Ha scritto oggi Pietrangelo
Buttafuoco su “il Fatto Quotidiano” – “L’happy
regime vuole solo good news” -: Happy è il regime. (…). Guardatelo, (…), nel
video: si pavoneggia come neppure un oco infiocchettato. Ed è tutta pastura per
il foie gras conformista. (…). La narrazione, ormai, fluttua. Sono solo good
news quelle di questa Italy. Si vive solo di cool,(…). Happy è il regime. Renzi
lancia un proclama: “Supereremo la Germania”. Una dichiarazione che merita una
pernacchia e nulla più ma al giornalismo italiano non resta che riprodurre la
frase senza un commento, evitando la più ovvia mediazione critica che
accompagni il lettore, lo spettatore, l’ascoltatore, alla verità dei numeri e a
qualcosa che metta chiarezza tra quello che dice Matthew con la sua faccia
tosta e quello che la realtà, purtroppo, nella crudezza della società, dispone.
Matthew non mette mai la faccia sulle sventure ma solo sulle cose piacevoli –
siano esse le ragazze del tennis o il minuetto al Global Citizen Festival – ma
la nazione non è infetta, è in necrosi. Un poliziotto, a Napoli, è in fin di
vita. Un autista di bus, a Roma, viene picchiato a sangue. Sono come prede
incappate nel branco quei due uomini e se episodi come questi, ancor più delle
declamazioni sulla legalità, confermano ciò che dice Rosi Bindi – e cioè che
pezzi interi di territorio sono in mano alla criminalità – l’Happy Regime
sorvola soavemente facendosi forte di un vantaggio: e cioè che l’Italia del
potere non coincide con l’Italia reale e i leccaiuoli suonano per lui un lungo
pianoforte che metta a debita distanza Matthew e l’effettività delle cose. Good
sono le news. E però non esiste sicurezza nelle città e in certi quartieri –
dove non arriva la fotogenia dell’Happy Regime – ci si muove come a Caracas.
Certi racconti del degrado – a Catania, a Mondragone, a Ostia – corrispondono
alle cronache della perestroika, quando a Mosca crollava l’Unione Sovietica:
“Non si poteva andare in giro se non con la pistola in tasca”. Good sono le
news. E a proposito di numeri, a fruire della mediazione dell’Happy Regime, non
si capisce mai qual è la verità. L’Istat dice una cosa, il Ministero del Tesoro
un’altra ed è, ormai – nello specchio dei conti e dei piccioli in tasca – la
solitudine dei numeri gufi. Matthew, si sa, è spregiudicato. Cassa le
argomentazioni e dice le cose più improbabili. Impone a tutta l’Italy la sua
suggestione perché sa – e lo sa bene, spalleggiato com’è dal giornalismo, neppure più acritico ma smarrito nel grande
imbroglio – che ogni sua minchiata resterà impunita. Manca il “discernimento” nel
lavoro del giornalismo. E neppure non si può dire che sia venuta meno la
capacità di analisi perché i giornali, quando c’era da bastonare la minoranza
Pd – che pure offriva tutti gli argomenti per farsi strattonare – sapevano fare
il loro mestiere e a memoria recente, sul Corriere della Sera, l’ultima voce
critica nei confronti dell’Happy Regime e del suo boss fu quella di Ferruccio
De Bortoli, il direttore, e giusto nel momento stesso in cui diventava ex.
Tutto è Happy. E se il giornalismo è diventato ex, al punto di far squillare un
unico spot – “siamo tutti Riotto” – nell’Happy Regime dove l’Italia reale non
coincide con l’Italia del potere, la pastura che fa felice l’oco dell’uomo solo
al comando resta quella dell’élite di pronto accomodo. E sono appaltatori e
affaristi, lobbisti dei contratti pubblici, terziario in cerca di terzietà
ideologica, insomma, è quella cerchia del ceto medio che da destra va verso
sinistra procurandosi un alibi mentale: la mancanza di alternativa. Happy è il
Regime ma la struttura psichica, nella buona sorte d’Italia, è sempre la
stessa. I renziani di oggi, in qualunque tempo dell’eterno tempo del potere,
sarebbero stati qualunque cosa nell’ibrido di destra, sinistra, centro e giù di
lì. “Io sono il taxi”, ha detto Denis Verdini, (…), “e in dieci minuti ti porto
da Berlusconi a Renzi”. (…). …Matthew, (…) è il clone del vecchio Denis: il
socio di maggioranza dell’Happy Regime dove tutto è possibile a eccezione della
realtà. E sempre per mancanza di alternative.
