Ora che lo “tsunami silenzioso” – inteso come gigantesca
“ondata” di esseri umani che da una sponda all’altra dell’antico Mare tentano
di ri-conquistare una speranza di vita nuova – si abbatte sulle nostre coste sollecitando
nei nostri nativi gli atteggiamenti peggiori in fatto di rapporti umani, trovo
necessario e giusto proporre un lavoro dello scrittore-giornalista Ettore
Masina, ovvero una Sua “Lettera” – la numero 104, per come
abitualmente le catalogava – che risale al mese di gennaio dell’anno 2005, lettera
che è espunta delle notazioni personali, pur pregevolissime, e di altre parti,
per renderne più spedita la lettura, e senza nulla togliere, lo spero,
all’essenza di un messaggio Suo affinché “famiglie, scuole, comunità di fede,
associazioni culturali ma anche legami d'amore o d'amicizia, reti di libera
informazione, gruppi di solidarietà devono
diventare i luoghi di una speranza difficile ma testarda: la quale
scopre nel suo cammino che la vita è bella quando si apre a essere dono”.
Traggo quindi dalla “Lettera104” del gennaio 2005:
(…). L'Africa è l'unico
continente del cosiddetto Terzo Mondo che negli ultimi 25 anni è diventato più
povero, da tutti i punti di vista, confermando la terribilità della sua storia.
Come dimenticare che è il continente da cui, 2 milioni di anni fa, mosse la razza umana per diffondersi su tutta
la Terra? Passarono millenni di
millenni, poi, trenta secoli fa, uomini armati fecero ritorno a questa Madre
universale, ma soltanto per metterla a
ferro e fuoco e rapinarla delle sue ricchezze. Da allora la schiavitù segnò
l'Africa indelebilmente: decine di milioni di suoi figli, selezionati fra i più
vigorosi, le furono violentemente sottratti per trasformare le due Americhe in
immense piantagioni e miniere; e quando l'obbrobrio della schiavitù fu
formalmente cancellato, il colonialismo trasformò gli africani in servi e in
soldati, inchiodò l'economia africana alla servitù delle monoculture,
schiacciò con ferocia le ribellioni,
finché esse divennero irresistibili. Ammainate le bandiere delle cosiddette
Grandi Potenze, il potere, occulto ma quasi totale, rimase nelle mani delle
società multinazionali, che ancora oggi lo usano senza pietà. Esse fecero
fallire ogni vero progetto di libertà (…) o scatenarono guerre che sembrano
nazionalistiche o addirittura tribali,
ma in realtà servono al possesso di diamanti, di coltan, di uranio e d'oro - e
sostengono un fiorente commercio di
armi. Raramente i nostri mass-media si degnano di parlare di queste
tragedie ; eppure nella zona orientale del Congo la guerra (per il coltan e per
l'uranio) ha fatto 4 milioni di morti e
più negli ultimi sette anni e continua;
nel Darfur, dal febbraio 2003, 2 milioni di persone sono state costrette
all'esodo dalle loro terre, spesso senza poter seppellire i propri morti,
almeno 70 mila: apparentemente un conflitto etnico, ma certamente legato anche
alla presenza di giacimenti petroliferi. Dall'Uganda alla Costa d'Avorio
all'Angola torme di bambini sono arruolati a forza negli eserciti più o meno
"regolari", piccole vittime di una orrenda follìa. Sono devastazioni
che minacciano anche le future generazioni perché distruggono la natura,
creando povertà che fatalmente si riverseranno sui luoghi dove sembra ancora
possibile la sopravvivenza. L'esodo -
come tutti sappiamo ma cerchiamo di non vedere - è già cominciato, e sono ormai
migliaia e migliaia gli autentici eroi delle migrazioni che attraversano
deserti e pericoli di ogni sorta per
affacciarsi sul Mediterraneo… (…). Dovunque, in Africa, un dittatore o la casta
militare schiacciano una popolazione terrorizzata, lì si muove un capitalismo
estero, la cui ferocia e ottusità sono ancora più gravi perché espressioni di
