Da "La
ripresa c'è ma è troppo debole, a trainarla finora è solo l'export" di
Eugenio Occorsio, intervista alla economista Lucrezia Reichlin - della London
Business School – pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 28 di febbraio
2015: "Il dato dell'Istat, e il moderato ottimismo che ha generato, non
mi stupiscono perché è quasi fisiologico che un'economia si riprenda dopo una
recessione. I segnali positivi sono cominciati ad arrivare da ottobre ma, dato
il ritardo con cui i dati sono stati pubblicati, si può stimare che l'economia
abbia ricominciato a marciare fin da settembre". (…). Certo, è una
"ripresina", ma per noi che eravamo abituati al segno negativo... È
solo una questione di cicli? "Con la mia società di ricerca Now casting
economics che analizza i dati in tempo reale, stimiamo anche cifre più alte,
+0,16%, una previsione più ottimistica di quella della Commissione europea. Non
scordiamoci però che la ripresa dell'Italia è più anemica di quella della
Spagna, della Francia e della Germania. In senso relativo non andiamo bene. E
questo è particolarmente preoccupante perché noi siamo il paese che, dopo la
Grecia, ha avuto la maggiore perdita di Pil (e produzione industriale) dalla
crisi del 2008". (…). Renzi naturalmente si attribuisce buona parte del
merito. È riuscito a iniettare almeno un po' di fiducia, di dinamismo? "Renzi
ha tanti meriti e sicuramente l'ottimismo aiuta in economia. A mente fredda,
però, non direi che si possa facilmente identificare un nesso tra le sue
politiche e la ripresa. La ripresa italiana è correlata a quelle delle altre
economie europee. E' in parte anche da attribuire alla ripresa Usa, molto
robusta, e alle politiche della Bce che hanno agito su tasso di cambio e costo
del credito, e ancora al ribasso del prezzo del petrolio e a una minore
incertezza sulla crisi europea". Quando andrà a regime il Jobs Act ci
saranno risultati visibili in termini di occupazione? "Speriamo! Non
scordiamoci però che per gli investitori i fattori chiave sono burocrazia,
corruzione e sistema giudiziario. Bisogna andare avanti su tutti i
fronti". (…). Quali saranno gli effetti positivi del QE e qual è la
possibilità di un vero trasferimento all'economia reale con l'uscita dalla
deflazione? "L'effetto del QE in qualche modo c'è già stato. Nel momento
stesso in cui una politica del genere è annunciata e quindi attesa, si riflette
subito su tasso d'interesse e tasso di cambio. Ne stiamo già beneficiando. Ma
uscire dalla deflazione non sarà facile. Il mercato del lavoro è ancora molto
debole, gli investimenti e la crescita della produttività molto bassi. Una
crescita trimestrale di 0,16% che fa sperare un tasso per il 2015 intorno
all'1% non è del tutto confortante".