Risale al remotissimo 17
di dicembre dell’anno 2006 il post che propongo in questa “sfogliatura” che
portava per titolo “La violenza
dell’informazione”. Nove anni da allora passati inutilmente e che vedono
riproporsi i problemi legati al controllo “violento” dell’informazione ed all’uso
di quel “mostro domestico” che altera menti e coscienze con un inevitabile obnubilamento
collettivo. Scrivevo a quel tempo
andato: Ricordo sempre con grande
emozione la straordinaria e struggente scena del film “La voce della luna” nella
quale scena due grandi dello spettacolo, Roberto Benigni e Paolo Villaggio,
magistralmente diretti dall’indimenticabile Federico Fellini, imploravano il
mondo affinché facesse un po’ di silenzio. Un silenzio planetario, oramai
inconquistabile come è inconquistabile il buio profondo delle notti scure e
limpide sul pianeta chiamato Terra, buio violentato al pari della natura tutta;
il non buio, come il non silenzio dei media, che a breve non consentirà più di
innalzare lo sguardo al cielo per rimirare il luccichio eterno delle luci
provenienti dagli spazi profondi. La proposta di lettura è tratta da “ Il mondo oltre lo schermo “ di
Umberto Galimberti: Il pericolo che io vedo non è tanto che la televisione faccia programmi
inguardabili, quanto nel fatto che tutti guardano la televisione. E siccome non
c'è mondo al di là della sua descrizione, la televisione non è un
"mezzo" che rende pubblici dei fatti, ma la pubblicità che concede
diventa il ‘fine’ per cui i fatti accadono. L'informazione cessa di essere un ‘resoconto’
per tradursi in una vera e propria ‘costruzione‘ dei fatti, e questo non nel
senso che molti fatti del mondo non avrebbero rilevanza se i media non ce li
proponessero, ma perché un enorme numero di azioni non verrebbero compiute se i
mezzi di comunicazione non ne dessero notizia. Oggi il mondo accade perché lo si
comunica, e il mondo comunicato è l'unico che abitiamo. Non
più un mondo di fatti e poi l'informazione, ma un mondo di fatti per
l'informazione. Solo il silenzio restituirebbe al mondo la sua genuinità. Ma
questo non è più possibile. E così, quello che andava profilandosi sul registro
innocente dell'informazione diventa il luogo eminente della costruzione del
vero e del falso, non perché i mezzi di comunicazione mentono, ma perché nulla
viene fatto se non per essere comunicato. Il mondo si risolve nella sua
narrazione. Gli effetti di questo risolvimento sono facilmente intuibili se appena
volgiamo l'attenzione a quel gioco dei consensi che siamo soliti chiamare
democrazia. Se infatti la realtà del mondo non è più discernibile dal racconto
del mondo, il consenso non avviene più sulle cose, ma sulla descrizione delle
cose, che ha preso il posto della loro realtà. Nella democrazia tutti possono
dire la loro, cioè fare la loro descrizione del mondo. Ed è in questo senso che
un tempo i partiti rappresentavano le diverse opinioni della gente, i sindacati
rappresentavano i lavoratori, le associazioni industriali gli imprenditori; ora
è la televisione a rappresentare tutte queste rappresentazioni; ed è in questa
rappresentazione di secondo grado che si descrive il mondo e si costruisce il
consenso. Un consenso che non arriva alle cose, ma si arresta alla loro
rappresentazione, in quel gioco di specchi dove il sondaggio dell'opinione
pubblica è il sondaggio dell'efficienza persuasiva dei media, che prima creano
l'opinione pubblica e poi sondano la loro creazione. A questo punto il
"mezzo", il "medium', non è tanto la televisione, ma l'opinione
pubblica ridotta a specchio di rifrazione del discorso televisivo in cui si
celebra la descrizione del mondo. In ciò nulla di nuovo. Anche la vita degli
antichi o quella dei medioevali era lo specchio di rifrazione in cui si
celebrava il discorso mitico o il discorso religioso; la novità è che nelle
società antiche, dove si disponeva solo di piazze e di pulpiti, non era possibile
raggiungere l'intero sociale, per cui restavano spazi per idee e discorsi
differenti, da cui prendeva avvio la novità storica. Oggi questo spazio è
praticamente abolito, e la novità storica, se vorrà esprimersi, dovrà prodursi
in forme che al momento non si lasciano intravedere.
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