia si evolve.
venerdì 16 dicembre 2016
Lalinguabatte. 28 “L'astuzia della Costituzione”.
Scriveva Michele Prospero in “La libertà difesa dalle regole” – sul
quotidiano l’Unità del 2 di dicembre dell’anno 2012 - sull’essenza che avrebbero dovuto avere – e
non hanno - le “primarie”: (…). Il popolo, nelle culture liberali, non è
mai una entità naturale, esso si configura sempre, lo suggerisce Kelsen, come
una puntuale e artificiale costruzione giuridica. E quindi il popolo o
cittadinanza che può votare alle primarie è da intendersi non già qualunque
corpo pretenda di infilare la scheda nell’urna, ma solo quella precisa entità
giuridica la cui estensione è definita dalle regole sovrane che la coalizione
ha deciso di darsi. Il popolo dei gazebo non è insomma una entità naturalistica
o moltitudine, con il lessico di Hobbes, da accogliere in maniera
indiscriminata, ma è una precisa entità giuridico-formale costruita con regole
e forme valide che per tutti sono vincolanti. (…). La libertà
costituzionalmente tutelata non è mai quella di tutti di partecipare
indiscriminatamente alla vita di tutti i partiti, anche di quello che si
avversa. (…). Le primarie hanno un senso solo perché sono di «parte». Se la
demarcazione in parti distinte e tra loro in contesa cade esiste solo un unico
metapartito che supera ogni differenza. Questa nostalgia per una democrazia in
salsa popolare-giacobina, in cui le società parziali sono bandite e il
conflitto tra le parti è visto come una malattia degenerativa, è però un incubo
che la sinistra lascia volentieri ai media della borghesia italiana. Il
pluralismo che esige il rispetto di ogni differenza ideale come un bene
intangibile e di «parte» garantito dalla Costituzione. È su questo
rispetto formale delle regole riconosciute ed accettate che faceva leva la
“particolarità” propria di quelli che un tempo costituivano la cosiddetta
“sinistra” politica. Poiché quella accettazione concorreva a creare quel
riconoscimento e quella solidarietà che sono alla base di qualsivoglia nucleo
umano. Demistificata quella accettazione del rispetto delle regole costituite
ne è derivata una “poltiglia” politica che nell’indistinguibile ha la sua cifra
caratteristica. Un’accozzaglia, per dirla secondo l’uomo venuto da Rignano
sull’Arno al momento rispedito alla cura della sua formazione politica. Cura
che, nella sua concezione di “una democrazia in salsa popolare-giacobina”
che sfrontatamente non si perita di dissimulare o quanto meno ammantare
di una parvenza di rispetto delle regole, induce i tanti, prima appartenuti a
quella formazione politica, ad abbandonarne le sedi preposte alle attività
decisionali e di partecipazione con grande nocumento alla vita politica
generale. Tutto torna nel conto, ovvero nello svuotamento della partecipazione
della gente alle cose della vita politica per demandarne ad una “casta”
professionalizzata tutto l’onere e gli onori conseguenti, sempreché non
intervenga quel corpo dello Stato che è la giustizia per ripulirne le file
divenute sempre più impresentabili. Ne ha dato contezza nei giorni trascorsi,
all’indomani dei risultati referendari del 4 di dicembre, il senatore del Pd
Walter Tocci – unico senatore di quella parte politica ad aver votato in aula
contro la riforma - in un Suo accorato appello postato sul Suo blog col titolo “L'astuzia della Costituzione”:
giovedì 15 dicembre 2016
Uominiedio. 22 “La vita a prescindere”.
