Da “Ma i
Nobel riaccendono l’allarme ora il rischio è la stagnazione secolare” di Federico
Rampini, sul quotidiano la Repubblica del 17 di marzo 2015: (…). Nella
versione aggiornata, si tratta di questo: l’economia capitalistica ha bisogno
di due motori propulsivi per crescere, la demografia e la tecnologia. La storia
del capitalismo moderno è una combinazione di questi fattori: una popolazione
crescente allarga le dimensioni del mercato per prodotti e servizi; un flusso
di invenzioni e innovazioni aumenta la produttività del lavoro umano. Che fanno
ora questi due motori? La demografia si rovescia, da fattore propulsivo a
elemento frenante. Nei paesi sviluppati aumenta la quota di anziani che escono
dall’età lavorativa. Nei paesi emergenti la natalità si riduce velocemente –
con rare eccezioni – e il più grosso di tutti cioè la Cina ha già imboccato la
strada dell’invecchiamento demografico. Un segnale di stagnazione secolare
viene proprio dai tassi d’interesse. Crescita debole più deflazione (prezzi
immobili o addirittura in calo come per il petrolio) hanno costretto le banche
centrali a sfoderare terapie eccezionali. La prima fu la Federal Reserve che
già sei anni fa cominciò a stampar moneta per acquistare bond (4.500 miliardi
di dollari), inondare l’economia reale di liquidità, ridurre il costo del
credito, rianimare gli investimenti. A qualcosa è servito, visto che il Pil Usa
cresce dall’estate del 2009. Ma perfino qui in America, Ground Zero di questo
esperimento monetario eccezionale, c’è qualcosa che non va. Al di là della
disoccupazione ufficiale, c’è tanta disoccupazione nascosta (11% della forza
lavoro se si cumulano i dati). I salari sono quasi fermi. Il potere d’acquisto
delle famiglie ristagna. Siamo ben lungi da uno sviluppo paragonabile agli anni
’60 e ’70. (…). Il Fondo monetario, sposando le tesi di Thomas Piketty, afferma
un nesso tra stagnazione e diseguaglianze: la ricchezza mal distribuita,
concentrata in una minoranza della popolazione, non alimenta più i consumi.
Alcuni settori – in America la sanità – prelevano rendite parassitarie che
comprimono il reddito disponibile della middle class. Il tasso zero crea bolle
speculative che mascherano questi problemi strutturali? Jacob Hacker di Yale,
il teorico della società “winner-take-all” (dove le élite fanno incetta dei
frutti della crescita) elenca una serie di antidoti alle diseguaglianze:
«Rilanciare i diritti sindacali nel settore privato. Recuperare una fiscalità
progressiva sui patrimoni ». E soprattutto la nuova parola d’ordine
“Pre-distribution”. Pre-distribuzione anziché redistribuzione. Non basta più
intervenire ex-post con le tasse per attenuare le diseguaglianze (la vecchia
politica redistributiva), occorre garantire a priori un accesso eguale per
tutti all’istruzione di alta qualità (pre-distribuzione). Il Nobel Edmund
Phelps aggiunge un’altra preoccupazione: «L’innovazione tecnologica non si
trasmette più come una volta negli aumenti di produttività del lavoro. Crediamo
di vivere in un’epoca prodigiosamente innovativa, ma i gadget sfornati dalla
Silicon Valley non stanno aumentando la produttività umana ai ritmi che erano
tipici degli anni Sessanta. E se non riparte la produttività, c’è un altro
freno alla ripresa delle buste paga. Privata dei due motori fondamentali della
crescita, l’economia può contare solo sulla pompa monetaria delle banche
centrali? (…). …Janet Yellen dovrà dirci se davvero l’America può considerarsi
“guarita”, almeno secondo la Fed, e rientrare nel territorio familiare dove il
denaro rende qualcosa.
