Nel bla-bla “cretino” di un’estate “cretina”
un ministro sostiene - come dal sen sfuggitogli - che financo l’Europa ha preso
finalmente coscienza del dramma dei moderni migranti. Non c’è che dire: il
ministro e l’Europa giungono giusto in tempo. Buon per noi. Ma per tutti quei
poveri “cristi”? Da “Dall’altra parte
del mare” di Andrea Satta – musicista e scrittore -, sul quotidiano l’Unità
di domenica 6 di marzo dell’anno 2011: Cosa può fare il mare. Può tenere lontani
l’inferno e la libertà, la fuga, la disperazione e l’approdo. (…). Siamo
fratelli indifferenti, uno campa e l’altro muore, uno ce la fa e l’altro è
disperato e schiatta. Uno viene privato di tutto, della casa e degli affetti,
dell’amore, della vita e l’altro si preoccupa che non gli si rompano i coglioni
e che la benzina aumenta. Basta, non c’è altro. Io non sono buono, solo mi
chiedo se ci rendiamo conto di tutto questo. (…). Mentre a voce alta, quanto la
tv, urlavo tutte queste banalità, alzò gli occhi dalle sue carte Sonya, che
forse mi ascoltava, come un disturbo, mi ascoltava. Mi guardò, mi fermò e mi
fece: “(…).«La via lattea illumina sempre il cielo… la conosci?» - «Forse …»,
le risposi. - «Una bellissima favola armena comincia così, è la storia di due
fratelli… sai perché le nostre notti sono illuminate?». - «Be’… boh …». - «Ascolta … C’erano e non c’erano, una
volta, due agricoltori, due fratelli. Un giorno, finito di trebbiare, divisero
in parti uguali la paglia, la sistemarono nell’aia, poi si salutarono e
ciascuno se ne andò a riposare. La notte, uno dei due, quello che aveva moglie,
si alzò e decise di donare al fratello minore un po’ di paglia del suo covone:
“Poverino, mio fratello non ha la consolazione di una moglie e desidero dargli
ancora un po’ della mia parte”. Così dicendo uscì di casa e andò sull’aia e col
forcone iniziò a gettare parte della paglia sul covone del fratello. D’altro
canto anche l’altro fratello, quello senza moglie, si era svegliato e aveva
pensato: “Mio fratello è sposato e ha più bisogno di me di ricchezza!”. Così
anche lui nella notte buia e scura si vestì, accese la candela e andò nel
capanno degli attrezzi a prendere il forcone. Poi subito si mise al lavoro e
con grande lena dal suo covone prese a gettare il fieno sopra quello del
fratello. Ed ecco che spostando la paglia, nella notte buia crearono un vortice
che la portò su nel cielo e… una parte è ancora lì. È così che la luna poi, non
si trovò più sola e da quella notte, potè riposare e a volte prendersela comoda
…». Con l’ultima parola del racconto Sonya uscì dalla porta e si allontanò. Me
ne resi conto quando la sentii scendere le scale…restai con la paglia diventata
stelle, davanti agli occhi. Forse sono questi i fratelli che non abbiamo, i
fratelli che non siamo, forse è questa la pagina da scrivere, l’ultima che
resta. Non è quasi più questione di destra e di sinistra, è prima di tutto
questione di uomini.
Da “Meglio
morire una sola volta che tutti i giorni” di Enrico Fierro e Lucio
Musolino, su “il Fatto Quotidiano” del 3 di giugno 2015: (…). “Meglio
morire in mare che stare in Libia. In mare si muore una volta sola, se stai in
Libia è come se morissi tutti i giorni”. (…). “Mi chiamo Abdel B.M., sono di
origine eritrea e ho vent’anni. Sono andato in Libia per tentare la traversata,
ho pagato 500 dollari ma forse la somma non bastava ai trafficanti. Mi hanno
sequestrato e portato a Misurata, nel golfo della Sirte. Ero uno schiavo, mi
facevano lavorare senza pagarmi. Nel capannone eravamo in 200 almeno, dormivamo
per terra e avevamo poco cibo, l’acqua era sporca e non c’erano servizi
igienici per i nostri bisogni. Le donne venivano violentate, gli uomini offesi
e picchiati. Per convincermi a farmi mandare i soldi dai miei genitori e pagare
il viaggio mi hanno torturato. Una notte degli uomini armati sono entrati nel
capannone e hanno prelevato un gruppetto di eritrei. Erano ubriachi e drogati,
e hanno fatto correre gli eritrei mentre loro sparavano, li usavano come
bersagli mobili. Sparavano e ridevano come diavoli. Ho visto almeno due persone
cadere a terra colpite”. (…). “Mi chiamo Mohammad B. e sono nato a Damasco nel
1985. In Siria ero un bracciante agricolo, nel 2013 ho lasciato il mio Paese
per il Libano, da qui volevo raggiungere il Sudan per poi tentare la traversata
in Europa attraverso la Libia. Ho pagato mille dollari a un mediatore siriano
di nome Mahmoud per arrivare in Sudan. Da qui ho raggiunto la frontiera libica
con un fuoristrada condotto da un altro sudanese membro dell’organizzazione che
ci ha consegnato a dei libici. Erano in due e con un altro fuoristrada ci hanno
portati ad Agjdabya, in Cirenaica. Il nostro campo era un lager sorvegliato da
guardie armate. Eravamo in 150, non potevamo uscire, eravamo prigionieri, ci
davano un panino e acqua salata ogni 24 ore. Ci picchiavano, non c’erano bagni
e dormivamo per terra. Sono rimasto in questo posto per 11 giorni. Il capo del
campo si chiama Abou Laabd. Una notte ci hanno caricati su un camion, coperti
con dei teli e trasferiti in un villaggio in mezzo al deserto, qui ci hanno
scaricato in una stalla dove c’erano mucche, capre e pecore, abbiamo dormito
con gli animali per due giorni. È stato il momento peggiore, le guardie ci
hanno tolto tutto, chi protestava veniva picchiato con il calcio dei fucili.
