Martedì 25 di agosto Renzi Matteo blaterava così: “Il
berlusconismo e per certi versi anche l’antiberlusconismo hanno messo il tasto
pausa al dibattito italiano e abbiamo perso occasioni clamorose”. Postavo
il 27 di giugno dell’anno 2003 - alle ore 17:18 - su questo blog che a quel
tempo muoveva i primissimi incerti passi: A
seguito delle singolari vicende parlamentari che hanno portato il Paese a
dotarsi di una "legge" tutta speciale che vale solo per cinque
persone. Stiamo smarrendo la nostra identità e con essa anche la possibilità di
costruire una sempre più civile convivenza. La civile convivenza di un Paese,
di un qualsiasi Paese di questo pianeta, deve avere dei tratti fondamentali che
ne impregnino tutto il tessuto civile, le istituzioni, il ragionare collettivo
che, seppur diversificato, riconosce in quei tratti fondamentali il suo tratto
caratteristico, il suo collante indiscutibile. Trovo allora confortante
proporre una "spiga d'oro” di un altro "grande vecchio", Paolo
Sylos Labini, raccolta da una sua pubblicazione recente "Diario di un
cittadino indignato". Essa, in un momento così difficile per il nostro Paese,
potrà essere memoria e guida per una pronta riscossa: (...). La cultura è l'elemento unificante di una società e nella
cultura rientra l'arte. (...). Ma, per la società, non meno importante è
l'onestà civile della gente di ogni livello; è l'onestà civile diffusa che
rende vivibile una società. L'autostima a livello popolare e la stima degli
altri paesi sono la base dell'amor di patria e dell'orgoglio di appartenere ad
una comunità. Esortazioni, gare sportive e festeggiamenti non sono inutili, ma
senza quella base sono addirittura dannosi, perché pongono in risalto il
contrasto fra l'apparire e l'essere, e l'amor di patria, quando c'è ipocrisia,
invece di crescere diminuisce ulteriormente. (...).
Quella riscossa
tanto desiderata ed auspicata in quel 27 di giugno di dodici anni addietro non
si è realizzata. Ho ri-proposto quella brevissima mia memoria per dire che a
quel tempo essere “presenti” ha rappresentato per milioni di cittadini un dovere,
un servigio per la collettività tutta, al momento obnubilata dal nuovo corso
politico, e la “testimonianza” più concreta, anche nelle forme più elementari
e minime quale era stata quella mia, che una parte del Paese non ci stava,
pensava a tutt’altra soluzione ai gravosi problemi dei quali era di già
assillata. Dov’era allora Renzi Matteo? Postavo
poi il 3 di luglio dell’anno 2003 – alle ore 16:57 -: A seguito delle mirabolanti imprese europee del 2 di luglio dell'anno
2003 di un errante indomito "cavaliere". Ripenso anche in questa
occasione alla triste necessità di questo Paese di affidare le proprie sorti al
"cavaliere di turno, con i brillanti risultati che sono sotto gli occhi
attoniti di tutti. A questo proposito mi pare appropriato riportare quanto ho di
recente letto in una pubblicazione del professore Paul Ginsborg che ha tratto
la citazione dalle "Opere" di Primo Levi e che, con il titolo "Un
passato che credevamo non dovesse ritornare più", è stata pubblicata dal
" Corriere della sera" dell' 8 di Maggio del 1974. Mi chiedo: è solo
la cronaca di questi tristi giorni, o è già la loro storia? "Ogni tempo ha il suo fascismo. (...).
A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore
dell'intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l'informazione,
inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi
sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine". Sono
state, quelle elencate nello scritto dell’indimenticabile Primo Levi, tutte le
strategie messe in atto nel corso dell’indecoroso ventennio che ci si augurava
essere finito: ci si sbagliava di grosso. Dov’era allora Renzi Matteo? Quel ventennio ha avuto, in questi ultimissimi
anni, il suo “naturale” prosieguo. Ha scritto Antonio Padellaro su “il Fatto
Quotidiano” del 27 di agosto ultimo scorso – “Dov’era Matteo mentre il Paese veniva umiliato?” -: (…). …nei
giorni del G8 di Genova quando la polizia del governo Berlusconi mandava
all’ospedale le persone che sfilavano pacificamente – per non parlare della
macelleria messicana nella scuola Diaz –, il cuore del Matteo già grandicello,
batteva per i manganelli o per quelli a cui spaccavano la testa? E nei giorni
dell’editto bulgaro quando lesse (se leggeva i giornali) che Biagi, Santoro e
Luttazzi erano stati cacciati dalla Rai perché invisi al presidente-padrone,
Renzi continuò a giocare con le macchinine o pensò tra sé e sé (perché Verdini
non sentisse): però, che schifo? E se con gli amici del bar di Rignano il
discorso cadeva sul conflitto d’interessi del presidente del Consiglio,
proprietario di tre tv e controllore del servizio pubblico, la reazione di
Renzi qual era? Che palle, non se ne può più? E delle numerose leggi vergogna,
e dei vari lodi Schifani e Alfano poi dichiarati incostituzionali, il
giovanotto Renzi cosa pensava esattamente? Che costituivano utili innovazioni
di un sistema giudiziario obsoleto? O che era un insopportabile uso del governo
e del Parlamento per consentire all’Imputato di farla franca dimostrando che la
legge non è affatto uguale per tutti? Sappiamo invece da che parte stava quando
il suo maestro Silvio cercò di smantellare a proprio uso la Costituzione. Il
