"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 12 settembre 2015

Oltrelenews. 61 “Stagnazione secolare”.



Da “Ma i Nobel riaccendono l’allarme ora il rischio è la stagnazione secolare” di Federico Rampini, sul quotidiano la Repubblica del 17 di marzo 2015: (…). Nella versione aggiornata, si tratta di questo: l’economia capitalistica ha bisogno di due motori propulsivi per crescere, la demografia e la tecnologia. La storia del capitalismo moderno è una combinazione di questi fattori: una popolazione crescente allarga le dimensioni del mercato per prodotti e servizi; un flusso di invenzioni e innovazioni aumenta la produttività del lavoro umano. Che fanno ora questi due motori? La demografia si rovescia, da fattore propulsivo a elemento frenante. Nei paesi sviluppati aumenta la quota di anziani che escono dall’età lavorativa. Nei paesi emergenti la natalità si riduce velocemente – con rare eccezioni – e il più grosso di tutti cioè la Cina ha già imboccato la strada dell’invecchiamento demografico. Un segnale di stagnazione secolare viene proprio dai tassi d’interesse. Crescita debole più deflazione (prezzi immobili o addirittura in calo come per il petrolio) hanno costretto le banche centrali a sfoderare terapie eccezionali. La prima fu la Federal Reserve che già sei anni fa cominciò a stampar moneta per acquistare bond (4.500 miliardi di dollari), inondare l’economia reale di liquidità, ridurre il costo del credito, rianimare gli investimenti. A qualcosa è servito, visto che il Pil Usa cresce dall’estate del 2009. Ma perfino qui in America, Ground Zero di questo esperimento monetario eccezionale, c’è qualcosa che non va. Al di là della disoccupazione ufficiale, c’è tanta disoccupazione nascosta (11% della forza lavoro se si cumulano i dati). I salari sono quasi fermi. Il potere d’acquisto delle famiglie ristagna. Siamo ben lungi da uno sviluppo paragonabile agli anni ’60 e ’70. (…). Il Fondo monetario, sposando le tesi di Thomas Piketty, afferma un nesso tra stagnazione e diseguaglianze: la ricchezza mal distribuita, concentrata in una minoranza della popolazione, non alimenta più i consumi. Alcuni settori – in America la sanità – prelevano rendite parassitarie che comprimono il reddito disponibile della middle class. Il tasso zero crea bolle speculative che mascherano questi problemi strutturali? Jacob Hacker di Yale, il teorico della società “winner-take-all” (dove le élite fanno incetta dei frutti della crescita) elenca una serie di antidoti alle diseguaglianze: «Rilanciare i diritti sindacali nel settore privato. Recuperare una fiscalità progressiva sui patrimoni ». E soprattutto la nuova parola d’ordine “Pre-distribution”. Pre-distribuzione anziché redistribuzione. Non basta più intervenire ex-post con le tasse per attenuare le diseguaglianze (la vecchia politica redistributiva), occorre garantire a priori un accesso eguale per tutti all’istruzione di alta qualità (pre-distribuzione). Il Nobel Edmund Phelps aggiunge un’altra preoccupazione: «L’innovazione tecnologica non si trasmette più come una volta negli aumenti di produttività del lavoro. Crediamo di vivere in un’epoca prodigiosamente innovativa, ma i gadget sfornati dalla Silicon Valley non stanno aumentando la produttività umana ai ritmi che erano tipici degli anni Sessanta. E se non riparte la produttività, c’è un altro freno alla ripresa delle buste paga. Privata dei due motori fondamentali della crescita, l’economia può contare solo sulla pompa monetaria delle banche centrali? (…). …Janet Yellen dovrà dirci se davvero l’America può considerarsi “guarita”, almeno secondo la Fed, e rientrare nel territorio familiare dove il denaro rende qualcosa.