Non ne potevamo più e una notte siamo scappati. Abbiamo raggiunto un’altra
città dove un tale Salem, libico, ci ha ospitati per una notte prima di consegnarci
a Moamamar, anche lui libico. È un trafficante e per 900 dollari ci ha portati
sulla spiaggia dove c’era un gommone di 12 metri circa che da lì a poco sarebbe
partito per l’Italia. Eravamo non meno di 150. Siamo partiti di notte e abbiamo
navigato in quelle condizioni per due giorni, non avevamo cibo e acqua, il
gommone imbarcava acqua. Fortunatamente siamo stati avvistati da una nave della
Marina italiana che ci ha salvati. Sì, riconosco l’uomo che era al timone. È un
membro dell’organizzazione. Quando sono arrivati i soccorsi si è confuso
mettendosi in mezzo a noi. Ora sono stanco voglio andare in Olanda”. (…). “Il
mio nome è Gabresellah H. sono nata nel 1991 in Eritrea. Ho vissuto per dodici
anni a Karthum, facevo la domestica, il mio sogno era andare a Londra, ho
contattato un sudanese che organizzava viaggi verso l’Europa. Per 1.600 dollari
si è offerto di portarmi alla frontiera con la Libia. Siamo partiti a maggio
2014 in un camion con altre 98 persone. Dopo sette giorni siamo arrivati nella
città libica di Ajdabia. Qui ci hanno chiusi in una casa, eravamo prigionieri.
Chiedevo in continuazione a un libico quando sarebbe arrivato il mio turno per
andare in Italia. Lui non rispondeva mai. Dopo un mese siamo stati portati a
Tripoli in camion. Anche in questa città siamo stati rinchiusi in una casa, ci
sorvegliavano uomini vestiti di nero e incappucciati. Il loro compito era
selezionarci per sesso e religione. I musulmani potevano proseguire il viaggio,
i cristiani no, venivano uccisi dagli incappucciati. Le donne cristiane che
avevano pagato il viaggio venivano risparmiate. Ci siamo imbarcati il 7 maggio,
dopo ore di navigazione ci ha salvati una nave da guerra tedesca”. (…). “Sono
Mbdao D. ho 25 anni e vengo dal Senegal. Prima sono stato in Niger, lì ho
incontrato un altro senegalese di nome Diof al quale ho dato 1.200 franchi
senegalesi per farmi raggiungere il confine con la Libia. Eravamo in tanti, ci
hanno caricati su un pick-up e portati a Tripoli dove mi sono fermato 15 giorni
alla ricerca di qualcuno dell’organizzazione. Il mio contatto era un soggetto
di nazionalità gambiana che tutti chiamavano “Lo zio”: era lui il mediatore per
il viaggio, chiedeva 300 mila franchi senegalesi. Non avevo quei soldi, ma la
somma richiesta l’avrebbe versata mio fratello su un conto corrente intestato
allo Zio. Solo quando i soldi sono arrivati mi hanno trasferito a Zuara, nella
Libia nord occidentale, dove sono rimasto sette giorni. Ci hanno imbarcato di
notte, dopo almeno tre ore di attesa sulla spiaggia. Salivamo in 30 sui gommoni
che ci portavano alla barca, un natante di colore blu non grandissimo. Eravamo
in cinquecento e la barca era condotta da tre soggetti, uno al timone, un altro
al controllo del motore e un terzo che sorvegliava noi immigrati. Non ci hanno
maltrattato durante il viaggio, ma non ci davano da bere. La barca era vecchia
e in pessime condizioni, noi eravamo ammassati uno sull’altro, quando il
natante cominciò a imbarcare acqua avemmo paura, il terzo uomo ci ordinava di
svuotare la barca con i secchi. Dopo 13 ore di navigazione abbiamo avvistato
una nave grande di colore blu e con l’immagine di una tigre, o forse era un
cane, non ricordo. È successo l’inferno, a bordo non ne potevamo più, volevamo
solo uscire da quella barca che stava affondando e che mai sarebbe arrivata in
Italia. Così ci spostammo tutti su un fianco, la barca ondeggiò fino a
capovolgersi. Finimmo in acqua. L’acqua era gelida, chi non riusciva a nuotare
affogava, ne ho visti tanti muovere le braccia, urlare, piangere e poi finire
inghiottiti dal mare. Con me c’era mio fratello di 18 anni, si chiamava Khamid,
non l’ho più visto, forse è annegato. Gli scafisti, voi li chiamate così, sì,
li so riconoscere. Il capitano era un africano, l’addetto al motore un
nordafricano, un altro era africano ed era quello che ci ordinava di svuotare
