Càspita se non capita in questi giorni liquidi. Capita
che all’improvviso veda il viso e lo sguardo dell’interlocutore cambiare quella
espressione assorta e pensosa che avevano
assunto all’inizio del discorrere. Ché dell’esercizio della dialettica “quellichelasinistra”
ne avevano fatto un segno distintivo, unico nel panorama della cosiddetta “buona
politica”, monopolizzandolo quasi quel segno, vessillo da esibire con
grandissimo orgoglio in contrapposizione alle altre pubbliche rappresentazioni della
politica che della dialettica se ne facevano beffa se non altro ancora. E si scorga
su quel viso ed in quello sguardo farsi largo una espressione non più assorta e
pensosa, bensì ilare, di finta considerazione e comprensione del ragionare dell’interlocutore,
di commiserazione, espressione che è ad un passo dal compatimento dell’altro con
quell’atteggiamento tipico di quelli che non menano un passo se non per dire
che “così va il mondo”. E poiché esistono ancora nel buon lessico di “quellichelasinistra”
parole e termini che erano in un tempo andato - per “quellichelasinistra”
- verità incrollabili e che nel tempo
liquido presente sono capaci invece, più di ogni altra cosa al mondo, di
indurre quell’insana ilare commiserazione, ecco come un riflesso pavloviano
comparire, con sopracciglio aggrottato, quello sguardo di compatimento al solo
accennare a quello straordinario “1789” ed a quell’anelito di libertà
che ne venne dalla Francia liberata da un “feudalesimo” ancora imperante. E così
pure nel ricordare e nominare quell’incredibile “1848” che vide la comparsa
di quel “Manifesto” – “spettro” nell’Europa del tempo - redatto
a quattro mani dal “moro” di Treviri. E quel riflesso ancora quando si va a
ricordare l’anno “1948”, ovvero l’anno che diede alla luce qualcosa di veramente
straordinario, quella che è stata definita la “Dichiarazione universale dei
diritti umani”. Accade così di citare – maldestramente – la Nadia
Urbinati che sul quotidiano la Repubblica del 22 di maggio scorso ha scritto in
“I rischi di chi decide senza deliberare”:
Quarant’anni
fa, nel 1975, la Commissione Trilaterale (ispirata da Samuel Huntington)
pubblicava il suo primo rapporto sulla “governabilità” nei Paesi occidentali
dal titolo eloquente,“La crisi della democrazia”. Il rapporto diceva, in
sostanza, che la governabilità è messa a rischio dalla troppo ampia
deliberazione, dai movimenti per i diritti civili e sociali e dalle richieste
che questi rivolgono ai governi, i quali per mantenere il consenso dei
cittadini sono indotti ad ampliare il loro intervento sociale così da generare
una spirale di nuove richieste. Secondo Huntington, gli Stati democratici
stavano perdendo autorità a causa del peso troppo forte rivendicato dal
pluralismo sociale: era questa la crisi di governabilità decretata dalla
Trilaterale, che suggeriva agli Stati occidentali (soprattutto quelli a
democrazia parlamentare) di rafforzare gli esecutivi, deprimere lo stato
sociale, contenere la contestazione e i movimenti. “Eccesso di democrazia” era
il problema: come nel mercato così anche nella politica, un’alta partecipazione
era indice di un forte bisogno; ma contrariamente al mercato, in politica
questo attivismo era segno di instabilità. All’opposto stava l’apatia, indice
di soddisfazione. Ecco, di quella “Commissione” tristemente famosa e
della quale si pensava erroneamente che si fossero disperse le ceneri al vento,
si stanno attuando oggigiorno le indicazioni sotto il falso “ricatto” della “crisi”
che imporrebbe il superamento financo della cosiddetta democrazia “esecutiva”
– penultima debordante trovata - con una novella forma della democrazia detta della
“decisione”,
per come la definisce la Nadia Urbinati, in contrapposizione a quella che dovrebbe essere una sana democrazia
“deliberativa”.
Scrive infatti l’illustre studiosa: La
crisi economica ha cambiato il carattere e lo stile delle democrazie europee.
