Da “Troppa
finanza poca economia” di Marco Panara, sul settimanale “Affari&Finanza”
del 27 di ottobre dell’anno 2014: La più sintetica fotografia del nostro tempo
difficile è nel rapporto tra due numeri, nella cui gigantesca differenza si
annidano gran parte dei pericoli che ci minacciano. Il primo è 75 bilioni di
dollari, 75 mila miliardi, l’ammontare del prodotto lordo mondiale nel 2013. Il
secondo è 993 bilioni di dollari, 993 mila miliardi, l’ammontare delle attività
finanziarie globali alla fine dello scorso anno. Oggi ambedue i numeri sono già
più alti, e quando nei prossimi mesi avremo i dati del 2014 dovremo cominciare
a familiarizzarci con un nuovo termine: trilione, fino ad oggi utilizzato solo
dagli informatici per contare i bit della capacità di calcolo e dagli astronomi
per misurare la distanza tra le stelle. Dal 2015 lo useremo anche in economia
per dare un nome a quella inquietante montagna di attività finanziarie che avrà
superato il picco del milione di miliardi, un trilione appunto.
Il primo motivo
per il quale quella montagna ci inquieta, oltre alla sua dimensione, è la
dinamica: in dieci anni il prodotto lordo mondiale è raddoppiato mentre il
volume delle attività finanziarie è triplicato. Il secondo motivo è la
struttura di quella montagna: di quei 993 mila miliardi di dollari solo 283
mila sono finanza primaria, ovvero azioni, obbligazioni e attivi bancari; tutto
il resto, 710 mila miliardi di dollari, sono invece prodotti derivati scambiati
fuori dai mercati regolamentati, dei quali solo una piccola quota è legata a
transazioni che hanno a che fare con l’economia reale. Il grosso sono
scommesse: sui tassi di interesse, sulle valute, sui prezzi delle materie
prime, sull’andamento degli indici azionari, sul fallimento di stati o di
grandi imprese. All’interno di quei 710 mila miliardi si annidano, secondo le
stime della Banca dei Regolamenti Internazionali, rischi massimi pari a circa
19 mila miliardi, una cifra superiore al prodotto interno lordo degli Stati
Uniti. I derivati inoltre, il grosso di quella montagna, sono la parte che
negli ultimi dieci anni è cresciuta più rapidamente surclassando la finanza
primaria, il cui rapporto con il pil si è mantenuto sostanzialmente stabile
intorno a un multiplo di quattro, mentre i derivati sono passati da cinque a
dieci volte il pil. La finanza non è un nemico dell’economia, è anzi
fondamentale per la sua crescita, e non lo è neanche l’innovazione finanziaria
in sé. Il problema è che la finanza è diventata un competitore dell’economia
reale nell’attrazione delle risorse, un potentissimo elemento di distorsione
dei processi e delle politiche, un ancora più potente fattore di instabilità i
cui rischi sono amplificati dalla velocissima mobilità dei capitali e dalla
volatilità delle scelte, oltre che dalla dimensione delle risorse in gioco. (…).
Il problema della competizione tra la finanza e l’economia reale non si
porrebbe se negli ultimi quindici anni non si fosse sviluppata impetuosamente
quella che potremmo definire “finanza sintetica” o “finanza di carta”, che cioè
vive di vita propria e assorbe risorse senza trasferirle all’economia reale e
quindi alla crescita. C’è molto rischio in questo tipo di finanza, ma ci sono
anche guadagni colossali e assai poche tasse (spesso nessuna), il che la rende
assai attraente per i capitali in cerca di opportunità. E’ la ragione per cui
il Fondo Monetario, nel Rapporto di cui sopra, segnala come primo fattore di
instabilità lo squilibrio tra gli investimenti finanziari e gli investimenti
reali e indica nella costruzione di nuovo equilibrio la ricetta necessaria per
avere un futuro più tranquillo. Il Fondo non avrebbe nessun bisogno di
segnalare questo squilibrio se la finanza fosse al servizio dell’economia
reale, perché l’investimento finanziario (e il rischio connesso) sarebbero
collegati all’investimento (e al rischio) economico. Se lo segnala è perché
quel collegamento non più così forte anzi è diventato assai debole, tanto da
porre un problema ulteriore, quello della efficacia delle politiche monetarie e
del rischio della loro distorsione. (…). Le politiche monetarie espansive
adottate dalle banche centrali per contrastare la crisi delle economie infatti
hanno avuto una efficacia limitata (o annullata) dal fatto che i miliardi
immessi nel sistema non sono andati a finanziare investimenti delle imprese e
consumi delle famiglie ma soprattutto operazioni finanziarie. Che notoriamente
non aumentano l’occupazione, non si trasformano in pil e neanche in gettito
fiscale aggiuntivo per le esauste casse degli stati. (…). Ma, (…), la politica
monetaria - anche se come tutti (salvo la Germania) speriamo, riuscirà ad
essere innovativa ed efficace - non basta. L’economia reale deve trovare in se
stessa la capacità di competere con la finanza per attrarre risorse, cioè
investimenti. Come? Ci vuole l’altra politica, quella capace di fare da una
parte le riforme necessarie per la competitività e, dall’altra, di far pagare
le tasse anche a chi fa i soldi con la finanza di carta. Se l’economia paga le
tasse e la finanza di carta no non ci sono riforme strutturali che tengano,
vincerà sempre la seconda. E noi saremo sempre più poveri.