veri e propri centri imperiali. Oggi metà degli africani (400 milioni di
persone) devono sopravvivere con meno di un dollaro al giorno e non hanno
accesso all'acqua potabile. Tornano a espandersi malattie come la malaria, la
tubercolosi e la "malattia del
sonno". In nove paesi africani l'AIDS ha abbassato la soglia di speranza
di vita sotto i quarant'anni. Gli stati del Continente pagano complessivamente,
come interessi per i loro debiti internazionali, 13 miliardi di dollari
all'anno quando, secondo l'Unicef, basterebbero 9 miliardi all'anno per salvare
la vita a 21 milioni di persone. Il quotidiano spagnolo "El Pais"
parla giustamente di "tsunami silenzioso". (…). Non può esserci una
vera realpolitik che non sia una politica della ragione e che, in quanto
tale, non lavori a spostare l'asse della
vita internazionale dalla fame di possesso e di potere a quella di una possibilità di vita per tutti
i popoli della Terra. Come non capire che, altrimenti, è l'intera umanità ad
essere mortalmente minacciata? Non un
pericoloso bolscevico ma Francis Fukuyama, consulente del Pentagono e
assertore, qualche anno fa, della fine della storia perché il mondo aveva,
secondo lui, trovato un suo assetto accettabile e dunque definitivo, oggi
descrive a questo modo la situazione planetaria dopo la crisi del bipolarismo e
degli stati-nazione: "un'accozzaglia eterogenea di multinazionali,
organizzazioni non governative, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e
così via". La salvezza che egli propone è ancora una volta affidata alla
forza degli stati e, in particolar modo, degli Stati Uniti. La realtà, io
credo, è che l'unica salvezza proponibile è quella dell'utopia perché ormai l'utopia
coincide con la ragione. I governanti, i partiti, il modello consumista,
cancellando o riducendo a entità simboliche la fraternità umana in nome di un
benessere materiale da incrementare incessantemente nei paesi già privilegiati,
preparano guerre sempre più crudeli, distruzioni del creato, insicurezza per i
nostri figli, problemi di terribile entità per i nostri nipoti. È necessario
far crescere questa consapevolezza e la volontà di liberarsi dalla schiavitù
del materialismo genocida del Mercato. Davanti alla ferocia dell'egoismo
imperiale e al nanismo politico dei nostri partiti, cui sembra mancare ogni
sensibilità a proposito delle comuni responsabilità planetarie è necessario che continui a crescere di dimensioni
numeriche ma anche di progettazione creativa il movimento di chi pensa - e
vuole - che un altro mondo sia possibile. (…). Tutto ciò ha scritto quell’illustre
opinionista, or ben due lustri addietro. Oggi che quello “tsunami” umano non è più
tanto silenzioso ma ha rotto la coltre di indifferenza e di tragico silenzio
che l’ha avvolto, tornano più che mai attuali quelle Sue parole a fare
intendere, anche ai più riottosi, della necessità che incombe - come risorsa estrema
- che siano le “utopie” – per come le ha chiamate allora – ovvero una “politica
resa umana”, ad essere portatrice di idee nuove e progetti nuovi che diano
risposte ad un mondo che sempre più si restringe in termini di movimento e di abbattimento
delle distanze e delle frontiere ma sempre di più segnato da ineguaglianze e
sofferenze inenarrabili, “politica resa umana” che riconquisti
appieno il suo primato per segnare il cammino sempre più difficile di questi
anni e di quelli a venire. Una “politica resa umana” che abbia il
respiro dell’umanità tutta e senza il quale respiro tutte le vite, anche quelle
privilegiate che vivono nei cosiddetti paesi progrediti, si sentiranno risucchiate
nella precarietà e nella paura. E della paura dei cosiddetti “benestanti”