“A prescindere”. Così
avrebbe detto quel grande della commedia dell’arte. Quel grande che non c’è
più. “A
prescindere” dal colore della pelle, dallo stato sociale, dalla
credenza confessionale o religiosa. La vita in quanto tale “a prescindere”. La vita
in quanto tale merita rispetto. O meriterebbe rispetto. Sempre e comunque. Ed
ovunque. A chi ancor oggi si leva in difesa della vita, della sacralità della
vita in nome di una confessionalità tutta d’un pezzo, sarebbe cosa buona e giusta
rammentare, o far conoscere - ché la memoria e la conoscenza non sono alla
portata dei tanti - in quale dispregio la vita sia stata tenuta e considerata nei
tempi andati da una confessionalità distorta e confusa. Ove si parla di un tale
a nome Domenico Scandella, familiarmente detto Menochio. Che aveva visto la
luce del signore nell’anno 1532
in un borgo nomato Montereale sulle amene colline
friulane. Bandito dal borgo suo per anni due a seguito di una rissa negli anni
del signore 1564 e 1565. Di professione mugnaio. E sì che aveva messo in atto
il comandamento divino di crescere e moltiplicarsi, per la qualcosa aveva
impalmato una giovine dalla quale aveva avuto ben sette figli; nel conto, anche
altri quattro che erano morti per la durezza della vita a quel tempo. Diligentemente
inquisito dalla sacra romana chiesa, al suo poco caritatevole giudice, il
canonico Giambattista Maro, vicario generale dell'inquisitore di Aquileia e
Concordia, ebbe a dire che la sua attività era di essere “monaco, maragòn, segar, far muro
et altre cose”. Denunciato il 28 di settembre dell’anno del signore 1583
il povero Menochio fu preso in cura da quell'Uffizio piuttosto santo con
l'accusa di aver pronunciato parole "ereticali e empissime" su
Cristo. Al povero Menochio fu ascritta la grave colpa non solo di essere un
bestemmiatore, ma di avere addirittura cercato di diffondere le sue opinioni,
argomentandole "praedicare, et dogmatizzare non erubescit". Sulla
peccaminosità del vivere e del pensare soprattutto, ché vivere senza pensare
non è peccato alcuno da che è stato creato il mondo, sulla peccaminosità del
povero Menochio non sarebbe stato possibile avere dubbi a seguito di una sua singolarissima
esposizione cosmogonica della quale era giunta, al quel santo Uffizio, un'eco
inquietante: “Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos,
cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece
massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel diventorno vermi, et
quelli furno gli angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li
angeli; et tra quel numero de angeli ve era anche Dio (...) fece poi Adamo et
Eva, et populo in gran moltitudine per impir quelle sedie delli angeli
scacciati. La qual moltitudine non facendo li commendamenti de Dio, mandò il
suo figliol, il quale li Giudei lo presero, et fu crocifisso. (...)”.
venerdì 9 dicembre 2016
Cronachebarbare. 41 “Referendum, Mezzogiorno e povertà”.
È interessante osservare e ricordare alcuni dati
scaturiti all’indomani del referendum del 4 di dicembre, dati che la dicono
lunga su quali motivazioni i 19milioni e passa di italiani hanno buttato a mare
la “riforma” boschian-verdinian-renziana. Ne viene fuori una geografia del
Paese che avrebbe dovuto attrarre l’attenzione massima dell’uomo solo al
governo e dei corpi legislativi nel loro insieme. Ed invece, il nulla. La mappa
disegna confini certi di arretratezza sempre più marcata tra le diverse parti
del Paese e di una povertà in rimonta che penalizza soprattutto quella parte
del Paese che, chiamata alle urne per ben altri motivi, ha scaricato tensioni e
delusioni con un voto inequivocabile. Abruzzo: 64,4% di NO; Lazio: 63,3%
di NO; Molise: 60,8% di No;