discepolo non è da meno. E quando (andiamo a memoria) nella campagna elettorale
del 2006, Berlusconi attaccò frontalmente Prodi dicendo che non poteva credere
che “ci fossero in giro così tanti coglioni pronti a votare contro i loro
interessi”, possibile che il futuro premier stesse dalla parte dei coglioni
antiberlusconiani? E quando all’apice del bunga-bunga, Dario Franceschini
chiese agli italiani: “Fareste educare i vostri figli da quest’uomo?”, Renzi
cosa rispose: sì, no o forse? Oppure pensava che il suo futuro ministro stesse
parlando di Roman Polanski? Infine (ma potremmo continuare a lungo), quando
l’allora presidente Napolitano rifiutò di firmare l’infame decreto del governo
Berlusconi che avrebbe vietato l’interruzione dell’alimentazione e idratazione
artificiale di Eluana Englaro, Renzi rinunciò a provare vergogna per non
contribuire alla paralisi del Paese? Verrebbe da pensare che un premier
cresciuto nella cultura dei Telegatti rappresenti la media di ignoranza (e di
smemoratezza) vigente nel resto del Paese. Invece, il suo è puro cinismo. Renzi
conosce troppo bene i guasti prodotti dal ventennio berlusconiano ma non gliene
frega nulla. O meglio, ne fa un uso personale per azzerare tutto ciò che viene
prima di lui e per alimentare la conveniente leggenda dell’“uomo nuovo”, senza
scheletri nell’armadio e ignaro delle nefandezze di chi l’ha preceduto. Tutto
già visto. (…). La storia, che lui fa finta di non conoscere, insegna che
presto o tardi sarà ricambiato della stessa moneta. Enzo Biagi, Indro
Montanelli, Paolo Sylos Labini, Giorgio Bocca, Nanni Moretti, Antonio Tabucchi,
Michele Santoro, Daniele Luttazzi ed i milioni di tanti altri “ignoti” che, seppur
con visioni politiche diverse, sono stati “presenti” a denunciare quanto d’irreparabile
andava costruendosi nel bel paese: dov’era allora Renzi Matteo? Scrivevo – alle
ore 22:45 – di sabato 26 di luglio dell’anno 2003: A proposito di un uomo fedele a se stesso e di un altro uomo che da
ministro sproloquia con grave nocumento per il paese e per il suo destino
democratico. Ho avuto un improvviso ripensamento e prima ancora di immergermi
nelle tante agognate vacanze ho inteso dire la mia sul caso Sofri. Ha di sicuro
ragione il sedicente ministro allorché afferma di essere stato colto dai “brividi”
al solo pensiero di dover istruire, per come di sua competenza, la “pratica
Sofri”, affinché il capo dello Stato possa di conseguenza concedere la grazia
al condannato. Dovrebbe il signor ministro istruire la pratica di un uomo che
con grande fermezza e stoicismo si è presentato alle porte del carcere che
tuttora lo ospita all’indomani della condanna definitiva. E questo di certo
rappresenta un’anomalia in un paese nel quale si cerca in tutti i modi, leciti
e meno leciti, di sottrarsi alle condanne; in un paese nel quale la considerazione
sociale si accresce in notevole misura allorquando un cittadino riesca a
dimostrare di essere superiore alle leggi e di evitarne le conseguenze irridendo
le istituzioni tutte. Ed atteggiamenti di tale grande dignità umana e sociale
non trovano, in un paese in preda al più ossessivo delirio mediatico, una pur
minima rispondenza nella coscienza collettiva, anzi, rendono l’uomo inviso e
per il quale essere anche un intellettuale diventa elemento negativo e di
spregio sociale. La fermezza dell’uomo Sofri mal si coniuga con la fase storica
e politica che il paese attraversa; e, guardando anche al passato, in verità
essa non gli è valsa molto per avere la considerazione e l’attenzione di altri
personaggi che hanno calcato e calcano
tuttora la scena politica del paese. Un uomo di certo spigoloso, di certo di
una grande intransigenza che si manifesta innanzitutto verso se stesso prima
ancora che verso gli altri; è forse, la sua intransigenza, una delle cause del
non dirompente interesse che la sua vicenda ha suscitato e suscita nella
pubblica opinione. Un uomo non proprio mediatico, che di certo non buca lo
schermo; uno di quegli intransigenti che in un paese come il nostro trovano
difficile o superficiale ascolto. A questo proposito propongo una “spiga d’oro”
colta dal volume “Dialogo intorno alla Repubblica” del nostro “grande vecchio” Norberto
Bobbio, che tratteggia l’atteggiamento degli italiani al riguardo della
intransigenza morale. "L’intransigenza
non appartiene al carattere degli italiani. Gli intransigenti sono rari,
un’élite. (…). Gli intransigenti sono quelle persone che sono disposte a
sacrificare il proprio particolare per l’idea in cui credono. Da questo punto
di vista Gobetti è stato un bell’esempio. Lo Stato italiano non lo è.(…). Intransigenza
vuol dire anche non perdonare, non dimenticare con troppa leggerezza. La
mancanza di intransigenza crea bambini viziati, non liberi cittadini. (…). …abbiamo
dimenticato il vero significato di carità. (…). ..l’intransigenza è perfettamente
coerente con la carità (…). La vera carità è una forza interiore che ti spinge
a punire (e a premiare) secondo giustizia per il bene pubblico: né vendetta, né
favore. (…). Noi dovremmo educare (…) all’idea che essere cittadino richiede
anche una forza interiore che ti spinge ad esigere che la repubblica sia
intransigente”. Dov’era allora Renzi Matteo?
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