“Ricami pietrosi” di Silvia Ripoll
Lopez. “Fare arte” con i ciottoli del mare.
Tralascio e rimando alle cronache di questi
ultimissimi giorni che ci hanno doviziosamente raccontato il perché ed il come
un cadavere (mummificato?) sia stato ritrovato dopo ben due anni in una borgata
di periferia della capitale del bel paese. Non ho voglia di indulgere ad una
spicciola sociologia da raccatto (non ne avrei del resto le dovute, necessarie competenze)
ma ciò che mi ha scosso è stato il sapere che quel cadavere è appartenuto ad
una donna, e più specificatamente ad una insegnante. Ché i cadaveri degli
insegnanti abbiano qualcosa di diverso da tutti gli altri cadaveri? Sembra proprio
di no. Sempre dalle cronache si è appreso infatti che esso, quel povero
cadavere dimenticato, emanava sì tale fetore da costringere i coinquilini (chi,
quali?) a sigillare le fessure del portoncino d’ingresso della abitazione della
sventurata donna. Creava attenzione in tutta quella gente il fetore proveniente
dall’interno e non tanto la sparizione da ben due anni della povera donna. Oggi,
sul quotidiano la Repubblica un alunno della scomparsa ne rende testimonianza -
"Cara professoressa morta da
invisibile ecco perché adesso le chiedo perdono" -. Scrive Valerio
Piperata – alunno della scomparsa ed autore di un romanzo “Le rockstar non sono morte” (2014) edito per i tipi di e/o -:
Sono stato
allievo della professoressa Privitera, (…). Ho fatto parte della schiera di
studenti che l'hanno presa in giro per come vestiva, per come parlava, per il
suo modo di porsi con noi. Ho riso di lei. La prima volta che entra in classe
ci alziamo tutti in piedi, come facciamo sempre per qualsiasi professore. È un
segno di rispetto e considerazione. Lei va dritta verso la cattedra, guarda per
terra, non dice buongiorno, niente canonico "sono Maria Carmela Privitera,
la vostra insegnante di educazione artistica". Non dice una parola.
Ricordo perfettamente l'espressione del suo viso, piccolo e pallido, come se
l'avessi ancora davanti: austera, severa. Non ci ha ancora guardato. Ecco,
all’epoca – anno 2000 - il Valerio Piperata frequentava la prima classe sezione
B della scuola media “Giovanni Verga”. All’epoca Valerio ha la sensibilità del
pre-adolescente e come tutti i pre-adolescenti possiede una sensibilità che
risente in misura notevole dell’imprinting familiare; tutto il mondo esterno a
quell’ambito tanto amato ed ove si è nati e cresciuti è un mondo “strano” e da scoprire.
In taluni casi, in verità molto diffusi, quel mondo appare non già piuttosto “strano”
ma il più delle volte “ostile”. E strani, se non ostili, appaiono quegli esseri
umani che abitano in quel mondo nuovo che è sconosciuto e misterioso. Racconta ancora
Valerio Piperata: Posa la borsa sulla cattedra. La mano che spunta dal cappotto scuro e
che porta la borsa sembra quella di una bambina. Lei finalmente alza la testa e
dà la prima occhiata alla classe. Becca subito una mia compagna che sta
ridendo. Le chiede, con un tono di rimprovero: "Che cos'hai da
ridere?". È stronza, è severa, penso io. Mi darà un sacco di problemi
perché non sono capace a disegnare. Ma mi sbaglio. Lei non è niente del genere.
Dopo un quarto d'ora che è in aula, non è più solo una ragazzina a ridere, ma
tutti e venticinque gli studenti della 1a B della scuola media statale Giovanni
Verga in via Giovanni Gussone. Me compreso. La Privitera è strana, porta le
scarpe di due numeri più grandi, le calze nere troppo lunghe, un cappotto nero
a settembre e gli occhialoni, è piccola, è bianca latte, parla strano, parla da
sola, non parla mai a nessuno. I ricordi mi si riaccendono nella mente,
prendono fuoco, e rivedo adesso la mia professoressa di artistica, quella
strana, in un modo completamente nuovo. (…). Perché la Privitera non somiglia a
niente e a nessuno con cui abbiamo mai avuto a che fare, non somiglia alla
preside, a quella di italiano, di matematica, non somiglia alle nostre madri,
alle nostre nonne, può somigliare piuttosto a una cugina di quarto grado che
abita lontano e che non senti neanche per Natale e pare non se la stia passando
tanto bene, ma che vuoi farci. Perché noi ragazzini delle medie siamo
spaventati dalla minaccia di ciò che non ci è familiare, delle cose e delle
persone che ci sembrano diverse. Noi dal diverso prendiamo cautamente le
distanze e ci puntiamo un faro contro. Quando consegni una tavola, un disegno,
sai che il voto sarà “mediocre”, perché lei sembra non conoscere altri voti.