Campania: 68,5% di No; Puglia: 67,1% di NO; Sardegna: 72,2% di NO; Basilicata: 65,90% di NO; Calabria: 67% di NO; Sicilia: 71,6% di NO. Cifre percentuali che
evidenziano quel cordone di sofferenze e povertà che l’uomo al governo ha
voluto ignorare per coltivare il suo hobby preferito dello “storytelling”, ovvero
dell’affabulazione falsa ed insensata. Mal gliene incolse. Poiché anche quell’Eugenio
nazionale – al secolo Eugenio Scalfari – ebbe ad affermare che “Il Mezzogiorno è povero ma c'è. Il governo
invece non c'è”, pubblicando sul quotidiano la Repubblica del 27 di
dicembre dell’anno 2015 uno dei suoi soliti pistolotti che avrebbero dovuto
mettere in allarme chi della responsabilità di governo si era impadronito con
“manu militari”. Ma gli interessi erano altrove, allora come oggi, imperscrutabili
ma non tanto, ma sempre interessi che non avevano nulla da condividere con il
disagio dichiarato e venuto forte dalle elezioni referendarie. È da leggere oggi
– alla luce proprio di quei risultati - quel testo dell’Eugenio, dimenticando
se possibile le sue successive piroette e quell’aiutino che di certo non
illustrerà la sua pur generosa carriera giornalistica. Non tanto per il suo
annunciato SI, legittimo se consequenziale alle cose pensate e dette
insistentemente prima, quanto per gli inutili arzigogolii con i quali ha
cercato di dare, a quella sua inattesa resipiscenza, l’autorevolezza e la
credibilità che non possedeva. Scriveva allora, con un interessante percorso storico-politico,
che
giovedì 8 dicembre 2016
Scriptamanent. 55 “Il primato dell’etica pubblica”.
Da “Il
primato dell’etica pubblica” di Stefano Rodotà, sul quotidiano la
Repubblica dell’8 di dicembre dell’anno 2014: (…). La verità è che, malgrado le
molte parole, in cima all’agenda politica non vi è mai stata la questione della
legalità, intesa nel suo significato più ampio, come obbligo delle istituzioni
pubbliche di spezzare i tanti “mostruosi connubi” che via via si manifestavano
davanti ai nostri occhi, in una inarrestabile deriva: tra politica e
amministrazione e poi tra politica e criminalità, cementati da una corruzione
divenuta capillare, regola non scritta sull’uso delle risorse pubbliche, di cui
troppi ritenevano ormai di potersi impunemente appropriare. Tra le istituzioni
solo la magistratura ha preso sul serio l’adempimento di quell’obbligo, (…). Ma
questa memoria è accompagnata dal ricordo della insofferenza di troppa parte di
un ceto politico che ha giudicato illegittima interferenza molti, sacrosanti
interventi dei giudici a tutela della legalità. È giusto individuare le
competenze proprie della politica e quelle della magistratura. E la strada è
segnata dall’articolo 54 della Costituzione, al quale sarebbe il caso di dare
un’occhiata (…). All’inizio di questo articolo si stabilisce l’obbligo dei
cittadini di rispettare la Costituzione e le leggi. Subito dopo si aggiunge che
«i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle
con disciplina ed onore». L’indicazione non potrebbe essere più chiara. Chi
svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono
limitarsi al rispetto formale della legalità. Ad essi è richiesto qualcosa di
più — il rispetto dell’etica pubblica. Un principio che in questi anni è stato
sostanzialmente cancellato. Di fronte a comportamenti anche gravemente
censurabili si è rifiutato ogni intervento dicendo “non vi è reato”. E, quando
si era di fronte ad indagini, rinvii a giudizio, addirittura a condanne in
primo grado, si è rifiutato di prendere atto che si era in presenza di
violazioni della legge penale e si è rinviata qualsiasi sanzione politica al
momento, lontano anni, della sentenza definitiva passata in giudicato. Così la