Da “Cosa dicono davvero i dati Istat sulla ripresa” di Alberto Bisin, sul quotidiano la Repubblica del 30 di maggio 2015: Il Paese ha finalmente ripreso a crescere; il timore della deflazione è finito. I titoli dei giornali si sprecano, ed è giusto che sia così. Il Paese ha bisogno di buone notizie e la pubblicazione dei conti economici trimestrali da parte dell’Istat permette un qualche ottimismo. Persino il Financial Times titola, “L’Italia torna in piedi”. (…). Commentare queste notizie per un economista è sempre compito ingrato. (…). …una prospettiva più analitica non può che soffermarsi con maggiore attenzione sulle tendenze di crescita dell’economia e quindi sulle indicazioni che le diverse componenti dei dati congiunturali permettono di trarre sulla situazione economica generale. Da questo punto di vista i dati Istat vanno purtroppo letti in modo meno trionfale di quanto non vorremmo fare. Innanzitutto la crescita del Pil nel primo trimestre 2015 è stata dello 0,1% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente (questa è la cosiddetta “crescita tendenziale”). Non è molto se confrontata all’1% della Germania, al 3% degli Stati Uniti, al 2,4% del Regno Unito e anche allo 0,7% della Francia. Il risultato è ancora peggiore se si tiene conto che la crisi ha colpito il nostro paese più severamente di questi altri e che quindi sarebbe naturale aspettarsi un effetto “rimbalzo” più pronunciato in Italia. L’immagine che meglio riassume la situazione economica del Paese purtroppo è quella della crescita cumulata del Pil negli ultimi 15 anni. Se il Regno Unito è cresciuto di circa il 30% e l’Eurozona di circa il 15%, l’Italia è rimasta al palo. Zero. Questo è il risultato di una combinazione di tre fattori: una minore crescita fino al 2008, una recessione più profonda fino al 2013, e una ripresa più tarda e più lenta da allora. Una lettura più ottimistica dei nuovi dati Istat è però chiaramente possibile. I dati sulla crescita tendenziale in Italia patiscono il ritardo della ripresa, che ha notevolmente faticato negli ultimi tre trimestri del 2014. I dati di “crescita congiunturale”, relativi cioè all’ultimo trimestre, sono invece più favorevoli, sia in assoluto che relativamente agli altri paesi. L’Italia cresce dello 0,3%, come la Germania e il Regno Unito, e più degli Stati Uniti. Questi sono i dati che potrebbero farci pensare di aver svoltato l’angolo. Difficile a dirsi naturalmente: estrapolare da un trimestre in controtendenza è operazione statisticamente suicida che evito con piacere. Ma un’occhiata ai dati disaggregati è utile per cercare di farsi un’idea più precisa di cosa stia succedendo. Innanzitutto la crescita del primo trimestre del 2015 è dovuta in misura sostanziale alla crescita degli investimenti fissi lordi e delle scorte, senza un contributo positivo dei consumi finali nazionali. La spesa delle famiglie è leggermente diminuita e quella della Pubblica Amministrazione è aumentata in pari entità percentuale. Questo non è un buon segno naturalmente, nel senso che una solida ripresa dopo una recessione è associata tipicamente ad una rinnovata fiducia dei consumatori e quindi ad una ripresa dei consumi assieme a quella degli investimenti. Anche il fatto che cresca l’Agricoltura e non i Servizi non è un buon presagio: è nei Servizi che si nascondono le maggiori opportunità di sviluppo di una economia moderna e avanzata come la nostra. Anche a “nutrire il pianeta” e produrre “energia per la vita” si arriva attraverso innovazione e tecnologia, è lì che si genera crescita. Ma il dato più rilevante, non so dire se allarmante, è che la crescita congiunturale degli investimenti si è manifestata in larga parte nel settore Mezzi di trasporto. Sarà anche vero che quando va bene la Fiat va bene il Paese, ma una crescita più omogenea tra settori avrebbe indicato più nettamente una ripresa in atto. Infine, è necessario anche ridimensionare i commenti sulla fine della deflazione. L’inversione di tendenza dei prezzi è dovuta in parte sostanziale al fatto che il calo dei prezzi dei beni energetici abbia rallentato notevolmente. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti e quello degli investimenti sono calati ma non direi in modo preoccupante. La notizia rilevante riguardo ai prezzi è quindi che possibili tendenze deflattive continuino a non manifestarsi. (…). A costo di apparire Cassandra, come spesso accade agli economisti che discutono della situazione economica del nostro Paese, i dati dell’Istat sono meno positivi di quanto non possa sembrare. Vi sono pochi dubbi che la ripresa, ammesso che sia iniziata, rimanga debole e fragile. E certo, meglio che niente, ma uno 0.1%, o 0,3% che dir si voglia, non ha un gran potere taumaturgico di per sé.