Ha messo in discussione il rapporto tra deliberare e decidere facendo pendere
il piatto della bilancia dalla parte degli esecutivi, (…). L’amichevole
inimicizia tra deliberazione e decisione è proverbiale nella democrazia, che i
detrattori hanno per secoli identificato con la perdita di tempo in
chiacchiere, il troppo deliberare e poco decidere. Queste sono le opinioni
ingenerose e non provate dei suoi detrattori. La decisione nelle democrazie è
un momento finale, mai ultimo, di un processo deliberativo al quale partecipa,
direttamente e indirettamente, un numero ampio di soggetti, singoli e
collettivi. Nei governi rappresentativi la deliberazione è un gioco complesso
che si avvale sia della selezione dei rappresentanti sia di un rapporto
permanente del Parlamento con la molteplicità delle opinioni che animano la
società. Se le elezioni concludono temporaneamente il flusso deliberativo, la
discussione non è tuttavia mai interrotta né lo sono la riflessione ragionata
del pubblico e l’influenza che i cittadini cercano di esercitare sulle
istituzioni. La deliberazione non ostacola o ritarda la decisione, quindi, ma
la incalza, la prepara e la cambia. (…). La concezione deliberativa della
democrazia, associata a Jürgen Habermas e alla teoria critica francofortese,
prese corpo proprio in quegli anni, discutendo sul significato della “crisi” e
della governabilità, e contestando la visione minimalista del processo
decisionale. Deliberare era più che votare; aveva un significato ampio, (…): la
decisione per Habermas è una conclusione temporanea di un processo al quale in
modo diretto e indiretto partecipa una pluralità di attori sociali e politici.
Una società civile vibrante e non apatica è il segno non di una crisi di
governabilità ma di una forte legittimità del sistema perché la decisione,
ottenuta comunque a maggioranza, viene percepita da tutti non come un esito
divisivo di una parte contro l’altra. In Europa, la visione deliberativa ha
caratterizzato la natura della democrazia nei decenni a partire dagli anni
Settanta, mettendo a segno importanti risultati in termini di politiche sociali
nazionali e di impulso alla costruzione dei trattati costituzionali dell’Unione
Europea. Il suo declino, che la crisi economica ha accelerato, corrisponde oggi
a un’impennata della volontà decisionale degli esecutivi sia nazionali che
comunitari, e a un desiderio di allentare i lacci imposti dalla deliberazione,
parlamentare e sociale, e di alleggerire l’impegno dei governi nelle politiche
sociali. A livello europeo, questo cambio di passo è stato impresso dalla
pratica dei trattati inter-governativi che hanno depresso la consuetudine
comunitaria e, nello stesso tempo, esaltato il ruolo degli esecutivi degli
Stati. La sterzata verso un federalismo di e tra esecutivi, con credenziali
democratiche deboli, ha avuto un effetto a valanga negli Stati membri. La crisi
(…) mette al tappeto la democrazia deliberativa decretando la centralità del
potere di decisione dei governi centrali. Si tratta di vedere se la democrazia decisionista
ci darà più efficienza nel rispetto dei fondamenti democratici, meno sprechi e
meno corruzione, come promette di fare. Ne discende da tutto ciò un
arretramento della democrazia ed un ritorno ad un “feudalesimo” mascherato
di modernità. Poiché quel “feudalesimo”, che solamente l’opera
rivoluzionaria e meritoria del “moro” di Treviri - con le Sue
analisi scientifiche e le Sue straordinarie intuizioni - si pensava fosse stato
definitivamente accantonato nelle coscienze collettive, ritorna prepotente nel
tempo liquido che siamo chiamanti a vivere nella misura in cui la non
partecipazione massiccia dei cittadini al voto democratico non desta paura e/o
scandalo ma anzi viene ben vista quale strumento di semplificazione, di più
rapida capacità deliberativa. A “quellichelasinistra” un tempo tutto
ciò sarebbe apparso come la negazione stessa della democrazia, il ritorno di
quel “feudalesimo”
dei pochi privilegiati chiamati a decidere per le sorti della generalità dei
cittadini - per censo, per diritto divino, per casta familiare - non già per lo
spirito di cittadinanza venuto fuori dalle ceneri di quel “1789” e da tutto ciò che
ne è seguito. Càspita se non capita di questi giorni liquidi incontrare un qualcuno
che dicesi essere di “quellichelasinistra” che pur di
vincere la partita delle urne non si perita di sostenere l’immancabilità, la
necessità e l’inarrestabilità di tali stravolgenti processi della democrazia in
corso in quell’Europa che un tempo veniva considerata la culla della moderna democrazia
parlamentare. E quello sguardo pieno di compatimento, al solo sentire nominare
e date, e luoghi ed Uomini che hanno fatto la Storia della democrazia nel mondo
occidentale, accompagna l’inutile logomachia, come tra sordi, stretti nell’incomunicabilità
che è segno distintivo, artatamente costruito, dello spirito del tempo
presente. Al tempo presente del nuovo “feudalesimo” la non partecipazione
alla vita politico-elettorale dei cittadini non discenderà già dalle esclusioni
care all’antico assetto sociale - che ha dominato per secoli e secoli - bensì
dalla non politicamente ostacolata “apatia, indice di soddisfazione” che
le nuove “caste” utilizzano per una selezione censuaria che torni conveniente
ai nuovi assetti della democrazia dalla rapida, involuta decisione.
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