politica ha azzerato la propria responsabilità, usando anche le lentezze della
magistratura per legittimare questo suo abbandono. I risultati sono davanti ai
nostri occhi. (…). Assistiamo ad una continua guerriglia parlamentare contro la
magistratura, con il pretesto di voler accrescere le garanzie delle persone e
con l’obiettivo di limitarne l’autonomia, con strumenti che rivelano soltanto
l’abissale assenza di una vera cultura della giurisdizione. Ai provvedimenti
contro la corruzione non si dà la priorità aggressiva riconosciuta ad altre
leggi con voti di fiducia e vincolanti “cronoprogrammi”. Situazione ormai
intollerabile e pericolosa, poiché la realtà conclamata (…), testimonia di una
drammatica distruzione della moralità pubblica e di pesanti danni alla stessa
economia. Lo “schifo” (…) imporrebbe che questi temi siano seriamente collocati
in cima all’agenda politica. Parlando di responsabilità dei politici, non
possiamo riferirci soltanto a chi ha commesso reati o ha violato il principio
della “disciplina ed onore” nell’esercizio delle sue funzioni. Oggi la vera
responsabilità politica riguarda persone e partiti che sono di fronte
all’obbligo di sciogliere i nodi che, negli anni, sono divenuti sempre più
stringenti e che nascono dall’obbedienza alla logica della clientela e
dell’affarismo, dalla permeabilità di strutture chiuse e oligarchiche rispetto
alle organizzazioni criminali.
mercoledì 7 dicembre 2016
Scriptamanent. 54 “La politica la fa chi crede in se stesso".
Da “La
politica la fa chi crede in se stesso, su di me ho avuto più di un dubbio",
intervista di Antonio Gnoli ad Alfredo
Reichlin pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 7 di dicembre dell’anno 2014:
(…).
Come si sente nella parte del vecchio nonno che spiega ai nipoti cosa sta
accadendo? "Come un uomo di un'altra epoca. Inadatto. Non tanto a
esprimere giudizi, ma ad azzardare previsioni. Vedo una distanza incolmabile da
tutto ciò che un tempo mi fu familiare. Non ho mezzi né energie. E tuttavia, in
questo cataclisma, le sole forze cui affidarsi sono le generazioni
future".
E la sinistra? "Ha fallito. La sua
crisi rientra nel più generale declino della civiltà europea. È finita
l'occidentalizzazione del mondo".
Siamo entrati nel turbo-occidente. "Senza
più valori né punti di riferimento. La potenza economica ha travolto il potere
politico. Chi è oggi il sovrano?".
Si è dato una risposta? "I mercati
governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione. Parlo non da
esperto, ma da uomo che è vissuto a lungo".
Che bilancio fa della sua vita? "Un
borghese diventato comunista. Mio nonno era un industriale svizzero. In Puglia
aprì una fabbrica chimica. Mio padre fece altro. Dopo la Grande Guerra divenne
un dannunziano convinto. La casa di Barletta, dove sono nato, piena di cimeli.
Di frasi fatte e roboanti: "Ardisco e non ordisco", la ricordo
ancora. Ridicola".
Era l'anticamera del fascismo. "Per
qualche anno mio padre fu podestà di Barletta. Poi preferì dedicarsi alla
professione di avvocato e ci trasferimmo a Roma. Avevo cinque anni".
Agli occhi di un bambino cos'era quella
Roma? "Provavo fastidio. Vedevo il contrasto tra quell'Italia, meschina,
retorica, piccolo borghese, e le mie origini a contatto con il mondo contadino.
Senza diritti né protezione. Gli anni del liceo al Tasso mi aprirono gli occhi.
Fu lì, nella mia classe, che conobbi Luigi Pintor. E attraverso lui il fratello
Giaime. Di pochi anni più grande. Divenne la nostra guida intellettuale. Ci
fece leggere Rilke, che aveva appena tradotto, Ossi di seppia di Montale e I
proscritti di Salomon. Per la nostra crescita politica ci affidò a Eugenio
Colorni. Che poi sarebbe morto tragicamente in un agguato nel 1944".