Da “Cosa dicono davvero i dati Istat sulla ripresa” di Alberto Bisin, sul quotidiano la Repubblica del 30 di maggio 2015: Il Paese ha finalmente ripreso a crescere; il timore della deflazione è finito. I titoli dei giornali si sprecano, ed è giusto che sia così. Il Paese ha bisogno di buone notizie e la pubblicazione dei conti economici trimestrali da parte dell’Istat permette un qualche ottimismo. Persino il Financial Times titola, “L’Italia torna in piedi”. (…). Commentare queste notizie per un economista è sempre compito ingrato. (…). …una prospettiva più analitica non può che soffermarsi con maggiore attenzione sulle tendenze di crescita dell’economia e quindi sulle indicazioni che le diverse componenti dei dati congiunturali permettono di trarre sulla situazione economica generale. Da questo punto di vista i dati Istat vanno purtroppo letti in modo meno trionfale di quanto non vorremmo fare. Innanzitutto la crescita del Pil nel primo trimestre 2015 è stata dello 0,1% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente (questa è la cosiddetta “crescita tendenziale”). Non è molto se confrontata all’1% della Germania, al 3% degli Stati Uniti, al 2,4% del Regno Unito e anche allo 0,7% della Francia. Il risultato è ancora peggiore se si tiene conto che la crisi ha colpito il nostro paese più severamente di questi altri e che quindi sarebbe naturale aspettarsi un effetto “rimbalzo” più pronunciato in Italia. L’immagine che meglio riassume la situazione economica del Paese purtroppo è quella della crescita cumulata del Pil negli ultimi 15 anni. Se il Regno Unito è cresciuto di circa il 30% e l’Eurozona di circa il 15%, l’Italia è rimasta al palo. Zero. Questo è il risultato di una combinazione di tre fattori: una minore crescita fino al 2008, una recessione più profonda fino al 2013, e una ripresa più tarda e più lenta da allora. Una lettura più ottimistica dei nuovi dati Istat è però chiaramente possibile. I dati sulla crescita tendenziale in Italia patiscono il ritardo della ripresa, che ha notevolmente faticato negli ultimi tre trimestri del 2014. I dati di “crescita congiunturale”, relativi cioè all’ultimo trimestre, sono invece più favorevoli, sia in assoluto che relativamente agli altri paesi. L’Italia cresce dello 0,3%, come la Germania e il Regno Unito, e più degli Stati Uniti. Questi sono i dati che potrebbero farci pensare di aver svoltato l’angolo. Difficile a dirsi naturalmente: estrapolare da un trimestre in controtendenza è operazione statisticamente suicida che evito con piacere. Ma un’occhiata ai dati disaggregati è utile per cercare di farsi un’idea più precisa di cosa stia succedendo. Innanzitutto la crescita del primo trimestre del 2015 è dovuta in misura sostanziale alla crescita degli investimenti fissi lordi e delle scorte, senza un contributo positivo dei consumi finali nazionali. La spesa delle famiglie è leggermente diminuita e quella della Pubblica Amministrazione è aumentata in pari entità percentuale. Questo non è un buon segno naturalmente, nel senso che una solida ripresa dopo una recessione è associata tipicamente ad una rinnovata fiducia dei consumatori e quindi ad una ripresa dei consumi assieme a quella degli investimenti. Anche il fatto che cresca l’Agricoltura e non i Servizi non è un buon presagio: è nei Servizi che si nascondono le maggiori opportunità di sviluppo di una economia moderna e avanzata come la nostra. Anche a “nutrire il pianeta” e produrre “energia per la vita” si arriva attraverso innovazione e tecnologia, è lì che si genera crescita. Ma il dato più rilevante, non so dire se allarmante, è che la crescita congiunturale degli investimenti si è manifestata in larga parte nel settore Mezzi di trasporto. Sarà anche vero che quando va bene la Fiat va bene il Paese, ma una crescita più omogenea tra settori avrebbe indicato più nettamente una ripresa in atto. Infine, è necessario anche ridimensionare i commenti sulla fine della deflazione. L’inversione di tendenza dei prezzi è dovuta in parte sostanziale al fatto che il calo dei prezzi dei beni energetici abbia rallentato notevolmente. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti e quello degli investimenti sono calati ma non direi in modo preoccupante. La notizia rilevante riguardo ai prezzi è quindi che possibili tendenze deflattive continuino a non manifestarsi. (…). A costo di apparire Cassandra, come spesso accade agli economisti che discutono della situazione economica del nostro Paese, i dati dell’Istat sono meno positivi di quanto non possa sembrare. Vi sono pochi dubbi che la ripresa, ammesso che sia iniziata, rimanga debole e fragile. E certo, meglio che niente, ma uno 0.1%, o 0,3% che dir si voglia, non ha un gran potere taumaturgico di per sé.
