"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 29 settembre 2015

Sfogliature. 44 “Solamente good news, grazie”.



Ha scritto oggi Pietrangelo Buttafuoco su “il Fatto Quotidiano” – “L’happy regime vuole solo good news” -: Happy è il regime. (…). Guardatelo, (…), nel video: si pavoneggia come neppure un oco infiocchettato. Ed è tutta pastura per il foie gras conformista. (…). La narrazione, ormai, fluttua. Sono solo good news quelle di questa Italy. Si vive solo di cool,(…). Happy è il regime. Renzi lancia un proclama: “Supereremo la Germania”. Una dichiarazione che merita una pernacchia e nulla più ma al giornalismo italiano non resta che riprodurre la frase senza un commento, evitando la più ovvia mediazione critica che accompagni il lettore, lo spettatore, l’ascoltatore, alla verità dei numeri e a qualcosa che metta chiarezza tra quello che dice Matthew con la sua faccia tosta e quello che la realtà, purtroppo, nella crudezza della società, dispone. Matthew non mette mai la faccia sulle sventure ma solo sulle cose piacevoli – siano esse le ragazze del tennis o il minuetto al Global Citizen Festival – ma la nazione non è infetta, è in necrosi. Un poliziotto, a Napoli, è in fin di vita. Un autista di bus, a Roma, viene picchiato a sangue. Sono come prede incappate nel branco quei due uomini e se episodi come questi, ancor più delle declamazioni sulla legalità, confermano ciò che dice Rosi Bindi – e cioè che pezzi interi di territorio sono in mano alla criminalità – l’Happy Regime sorvola soavemente facendosi forte di un vantaggio: e cioè che l’Italia del potere non coincide con l’Italia reale e i leccaiuoli suonano per lui un lungo pianoforte che metta a debita distanza Matthew e l’effettività delle cose. Good sono le news. E però non esiste sicurezza nelle città e in certi quartieri – dove non arriva la fotogenia dell’Happy Regime – ci si muove come a Caracas. Certi racconti del degrado – a Catania, a Mondragone, a Ostia – corrispondono alle cronache della perestroika, quando a Mosca crollava l’Unione Sovietica: “Non si poteva andare in giro se non con la pistola in tasca”. Good sono le news. E a proposito di numeri, a fruire della mediazione dell’Happy Regime, non si capisce mai qual è la verità. L’Istat dice una cosa, il Ministero del Tesoro un’altra ed è, ormai – nello specchio dei conti e dei piccioli in tasca – la solitudine dei numeri gufi. Matthew, si sa, è spregiudicato. Cassa le argomentazioni e dice le cose più improbabili. Impone a tutta l’Italy la sua suggestione perché sa – e lo sa bene, spalleggiato com’è dal giornalismo,  neppure più acritico ma smarrito nel grande imbroglio – che ogni sua minchiata resterà impunita. Manca il “discernimento” nel lavoro del giornalismo. E neppure non si può dire che sia venuta meno la capacità di analisi perché i giornali, quando c’era da bastonare la minoranza Pd – che pure offriva tutti gli argomenti per farsi strattonare – sapevano fare il loro mestiere e a memoria recente, sul Corriere della Sera, l’ultima voce critica nei confronti dell’Happy Regime e del suo boss fu quella di Ferruccio De Bortoli, il direttore, e giusto nel momento stesso in cui diventava ex. Tutto è Happy. E se il giornalismo è diventato ex, al punto di far squillare un unico spot – “siamo tutti Riotto” – nell’Happy Regime dove l’Italia reale non coincide con l’Italia del potere, la pastura che fa felice l’oco dell’uomo solo al comando resta quella dell’élite di pronto accomodo. E sono appaltatori e affaristi, lobbisti dei contratti pubblici, terziario in cerca di terzietà ideologica, insomma, è quella cerchia del ceto medio che da destra va verso sinistra procurandosi un alibi mentale: la mancanza di alternativa. Happy è il Regime ma la struttura psichica, nella buona sorte d’Italia, è sempre la stessa. I renziani di oggi, in qualunque tempo dell’eterno tempo del potere, sarebbero stati qualunque cosa nell’ibrido di destra, sinistra, centro e giù di lì. “Io sono il taxi”, ha detto Denis Verdini, (…), “e in dieci minuti ti porto da Berlusconi a Renzi”. (…). …Matthew, (…) è il clone del vecchio Denis: il socio di maggioranza dell’Happy Regime dove tutto è possibile a eccezione della realtà. E sempre per mancanza di alternative.