ne ha scritto di recente – il 20 di gennaio ultimo scorso – Vittorio Sermonti in
una Sua inquietante lettera al Direttore del quotidiano la Repubblica – “Cosa rischiamo noi benestanti”-: Caro
direttore, guardiamoci negli occhi: siamo i benestanti della terra, e alla
nostra benestanza, con una serie di agi di cui ci accorgiamo davvero solo
quando si profila il terrore di perderne uno, concorre in modo significativo la
libertà di pensare quello che ci pare (che ognuno pensi quello che pare a lui),
di dire quello che ci pare e, con qualche modesta limitazione, di fare quello
che ci pare. Insomma, la libertà e l'idea stessa di libertà individuale, e
quindi di tolleranza per la libertà individuale del prossimo, i Lumi, la
democrazia, Max Weber e tutto il resto. Ma al mondo, come peraltro notissimo,
c'è anche una sterminata e crescente massa di malestanti, di cui, per inciso,
noi benestanti in calo abbiamo maledettamente bisogno per protrarre il nostro
benestare: e questi malestanti che, purtroppo, se non crepano a grappoli di
pandemie o non si ammazzano meticolosamente fra di loro, magari si stanziano
nelle nostre periferie a non morire di fame, e in genere a invidiarci e
disprezzarci, costituiscono un parco immane di consumatori potenziali delle
nostre tecnologie: per il momento, in modo assolutamente prioritario, delle più
accessibili. Cioè delle raffinate tecnologie degli armamenti, e delle
incontenibili tecnologie dell'informazione (resi ubiqui dalla ragnatela dello
spionaggio e del controspionaggio globale, i malestanti sanno tutto di come
stiamo al mondo noi, di cosa ci piace, di cosa ci spaventa, e attivano in rete
un proselitismo letale contro le nostre libertà, garantito dalla libertà
d'espressione, di qualsiasi espressione). Come nasconderci che, in tutti i
casi, si tratta del fall out di tecnologie belliche o parabelliche, inesitabili
ai livelli estremi? (difficile azionare bombe all'idrogeno in un supermarket di
infedeli, e comunque senza rischiare imponenti ritorsioni). Così
l'individualismo radicale di cui noi saremmo portatori sani (?) suppura fra i
malestanti della terra, affetti da contagio mediatico, in una frustrazione di
identità che tende a compensarsi con i fasti del terrorismo «personalizzato ».
Se a noi sembra, insieme, ovvio e sacrosanto fruire dei vantaggi della libertà,
o semplicemente della vita, a loro (a molti di loro) no, e aspirano all'avvento
di una equità planetaria che non è mai esistita e ovviamente non esisterà mai
sul pianeta, demandando le proprie rivalse a un Dio vendicatore. Noi benestanti
siamo certamente più bravi e buoni, con qualche eccezione inevitabile, essendo
in tutti i casi noi e non loro, e questa circostanza (che nell'uso corrente
chiama in causa il conflitto di civiltà) è forse l'unica cosa seria e certa in
tanto marasma: noi siamo noi, loro sono loro. In tutti i casi, mi par di
constatare che al fondamentalismo religioso dei monoteisti, noi benestanti,
atei integrali, bestemmiatori euforici, opponiamo in concreto, insieme ai
principi della nostra libertà, l'irrefrenabile dinamismo di un fondamentalismo
tecnologico altrettanto intollerante, ma molto più fragile e molto più
rischioso: Dio, anche volendo, non si vende e non si compra, i kalašnikov sì. È
vero: indietro non si torna e, personalmente, tornare indietro mi annoierebbe a
morte. Ma visto che le nostre strepitose tecnologie, che esaltano il
protagonismo mediatico, sono molto più idonee ai loro scopi che ai nostri, temo
che noi benestanti d'Occidente, se non proviamo a mettere in questione gli
automatismi ideologici del nostro benestare, chiuderemo presto baracca.
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