“Ricami pietrosi” di Silvia Ripoll
Lopez. “Fare arte” con i ciottoli del mare.
Mi concedo
un “divertissement”.
La “storiella”,
comunemente denominata “barzelletta”, mi è stata raccontata
da G.B. al tempo in cui intrattenevamo continui incontri goderecci ed al
contempo allegri e scanzonati. Altri tempi in verità! Giovanili. Dunque:
Francesco, che è quello di Assisi, soleva andare per le pubbliche vie
stringendo alle sue esili caviglie una specie di collare, o meglio di
cavigliera, una per caviglia per l’appunto, sulle quali cavigliere un provetto
artigiano aveva fissato innumerevoli trillanti campanellini. La stranezza di
Francesco la si comprende meglio allorché si pensi al suo alto senso ecologico
e di rispetto per tutti gli esseri viventi, nessuno escluso. Orbene, quelle
cavigliere portate a mo’ di collare sugli arti inferiori avrebbero dovuto
avvisare, con il loro scampanellio, il passaggio del “poverello” di Assisi per
le vie cittadine ed oltre di quei tempi oscuri. E sembra che la trovata desse
un suo positivo risultato tanto che anche le forme di viventi più piccole
riuscivano a non essere calpestate dal passo, in verità leggero, di quel “poverello”.
Avvenne così che un giorno il “poverello” si imbattesse in una
piccolissima formica che, nonostante lo scampanellio dell’arnese, non si
peritava d’abbandonare la sede della viuzza di campagna percorsa da Francesco. Non
poteva mancare che quell’anima buona e pia non si accovacciasse per la strada e
raccogliesse nel palmo delle sue mani delicate l’inerme imenottero. Così come
non poteva mancare che a quel sant’uomo non sfuggisse lo “sguardo” sperduto ed
implorante dell’inerme insetto. Avvenne così che, per i soliti inspiegabili
miracoli che lo sono soltanto per i duri di cuore, tra i due, ovvero quel Francesco
di Assisi e l’imenottero, avvenisse un intenso, appassionato dialogo.
Francesco: - Cosa ci fai costì? -. La formica: - Passavo -. Francesco: - E
dimmi, come ti vanno le cose? -. La formica: - Mica tanto bene. Ieri l’altro l’è
morta la mia mamma -. Francesco: - O poverina! E poi dimmi dell’altro della
tua vita -. La formica: - È che mesi addietro, per una terribile
epidemia, se ne sono andati anche i miei fratellini e le mie sorelline
-. Francesco: - Ed il tuo babbo? Che ne è del tuo babbo? -. E la formichina di
rimando: - È che il mio babbo non l’ho mai conosciuto -. E fu a questo
punto che quel sant’uomo si risolse in una decisione che certamente gli sarà
costata molto. Avvicinò il suo viso scarno al piccolissimo essere vivente e con
fare affettuoso le sussurrò: - Ed allora muori anche tu! -. E la
schiacciò con il suo lungo ed affusolato dito indice. Fine della “storiella”.
Ricordo bene che l’allegra combriccola si scompisciò dal ridere. E quando tutto
si ricompose ebbi a chiosare: - È stato probabilmente questo il primo atto di
carità cristiana che si sia registrato -. Ricordo che non ci fu alcun
seguito alla mia “battuta”. Ma la “storia” di J. ed L. è ben altra cosa. J. è una
signora – e ribadisco “è” - di quel “genere” che si autodefinisce “umano”. In
età lavorativa ha operato in qualità di ricercatrice per una delle più
importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Raggiunta l’età della
pensione ha pensato bene di godere della tranquillità di una vita agreste. L. è
una giovanissima cagnetta che nei mesi della calura estiva ci gratifica della
sua presenza in quell’angolo ameno dei Nebrodi che si affaccia sulla maestà
delle isole Eolie. Lo ha sempre fatto, anche negli anni trascorsi, nei nostri
puntuali e ripetuti ritorni. Ma in questa ultima stagione qualcosa di diverso e
di “strano” abbiamo potuto registrare ben subito il nostro arrivo. L., scoperto
il nostro rientro, non ci ha più abbandonati per l’intera stagione estiva. È
pur vero che all’improvviso, e dopo attente osservazioni da parte nostra,
l’amabile animaletto spariva per un certo arco di tempo per poi fare ritorno
nel nostro cortile ove trascorrere l’intiera nottata ed oltre. L’arcano ha
avuto una soluzione allorché da un occasionale nostro visitatore abbiamo
conosciuto la “storia” di J. ed L. E così ora sappiamo che J., seppur ancora appartenente
al mondo fisico, si è dipartita da esso da un bel po’. L., la sua adorabile
cagnetta, “sparisce” sempre in un preciso arco di tempo allorquando il suo
innato senso le comunica del rientro di J. nella dimora. Abbiamo saputo anche
che J. non è più “capace” di quelle affettuosità che per lunghissimi anni aveva