Tutti snobbiamo la sua materia, e tutti siamo mediocri. Per una di
quelle strane coincidenze della vita lo stesso quotidiano ha pubblicato un “pezzo”
straordinario a firma di tale Daniel Pennac – Lui sì che se ne intende di
scuola! – che ha per titolo “Buona
scuola!”. Scrive Daniel Pennac: Guardate un bambino che gioca, vive in un
presente eterno. Guardate invece un adolescente che si annoia: il suo presente
è una condanna all’ergastolo. Il bambino è convinto che durerà così per sempre
e l’adolescente pensa che non finirà mai. (…). Molto spesso, proprio in quegli
anni capita loro di incontrare un adulto decisivo. Quando appare, lui (o lei)
non sembra un adulto come gli altri. Sotto il suo sguardo non ci si accontenta
più di planare in eterno o di macerare a vita. Quel nuovo venuto, infatti, apre
una finestra sul futuro. Che boccata d’aria! È un futuro immediato, tanto per
cominciare, il desiderio di rivederlo al più presto: Quand’è la prossima
lezione con la professoressa Taldeitali? Ed è anche il futuro della lenta
acquisizione: imparare quello che lui/lei sa, fare quello fa… E infine è il
futuro lontano, che dietro una guida del genere potrebbe anche essere
appassionante! Per la prima volta ci sentiamo una persona in divenire. Questo
forse intendiamo quando, molti anni dopo, ricordiamo la maestra, il professore,
l’educatore o il mentore che “ci ha cambiato la vita”. Riconosciamo che senza
di loro non saremmo ciò che siamo. E ci diciamo anche che non li dimenticheremo
mai. In realtà, non li abbiamo mai dimenticati. Uno degli aspetti più toccanti
dei nostri ricordi è l’immagine intatta che serbiamo di loro. Ne abbiamo nitida
in mente la voce, lo sguardo, i gesti, l’abbigliamento, le manie, l’esatto
volume che il loro corpo occupava in classe. Che qualità speciali avevano,
questi indimenticati, per suscitare una tale gratitudine? Innanzitutto quella
di non essere né i nostri genitori (che per noi erano tutto), né gli altri
nostri professori (che per noi non erano niente). Erano qualcuno,
improvvisamente. Erano speciali. In cosa, speciali? Per esempio nel fatto che,
in quanto professori, sembravano incarnare la loro materia. Gli altri si
limitavano a insegnarla e, a giudicare dalla loro espressione, a un uditorio
che non ne era neanche degno. Loro no. Ci reputavano in grado di condividere il
loro entusiasmo. Proprio questo effetto di incarnazione è stato la prima cosa
decisiva. Visti oggi, forse nella loro materia quegli insegnanti non erano le
cime che immaginavamo allora. Ma ci hanno comunque trasmesso la voglia di
sapere. E non solo: grazie al loro entusiasmo e alle loro richieste, quella
materia diventò per noi una compagnia, e lo sforzo un compagno. Un’altra cosa.
Sembravano avere tempo. La nostra ignoranza non li spazientiva. Eppure non
avevano certo più tempo dei colleghi; un’ora è un’ora, una classe è una classe,
cinquantacinque minuti per una trentina di studenti. Ma l’attenzione che
suscitavano dilatava la durata. Con loro facevamo un viaggio che bastava a se
stesso. Del tutto secondaria, la questione del loro carattere. Secondo i
termini successivi delle varie generazioni, potevano sembrarci simpatici,
mitici, fighi o viceversa carogne o quello che vi pare, ma la cosa fondamentale
è un’altra. Erano prima di tutto la professoressa Taldeitali, mia insegnante di
matematica, il professor Taldeitali, mio insegnante di lettere. Da dove viene
questo possessivo? Dalla sensazione di un rapporto privilegiato. Come se
condividessimo un segreto. La immaginavano reciproca, questa intimità, e lo era
di rado. Spesso per quell’insegnante eravamo solo un allievo fra i tanti, ma
lui/lei per noi era unico, perché sapeva darci la sensazione della nostra
assoluta singolarità. (…). Ecco, Maria Carmela Privitera non sarà stata
di certo una di quelle straordinarie persone che riescono a segnare per la vita
i giovani che il caso le mette di fronte, ma nonostante ciò è stata capacissima
di atti e gesti straordinari e meravigliosi al contempo. Scrive e conclude la
sua “memoria” Valerio Piperata: Eppure un ottimo pare l’abbia dato. Più di
uno. È Ornella, una ragazza che sa disegnare, una che finalmente sembra avere
talento in mezzo a un branco di individui fatti a metà. E la Privitera che fa?
La ignora, le dà il voto che vuole e arrivederci? No. Nel 2000 la segnala per
un concorso di disegno in occasione della mostra di Monet al Vittoriano, le fa
riprodurre donne in giardino. Lei partecipa, vince, e per premio la mandano a
Parigi. Come insegnante non mi ha fatto amare né odiare la sua materia.
Semplicemente l’ho ignorata, come ho ignorato lei, perché tanto artistica da
noi valeva quanto educazione fisica, forse anche meno. Però adesso io non
riesco più a ignorare il suo ricordo. Il ricordo di quella volta che i miei
genitori si presentarono al colloquio di fine quadrimestre con i professori,
mia madre fece per stringerle la mano e lei le diede il mignolo. All’inizio mia
madre non capì, poi si scoprì che lo faceva con tutti. Il ricordo di quando si
regolavano tutti gli orologi all’ora sbagliata, il casino durante i compiti in
classe e la sua faccia d’ostinata assenza e apatia, o quella volta in cui
qualcuno di scuola le squarciò le gomme della macchina, che dentro era piena di
santini e Madonne. La Privitera se n’è andata dal mondo come se n’è andata
dalla nostra scuola: nessuno aveva saputo niente, e nessuno aveva provato
niente, se non un senso di sconforto perché il professore nuovo è serio e
adesso educazione artistica ci tocca farla per davvero. È per questo che io
chiedo ufficialmente scusa per averla ignorata, per non aver ascoltato mai una
lezione, per non aver mai consegnato un disegno, per aver riso di lei. Stavolta
però mi alzo dalla sedia, e col rispetto e la considerazione che ho mostrato a
professori che forse lo meritavano meno di lei, le porgo il mio ultimo e più
sincero saluto: addio, professoressa Privitera. Ecco, Valerio Piperata
oggi riconosce di dover tanto a “quella
strana” – a suo dire - insegnante di educazione artistica. Morta da
sola in una metropoli distratta del secolo ventunesimo.
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