la barca, due di loro parlavano la lingua wolof del Senegal, il terzo parlava
arabo. Sì, sono loro, li riconosco”. (…). “Al T. è il mio nome. Tre anni fa
sono scappato dalla Siria per il Libano, ho vissuto di stenti aiutato solo
dalla Chiesa, due anni dopo ho lasciato Beirut per Karthum. Qui ho incontrato
un sudanese di nome Bachir, il cui numero di telefono è 092… che per 600
dollari si è offerto di portarmi al confine egiziano. Eravamo in 28 e abbiamo
fatto il viaggio su un fuoristrada. Alla frontiera ci ha consegnato ad altre
persone che ci hanno fatto attraversare il deserto fino alla città libica di
Ajdabya dove siamo rimasti per due giorni in attesa di un alto ufficiale della
polizia libica di nome Mouftah, il cui numero di telefono è 09244… L’ufficiale
ci ha chiesto 900 dollari come saldo del viaggio, più altri 500 per portarci a
Tarablus, dove ci hanno rinchiusi in una fattoria per cinque giorni in attesa
di un altro ufficiale libico che ci ha chiesto altri mille dollari. Diceva che
doveva consegnarli a un tale di nome Rafou, che in Libia tutti conoscono come
il miglior organizzatore di viaggi verso l’Italia. Una notte abbiamo aspettato
cinque ore sulla spiaggia prima di essere imbarcati su dei gommoni di colore
scuro, servivano a trasbordarci su un peschereccio. Eravamo almeno in 700,
anche donne e bambini, molti messi uno sull’altro nella stiva. Prima di
imbarcarci sul peschereccio i libici armati ci hanno tolto tutto, qualche
gioiello, soldi, telefoni, vestiti buoni. Durante il viaggio quelli nella stiva
vicino al motore non riuscivano a respirare, vomitavano, i bambini piangevano,
e chiedevano di uscire a prendere un po’ di aria. Ho visto un uomo che aveva il
diabete sentirsi male, urlare dalla disperazione, ma nessuno lo ascoltava. Poco
dopo è morto. A bordo non c’era cibo, né acqua, nessuno aveva il giubbotto di
salvataggio. Ci ha salvato una nave della Marina italiana. Sì, riconosco l’uomo
che era al timone e gli altri che ci controllavano a bordo. Ho dei parenti in
Olanda, chiedo solo di poterli raggiungere”. (…). “Sono Jallow M., nato in
Gambia nel 1978. Ero un ufficiale della National Intelligence Agency e mi
occupavo della sicurezza del presidente. Nel 2006, dopo il golpe di Yanya Jammeh
si è insediato un regime dittatoriale. Mi chiedevano di torturare gli
oppositori, anche le persone che manifestavano l’intenzione di non votarlo, ma
queste pratiche sono contrarie alle mie convinzioni, mi sono rifiutato di
obbedire agli ordini e sono stato arrestato. Dopo un mese mi hanno concesso la
semilibertà, ne ho approfittato per fuggire. Prima in Senegal, dove ho lavorato
per tre anni, poi in Burkina Faso, dove ho fatto l’autista, quindi in Niger e
successivamente in Libia. Con la guerra ho deciso di scappare in Italia, ho
contattato un mediatore, Jawkneh Muhammed, che lavora per un certo Karim,
conosciuto anche come Iman, è il capo dell’organizzazione, un uomo potente. Ho
pagato 1.500 dollari. Con altre 120 persone siamo stati portati a Juwara, in una
casa di questo Karim dove siamo stati trattati in maniera disumana. Abbiamo
atteso 45 giorni in quelle condizioni prima di essere imbarcati sui gommoni e
poi trasferiti su un’imbarcazione con due bandiere, una libica. Chi creava
problemi veniva picchiato. Riconosco dalle foto gli uomini che erano al timone
e quelli che lavoravano per lui”. (…). “Mi chiamo Sonia J., sono nata in
Nigeria nel 1991 e sono incinta di quattro mesi. Con mio marito volevamo
raggiungere l’Europa per dare un futuro al figlio che aspetto. Una notte a
Tripoli ci hanno fatti salire su un gommone scuro, eravamo 120, c’era acqua e
pane, ma mancavano i giubbotti di salvataggio per tutti, dopo quattro giorni di
navigazione il gommone si è capovolto, eravamo in troppi e le onde erano alte.
Ci siamo salvati in dieci. Anche mio marito è morto, aveva 28 anni. Ora chiedo
solo di essere aiutata a rimanere in Italia, lavorare e crescere il figlio che
aspetto”.
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