Qualche mese prima morì Giaime. "Saltò
su una mina tedesca nel dicembre del 1943. Luigi venne a casa mia per darmi la
notizia. Smunto, con le labbra contratte, disse: dobbiamo vendicarlo".
Cosa intendeva? "Voleva dire cambiare
la natura del nostro impegno politico. Diventammo gappisti; entrammo in
clandestinità. Un uomo misterioso, che poi risultò essere Valentino Gerratana,
ci consegnò delle armi. Furono mesi terribili. Consapevole che se fossi stato
preso mi avrebbero torturato e poi ucciso. A un certo punto qualcuno del nostro
gruppo tradì. A un appuntamento con dei compagni arrivò la Banda Koch.
Arrestarono Luigi e pure Franco Calamandrei ".
Si scoprì chi aveva tradito? "Sì, il
Cln, con a capo Giorgio Amendola, processò il traditore che nel frattempo si
era aggregato alla Banda Koch. La direzione dei Gap decise che fossi io a
dargli la caccia e ad eseguire la sentenza di morte. Riuscì a scappare a
Milano. E solo dopo seppi che era stato ucciso in uno scontro a fuoco con i
partigiani".
Lei partecipò anche all'attentato di via
Rasella? "Non direttamente anche se fummo noi gappisti a
organizzarlo".
Cosa sa dell'assassinio di Gentile?
martedì 6 dicembre 2016
Scriptamanent. 53 “La politica senza morale”.
Da “La
politica senza morale” di Piero Ignazi, sul quotidiano la Repubblica del 6
di dicembre dell’anno 2014: Cosa c’è alla radice della cupola corruttiva
della capitale? Il debordare di una libidine di ricchezza e potere? Il
diffondersi dell’irrilevanza e menefreghismo per le regole? La convinzione che
così fan tutti e nessuno paga pegno? Tutto questo, ovviamente. Ma si possono
individuare anche altre cause. Cause indirette, che rimandano alla politica e
ai partiti. L’assunto da cui partire è che “la politica costa”. Anzi, costa
sempre di più. Non a caso i bilanci ufficiali dei partiti sono aumentati
costantemente e, a partire dai primi anni Duemila, le loro entrate sono più che
raddoppiate. E qui si parla soltanto di soldi contabilizzati nero su bianco nei
libri mastri dei partiti. L’incremento delle entrate grazie ad un sistema di
finanziamento pubblico generosissimo e senza controlli rispondeva alla
necessità da parte dei partiti non tanto di mantenere “gli apparati”, morti e
sepolti da tempo, quanto di sostenere i costi della politica d’oggi, fondata
sulle consulenze dei professionisti del marketing, della comunicazione, del
sondaggio, e della pubblicità. Comprare sul mercato i migliori specialisti di ogni
ramo costa, e tanto. Di conseguenza i partiti si sono rivolti allo stato per
attingere le risorse finanziarie necessarie, garantendosi, fino alla riforma
del 2012, introiti statali sempre più consistenti. Questo perché,
ufficialmente, le altre entrate nelle loro casse erano scese a livelli
risibili. Nell’ultimo decennio la voce tesseramento nei bilanci è andata quasi
scomparendo: in nessun partito le quote degli iscritti fornivano più del 3-4%
dei proventi complessivi (con l’eccezione dei Ds e del Pd nei quali l’importo
delle tessere rimane a livello locale e non viene riportato nel bilanci del
partito nazionale). Questa torsione stato-centrica delle organizzazioni
partitiche ha indebolito le strutture periferiche dei partiti. Ha impoverito il
partito nel territorio. Tutta l’attività politica si svolge al centro, dove si
acquisiscono e si gestiscono le risorse sia finanziarie che strutturali. Quindi
chi vuole fare carriera - cioè essere eletto alle cariche pubbliche perché
quelle interne a livello locale non contano più nulla - necessita di risorse
alternative, esterne alla struttura partitica.
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