Da “Occupazione,
la ripresa sarà lenta” di Paolo Onofri, sul settimanale “Affari&Finanza”
del 22 di febbraio 2015: (…). La svolta nell’attività economica che
s’intravede nel corso di quest’anno per il nostro paese, non necessariamente
potrà portare frutti rilevanti per la disoccupazione, ma non solamente perché
prima di riprendere ad assumere in termini netti il sistema economico deve
riassorbire le persone in Cassa Integrazione. Va anche messo nel conto che le
ristrutturazioni in corso comportano miglioramenti della produttività che
risparmiano lavoro e difficilmente ci si può attendere che la domanda possa
rapidamente crescere in misura tale da recuperare in termini di livello di
produzione quell’occupazione che si perde per il miglioramento della
produttività. La ripresa comporterà anche riallocazioni produttive da un
settore all’altro, ma le vischiosità saranno elevate. Non sempre i nuovi posti
di lavoro richiederanno le stesse competenze di chi il lavoro l’ha perso e
magari da più di un anno. Difficilmente, ad esempio, il settore delle
costruzioni potrà ritornare ai livelli di occupazione pre-crisi e chi ha perso
il lavoro in quel settore potrebbe avere minori possibilità di trovarlo in
settori più dinamici. Man mano che il tempo trascorre, più difficile sarà per i
disoccupati di lunga durata trovare un nuovo lavoro e ciò sarà aggravato nei
casi di bassi livelli di scolarità. La disoccupazione di lunga durata che ora
osserviamo è costituita per più della metà da lavoratori in età matura, ma
anche il numero dei disoccupati tra i 15 e i 24 anni, che apparirebbe non
preoccupante se misurato in termini di popolazione nella stessa età (l’11 per
cento, contro il 10 medio dell’Europa), lo diventa se si considera che chi non
si offre sul mercato del lavoro non frequenta nemmeno le aule scolastiche o
universitarie in una misura decisamente divergente da quella europea. In parte
è ciò che sta succedendo negli Stati Uniti, la ripresa è in corso dal giugno
2009, ma solo nell’ottobre del 2014 ha celebrato il sorpasso del numero di
occupati che aveva a novembre del 2007, sette anni prima. Non è tutto: dopo il
giugno 2009 l’occupazione ha continuato a ridursi per altri sei mesi. (…). …migliore
è stata in questi anni la performance del tasso di disoccupazione a causa della
riduzione dell’offerta di lavoro. A prima vista, l’andamento del mercato del
lavoro americano non consente di alimentare eccessive speranze per la
situazione prospettica dell’occupazione italiana, ma va anche considerato che
l’economia italiana, a differenza degli Usa, ha avuto sei anni di tempo e due
recessioni per mettere in atto le ristrutturazioni. E’ per questa ragione che,
ad esempio, Prometeia prevede che nel 2018 in Italia avremo recuperato la metà
dei nove punti di Pil persi tra il 2007 e il 2014 e che a parità di regole del
mercato del lavoro, del milione di posti di lavoro perduti tra il 2007 e il
2014, probabilmente, ne saranno stati recuperati quasi la metà, ma la
disoccupazione, nel nostro caso, sarà scesa solamente all’11 per cento. Sarà
possibile fare meglio? (…). Molto dipenderà dalle nuove regole del mercato del
lavoro. Poiché l’esperienza degli anni novanta suggerisce che nuove regole
richiedono tempo per ingranare e dare risultati apprezzabili, sarà importante
l’interazione sinergica tra le nuove regole del mercato del lavoro, gli sgravi
fiscali sull’occupazione a tempo indeterminato e lo svecchiamento dei processi
di formazione dei disoccupati.
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