Da “Le angosce del nuovo capitalismo” di Donald Sassoon, sul quotidiano la Repubblica del 15 di aprile 2015: (…). In occidente siamo più ricchi che mai, ma c'è meno uguaglianza soprattutto negli ultimi decenni. Il vecchio sogno della sinistra ( égalité) è stato abbandonato. Tutti sembrano accettare che gli attuali ordinamenti economici della società siano gli unici possibili. Il capitalismo funziona. È vero, ci sono ancora molti che vivono nello squallore e nella miseria. Ma — in Occidente — essi sono una minoranza. Non minacciano il sistema. La rivolta occasionale, l'esplosione di rabbia popolare, la violenza che monta irregolarmente è quasi un riconoscimento che il capitalismo non deve affrontare alcun serio problema politico. Una volta, si pensava che i "dannati della terra" si sarebbero rivoltati contro il sistema. In realtà essi sono frustrati dall'esserne fuori. Chi non fa parte del mondo incantato del capitalismo consumista bussa alla sua porta in un'ondata di migrazione senza precedenti. Oggi, la grande ricchezza accumulata dalle élite economiche provoca invidia e scandalo, ma i rimedi proposti (tassarli, controllarli, metterli alla berlina) non mettono in discussione la validità del capitalismo, solo uno dei suoi risultati meno appetibili. Gli oppressi e i sfruttati sono lontani, in paesi lontani. In un capitolo nel Capitale, Karl Marx, grondante di sdegno, riporta la notizia della morte per esaurimento di Mary Anne Walkley, una sartina di vent'anni che lavorava, in media, 16 ore senza pausa. La sua morte fu riportata su tutta la stampa e anche quella conservatrice era indignata. Era il 1863, quando Mary Anne e i suoi compagni di sventura lavoravano a poca distanza dai consumatori dei loro prodotti, la distanza tra Soho e Mayfair. Centocinquant'anni dopo le Mary Anne di questo mondo esistono ancora, ma lontano dalla causa della loro miseria. La democratizzazione dei consumi è ciò che ha sigillato la vittoria per il capitalismo. Alcune economie comuniste erano riuscite a industrializzarsi, ma nessuna di queste riuscì ad arrivare alla massima conquista del capitalismo moderno: la società dei consumi. Negli ultimi decenni del Diciannovesimo secolo, un trionfo così chiaro del capitalismo era stato previsto da pochi. (…). La rivoluzione industriale che stava dilagando in tutta Europa portava a uno sconvolgimento senza precedenti nella struttura sociale. Il dibattito tra le élite politiche dell'epoca si sviluppò in un contesto specifico: da un lato il riconoscimento che l'industrializzazione era inevitabile e desiderabile, e, dall'altro la paura che avrebbe potuto destabilizzare il sistema. Ogni élite aveva la sua interpretazione del capitalismo. Le élite liberali lo abbracciavano con entusiasmo, come un fine in se stesso. Avrebbe spazzato via i residui feudali, i privilegi nobiliari e clericali, liberato l'imprenditorialità, rafforzato la nazione e promosso il progresso e la scienza. Le élite socialiste, come quelle liberali, accettavano l'inevitabilità del capitalismo, la sua forza progressista, ed elogiavano la distruzione sistematica della vita rurale, con le sue superstizioni e arcane credenze religiose. Per loro, tuttavia, questo era l'anticamera della società del futuro, senza classi e privilegi. I socialisti si battevano per le riforme sociali, per l'estensione della democrazia, per un limite alla giornata lavorativa. Ma più tali rivendicazioni venivano soddisfatte più il sistema diveniva tollerabile. Paradossalmente i socialisti, riformando il capitalismo, contribuirono alla sua stabilizzazione. (…). …il capitalismo ha forti tendenze anarchiche, addomesticarlo per salvarlo è essenziale. I capitalisti non controllano il capitalismo. Sono essi stessi (così pensavano sia Adam Smith che Karl Marx) prigionieri di un insieme di relazioni sociali in cui ognuno cerca di migliorare la propria posizione economica nell'ignoranza di quello che succederà agli altri o dopo. Certo le capacità imprenditoriali sono un fattore importante nella gara tra chi vince e chi perde. Ma le sorti della competizione sono anche dovute a cause esogene, quali la disponibilità delle materie prime, le decisioni prese da altri, e anche alla sorte. Oggi il capitalismo deve fare fronte a un nuovo problema: non più la lotta di classe, o le aspirazioni rivoluzionarie dei dannati della terra, mai limiti ecologici dello sviluppo. Paradossalmente l'aumento di democrazia è un ostacolo. Né sarebbe realistico aspettarsi che cinesi e indiani che mirano a godere di uno stile vita "occidentale" se ne tornino pacificamente al consumo spartano di ieri. Insomma può il capitalismo continuare la sua marcia trionfale e globale senza danneggiare il globo? Questa è la domanda più importante e che genera la stessa ansia che accompagnato da sempre il capitalismo.

1 commento:

  1. La tua ricerca sui problemi dell'economia capitalista di attualità sulla maggioranza dei quotidiani e riviste ,specializzate e non, mette in evidenza quanta preoccupazione ,se non paura,dello stato nel quale versa l'economia globale.Le ricette che si propongono sembrano essere più dei placebo che il malato ingoia e per qualche situazione momentaneamente (periodi non molto lunghi) danno l'impressione di risolvere il problema.Io non sono scettico sulla possibilità di trovare una via nuova da percorrere per avviare le nazioni e gli stati, accorpati in federazioni o uniti politicamente,verso l'equiparazione economica e sociale.L'idea che bisognerebbe rivedere tutto il sistema ed i principi dell'economia capitalista è diffusa,ma il potere che alla radice della governabilità,la distribuzione dei beni tra le genti,la conservazione delle idee e delle ricchezze nella concentrazione non disposta a rendere giustizia a chi la ricchezza la crea ,la complicazione nei rapporti tra i popoli e gli stati ,la raccapricciante ricchezza derivata dalla fabbricazione delle armi,il principio non dichiarato e condannato a parole ''mortua tua vita mea'' e la negazione conseguente dei diritti degli altri non fanno approdare a soluzioni possibili.Molti uomini generosi di animo e di talentosi cimentano in questa battaglia e spesso riescono allo scopo trovando soluzioni teoriche e pratiche percorribili.Auguriamoci ,però, che non bastando l'uomo,ogni uomo,prima o poi cambi dentro di se e forse allora la vita diventerà più vivibile per tutti o quasi.

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