Da “Le
angosce del nuovo capitalismo” di Donald Sassoon, sul quotidiano la
Repubblica del 15 di aprile 2015: (…). In occidente siamo più ricchi che mai,
ma c'è meno uguaglianza soprattutto negli ultimi decenni. Il vecchio sogno
della sinistra ( égalité) è stato abbandonato. Tutti sembrano accettare che gli
attuali ordinamenti economici della società siano gli unici possibili. Il
capitalismo funziona. È vero, ci sono ancora molti che vivono nello squallore e
nella miseria. Ma — in Occidente — essi sono una minoranza. Non minacciano il
sistema. La rivolta occasionale, l'esplosione di rabbia popolare, la violenza
che monta irregolarmente è quasi un riconoscimento che il capitalismo non deve
affrontare alcun serio problema politico. Una volta, si pensava che i
"dannati della terra" si sarebbero rivoltati contro il sistema. In
realtà essi sono frustrati dall'esserne fuori. Chi non fa parte del mondo
incantato del capitalismo consumista bussa alla sua porta in un'ondata di migrazione
senza precedenti. Oggi, la grande ricchezza accumulata dalle élite economiche
provoca invidia e scandalo, ma i rimedi proposti (tassarli, controllarli,
metterli alla berlina) non mettono in discussione la validità del capitalismo,
solo uno dei suoi risultati meno appetibili. Gli oppressi e i sfruttati sono
lontani, in paesi lontani. In un capitolo nel Capitale, Karl Marx, grondante di
sdegno, riporta la notizia della morte per esaurimento di Mary Anne Walkley,
una sartina di vent'anni che lavorava, in media, 16 ore senza pausa. La sua
morte fu riportata su tutta la stampa e anche quella conservatrice era
indignata. Era il 1863, quando Mary Anne e i suoi compagni di sventura
lavoravano a poca distanza dai consumatori dei loro prodotti, la distanza tra
Soho e Mayfair. Centocinquant'anni dopo le Mary Anne di questo mondo esistono
ancora, ma lontano dalla causa della loro miseria. La democratizzazione dei
consumi è ciò che ha sigillato la vittoria per il capitalismo. Alcune economie
comuniste erano riuscite a industrializzarsi, ma nessuna di queste riuscì ad
arrivare alla massima conquista del capitalismo moderno: la società dei
consumi. Negli ultimi decenni del Diciannovesimo secolo, un trionfo così chiaro
del capitalismo era stato previsto da pochi. (…). La rivoluzione industriale
che stava dilagando in tutta Europa portava a uno sconvolgimento senza
precedenti nella struttura sociale. Il dibattito tra le élite politiche
dell'epoca si sviluppò in un contesto specifico: da un lato il riconoscimento
che l'industrializzazione era inevitabile e desiderabile, e, dall'altro la
paura che avrebbe potuto destabilizzare il sistema. Ogni élite aveva la sua
interpretazione del capitalismo. Le élite liberali lo abbracciavano con
entusiasmo, come un fine in se stesso. Avrebbe spazzato via i residui feudali,
i privilegi nobiliari e clericali, liberato l'imprenditorialità, rafforzato la
nazione e promosso il progresso e la scienza. Le élite socialiste, come quelle
liberali, accettavano l'inevitabilità del capitalismo, la sua forza progressista,
ed elogiavano la distruzione sistematica della vita rurale, con le sue
superstizioni e arcane credenze religiose. Per loro, tuttavia, questo era
l'anticamera della società del futuro, senza classi e privilegi. I socialisti
si battevano per le riforme sociali, per l'estensione della democrazia, per un
limite alla giornata lavorativa. Ma più tali rivendicazioni venivano
soddisfatte più il sistema diveniva tollerabile. Paradossalmente i socialisti,
riformando il capitalismo, contribuirono alla sua stabilizzazione. (…). …il
capitalismo ha forti tendenze anarchiche, addomesticarlo per salvarlo è
essenziale. I capitalisti non controllano il capitalismo. Sono essi stessi
(così pensavano sia Adam Smith che Karl Marx) prigionieri di un insieme di
relazioni sociali in cui ognuno cerca di migliorare la propria posizione
economica nell'ignoranza di quello che succederà agli altri o dopo. Certo le
capacità imprenditoriali sono un fattore importante nella gara tra chi vince e
chi perde. Ma le sorti della competizione sono anche dovute a cause esogene,
quali la disponibilità delle materie prime, le decisioni prese da altri, e
anche alla sorte. Oggi il capitalismo deve fare fronte a un nuovo problema: non
più la lotta di classe, o le aspirazioni rivoluzionarie dei dannati della
terra, mai limiti ecologici dello sviluppo. Paradossalmente l'aumento di
democrazia è un ostacolo. Né sarebbe realistico aspettarsi che cinesi e indiani
che mirano a godere di uno stile vita "occidentale" se ne tornino
pacificamente al consumo spartano di ieri. Insomma può il capitalismo
continuare la sua marcia trionfale e globale senza danneggiare il globo? Questa
è la domanda più importante e che genera la stessa ansia che accompagnato da
sempre il capitalismo.
La tua ricerca sui problemi dell'economia capitalista di attualità sulla maggioranza dei quotidiani e riviste ,specializzate e non, mette in evidenza quanta preoccupazione ,se non paura,dello stato nel quale versa l'economia globale.Le ricette che si propongono sembrano essere più dei placebo che il malato ingoia e per qualche situazione momentaneamente (periodi non molto lunghi) danno l'impressione di risolvere il problema.Io non sono scettico sulla possibilità di trovare una via nuova da percorrere per avviare le nazioni e gli stati, accorpati in federazioni o uniti politicamente,verso l'equiparazione economica e sociale.L'idea che bisognerebbe rivedere tutto il sistema ed i principi dell'economia capitalista è diffusa,ma il potere che alla radice della governabilità,la distribuzione dei beni tra le genti,la conservazione delle idee e delle ricchezze nella concentrazione non disposta a rendere giustizia a chi la ricchezza la crea ,la complicazione nei rapporti tra i popoli e gli stati ,la raccapricciante ricchezza derivata dalla fabbricazione delle armi,il principio non dichiarato e condannato a parole ''mortua tua vita mea'' e la negazione conseguente dei diritti degli altri non fanno approdare a soluzioni possibili.Molti uomini generosi di animo e di talentosi cimentano in questa battaglia e spesso riescono allo scopo trovando soluzioni teoriche e pratiche percorribili.Auguriamoci ,però, che non bastando l'uomo,ogni uomo,prima o poi cambi dentro di se e forse allora la vita diventerà più vivibile per tutti o quasi.
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