Risale al remotissimo 17 di dicembre dell’anno 2006 il post che propongo in questa “sfogliatura” che portava per titolo “La violenza dell’informazione”. Nove anni da allora passati inutilmente e che vedono riproporsi i problemi legati al controllo “violento” dell’informazione ed all’uso di quel “mostro domestico” che altera menti e coscienze con un inevitabile obnubilamento collettivo.  Scrivevo a quel tempo andato: Ricordo sempre con grande emozione la straordinaria e struggente scena del film “La voce della luna” nella quale scena due grandi dello spettacolo, Roberto Benigni e Paolo Villaggio, magistralmente diretti dall’indimenticabile Federico Fellini, imploravano il mondo affinché facesse un po’ di silenzio. Un silenzio planetario, oramai inconquistabile come è inconquistabile il buio profondo delle notti scure e limpide sul pianeta chiamato Terra, buio violentato al pari della natura tutta; il non buio, come il non silenzio dei media, che a breve non consentirà più di innalzare lo sguardo al cielo per rimirare il luccichio eterno delle luci provenienti dagli spazi profondi. La proposta di lettura è tratta da “ Il mondo oltre lo schermo “ di Umberto Galimberti: Il pericolo che io vedo non è tanto che la televisione faccia programmi inguardabili, quanto nel fatto che tutti guardano la televisione. E siccome non c'è mondo al di là della sua descrizione, la televisione non è un "mezzo" che rende pubblici dei fatti, ma la pubblicità che concede diventa il ‘fine’ per cui i fatti accadono. L'informazione cessa di essere un ‘resoconto’ per tradursi in una vera e propria ‘costruzione‘ dei fatti, e questo non nel senso che molti fatti del mondo non avrebbero rilevanza se i media non ce li proponessero, ma perché un enorme numero di azioni non verrebbero compiute se i mezzi di comunicazione non ne dessero notizia. Oggi il mondo accade perché lo si comunica, e il mondo comunicato è l'unico che abitiamo. Non più un mondo di fatti e poi l'informazione, ma un mondo di fatti per l'informazione. Solo il silenzio restituirebbe al mondo la sua genuinità. Ma questo non è più possibile. E così, quello che andava profilandosi sul registro innocente dell'informazione diventa il luogo eminente della costruzione del vero e del falso, non perché i mezzi di comunicazione mentono, ma perché nulla viene fatto se non per essere comunicato. Il mondo si risolve nella sua narrazione. Gli effetti di questo risolvimento sono facilmente intuibili se appena volgiamo l'attenzione a quel gioco dei consensi che siamo soliti chiamare democrazia. Se infatti la realtà del mondo non è più discernibile dal racconto del mondo, il consenso non avviene più sulle cose, ma sulla descrizione delle cose, che ha preso il posto della loro realtà. Nella democrazia tutti possono dire la loro, cioè fare la loro descrizione del mondo. Ed è in questo senso che un tempo i partiti rappresentavano le diverse opinioni della gente, i sindacati rappresentavano i lavoratori, le associazioni industriali gli imprenditori; ora è la televisione a rappresentare tutte queste rappresentazioni; ed è in questa rappresentazione di secondo grado che si descrive il mondo e si costruisce il consenso. Un consenso che non arriva alle cose, ma si arresta alla loro rappresentazione, in quel gioco di specchi dove il sondaggio dell'opinione pubblica è il sondaggio dell'efficienza persuasiva dei media, che prima creano l'opinione pubblica e poi sondano la loro creazione. A questo punto il "mezzo", il "medium', non è tanto la televisione, ma l'opinione pubblica ridotta a specchio di rifrazione del discorso televisivo in cui si celebra la descrizione del mondo. In ciò nulla di nuovo. Anche la vita degli antichi o quella dei medioevali era lo specchio di rifrazione in cui si celebrava il discorso mitico o il discorso religioso; la novità è che nelle società antiche, dove si disponeva solo di piazze e di pulpiti, non era possibile raggiungere l'intero sociale, per cui restavano spazi per idee e discorsi differenti, da cui prendeva avvio la novità storica. Oggi questo spazio è praticamente abolito, e la novità storica, se vorrà esprimersi, dovrà prodursi in forme che al momento non si lasciano intravedere.

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