riservato a L.; per L. non più carezze. La tristezza della “storia” ha
condizionato tutta la nostra stagione estiva ed i ritmi temporali rispettati da
L., per quei suoi incontri con J. manchevoli di carezze ed affettuosità, sono
divenuti anche i ritmi temporali di noi cosiddetti umani. È accaduto così che
alla sera, sotto quel cielo terso dei Nebrodi e trapuntato di stelle lucenti,
io abbia trascorso ore e ore, sino alle ore più piccole della notte - come suol
dirsi – sdraiato sulla mia sedia a sdraio con accanto la sempre silenziosissima
L. che come rapita aspettava che la mia mano si allungasse sulla sua nuca per
quelle carezze che un tempo, di certo J., riservava solamente a lei. È questa
la “storia” di J. ed L. Alla nostra partenza L. si è accoccolata sullo zerbino
dinnanzi all’ingresso di casa e non si è mossa. Speriamo che qualcuno l’abbia
cercata. Noi non vediamo l’ora di rientrare per incontrarla e consolarla
ancora. Ha scritto Umberto Galimberti in “Noi
e gli animali” pubblicato sul settimanale “D” del 25 di ottobre dell’anno
2008: Scrive Nietzsche: "Al confronto dell'animale l'uomo si vanta della
sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello, giacché
questo soltanto egli vuole, vivere come l'animale, né tediato né fra dolori, e
lo vuole però invano, perché non lo vuole come l'animale". (…). Poi venne
il Cristianesimo con il suo "Dominerai sopra i pesci del mare e sugli
uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della Terra e
sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie" (Genesi,
1,26). L'uomo fu così eretto al vertice della scala dei viventi e gli animali
furono subordinati al suo dominio. Oggi quando un uomo compie una brutalità si
dice che si comporta come un animale, quando invece l'animale non ha mai
compiuto le atrocità di cui sono capaci gli uomini. È lo stesso Hegel a
ricordarcelo là dove scrive che mentre l'animale uccide per mangiare, l'uomo
uccide per ottenere dal vinto il riconoscimento della sua potenza. Ne è un
esempio la cerimonia del "trionfo" in epoca romana dove il vincitore
trascinava, legato a una corda al suo carro, il re della popolazione vinta. La
crudeltà umana non è come quella animale, innocente perché dettata dalla
necessità della natura, ma colpevole perché sollecitata dalla sua volontà di
potenza che alberga in quella figura, l'anima, per cui l'uomo si sente superiore
all'animale. Con la parola "anima" si intende che l'uomo, a
differenza dell'animale, non è codificato dalla rigidità degli istinti, e
proprio per questo è libero di fare sia il bene sia il male, marcando così la
sua differenza dall'animale e da Dio. Compiere il male, essere crudeli con i
propri simili dà la sensazione di accrescimento, di potenza, e questo sia
quando si uccide, sia quando si mette fuori gioco il concorrente. Molti infatti
sono i modi di uccidere. E ogni vittima testimonia il nostro potere e rafforza
la nostra identità di cui ci compiaciamo quanto più né constatiamo la potenza.
Nei confronti degli animali, più indifesi di noi e delle tecniche con cui li
catturiamo, il gioco è impari, e perciò facile al punto da non giustificare
l'orgoglio con cui si vantano i cacciatori che spesso neppure mangiano le prede
che uccidono. Non è la fame infatti che promuove la loro attività, ma il
piacere della crudeltà, il godimento del più forte sul più debole. E tutto
questo accade in un regime di innocenza, perché anche di recente la Chiesa ha
ribadito che gli animali non hanno l'anima, che spesso gli uomini hanno solo
per compiere il male. Ma se non hanno l'anima, gli animali hanno però una
sensibilità. Godono e soffrono fisicamente come noi. E accanirsi con crudeltà
su di loro descrive molto bene la natura della nostra sensibilità. Il male che
facciamo a loro alberga dentro di noi. Si esercita su di loro, ma è disponibile
per esercitarsi, come di fatto si esercita, in qualsiasi circostanza e su qualsiasi
persona. L'animale seviziato, l'animale abbandonato, l'animale catturato con
l'inganno, l'animale ingrassato in batteria con l'illuminazione sempre accesa
perché non si addormenti mai, l'animale messo in pentola vivo per non guastarne
il gusto, misurano il grado della nostra sensibilità, la sua perversione, la
sua ferocia. Il trattamento che riserviamo agli animali descrive infatti la
natura della nostra tanto venerata "anima" che farebbe la differenza
tra noi e loro.
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