Da “Se la
finanza non aiuta l’economia reale” di Marcello De Cecco, sul settimanale “Affari&Finanza”
del 30 di marzo 2015: Per un buon numero di decenni gli
economisti, (…), hanno scritto e insegnato che lo sviluppo delle strutture
finanziarie influisce positivamente sulla crescita reale delle economie. (…). Spinta
dalla gravità della crisi, sembra ora prevalere la visione opposta. Si afferma
che lo sviluppo del settore finanziario, a prescindere dalle sue
caratteristiche, avviene a scapito della crescita della economia reale. Quindi,
la crescita del settore finanziario è negativamente correlata con quella
dell'economia reale, dell’industria e dei commerci di un Paese. Opinioni di
questo tipo non sono manifestate da economisti della sinistra estrema o della
destra estrema, quelli per intendersi che hanno sempre visto il capitalismo
finanziario come una piovra che succhia il sangue al settore reale e ai suoi
protagonisti, imprenditori o lavoratori che essi siano. La finanziarizzazione
eccessiva è ora deprecata anche da coloro che avevano, in passato, creduto nello
sviluppo virtuoso delle strutture finanziarie. Lo si fa sulla base di ragionamenti
fondati sul potere del grande oligopolio finanziario internazionale che si è
formato negli ultimi decenni. Esso è visto come conseguenza della prima crisi
del petrolio e degli effetti negativi che essa ha indotto su buona parte dei
conti esteri dei paesi sviluppati. A causa delle liberalizzazioni delle
attività finanziarie, effettuate per attrarre capitali sufficienti a
riequilibrare i conti esteri messi in crisi dall'aumento dei prezzi del
petrolio, l'oligopolio finanziario internazionale che si è formato ha potuto
fissare i prezzi dei suoi servizi e sottrarre, per la maggior redditività che
riesce così a esprimere, sia risorse finanziarie a chi, come molte attività
industriali, riesce a remunerarle meno, sia risorse umane di maggior valore,
perché riesce a pagarle meglio. Nei settori non finanziari, i manager pagati
meglio non sono più quelli addetti alla ricerca o alla organizzazione della
produzione, ma quelli che fanno da interfaccia alle istituzioni finanziarie e
cercano di ottenere condizioni più favorevoli per le risorse che devono
investire. O quelli che all'interno delle loro imprese, 'fanno finanza', ad
esempio nelle divisioni delle medesime imprese che si dedicano ad attività di
ricerca e collocazione di risorse finanziarie tramite i mercati. (…). …la Banca
dei regolamenti internazionali di Basilea, può giungere a pubblicare, come ha
appena fatto, uno studio firmato da Steven Cecchetti, capo del suo ufficio
studi fino a qualche mese fa, nel quale, ricorrendo anche al conforto di
sofisticate analisi statistiche, si sostiene che la crescita del settore
finanziario coincide, nei paesi sviluppati, con una diminuzione del tasso di
crescita dell’economia reale. Il motivo, secondo lo studio citato, è che il
settore finanziario, per espandersi velocemente, e anche per diminuire i
rischi, concede crediti ai settori più patrimonializzati dell’economia reale.
Ad essi risulta più facile l'uso del patrimonio come collaterale per i
prestiti. Tali settori sono caratterizzati da bassa crescita della produttività
e da elevata capitalizzazione. Cecchetti ha in mente innanzitutto il settore
dell'edilizia, che ha molto peso nella struttura del capitale dei paesi
sviluppati e risulta storicamente coinvolto nella gran parte degli episodi nei
quali la crescita rallenta e nelle più gravi crisi che hanno gravemente
disturbato il funzionamento delle economie sviluppate negli ultimi due secoli.
Comunque la si voglia guardare, la crisi attuale ha riportato in auge le
opinioni di coloro che vedono l'economia reale assediata e spesso espugnata da
una classe di capitalisti finanziari che prevale su quella degli imprenditori
industriali e commerciali. Vengono quindi alla mente le grandi visioni dello
sviluppo capitalistico internazionale, come quelle di Fernand Braudel o del suo
ammiratore e discepolo Giovanni Arrighi. La dinamica degli spostamenti dei
centri del potere economico internazionale è da essi vista come una conseguenza
della trasformazione dei capitalisti industriali in capitalisti finanziari, che
apparentemente ha causato la dinamica delle egemonie mondiali fino a quella
americana. Negli anni più recenti sarebbe addirittura responsabile del
trasferimento dell’egemonia verso Oriente, col ritorno del centro dell’economia
mondiale dove esso risiedè per molti secoli nel passato. Sarebbe essa ad avere
causato i grandi squilibri che hanno dato luogo alla crisi attuale. La crescita
dell’economia finanziaria, (…), sembra avere assunto, una volta ancora, le
caratteristiche di una accelerazione del processo di innovazione finanziaria.
Ma è una innovazione che ha come scopo una sottrazione sempre maggiore del
potere finanziario al controllo degli Stati per la maggior fluidità delle
risorse finanziarie, cioè della loro maggior capacità di muoversi tra Stati
diversi. O addirittura di migrare, per motivi specialmente di evasione o
elusione fiscale, verso centri off-shore, che in effetti sono spesso 'la mano
sinistra di Dio' delle grandi piazze finanziarie poste almeno formalmente sotto
la sovranità di grandi Stati nazionali.
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