Scriveva Antonio Gramsci in una Sua lettera del 9
di febbraio dell’anno 1924 – riportata in “La
formazione del gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano” di Palmiro
Togliatti (pagg. 196-197) -: Nei paesi a capitalismo avanzato, (…), la
classe dominante possiede delle riserve politiche e organizzative che non
possedeva per esempio in Russia. Ciò significa che anche le crisi economiche
gravissime non hanno immediate ripercussioni nel campo politico. La politica è
sempre in ritardo e in grande ritardo sull’economia. Un vaticinio dinnanzi
allo squagliarsi della politica a fronte di una crisi economica che è divenuta planetaria
gli esiti della quale non si intravvedono ancora. E sì che di guru se ne sono
susseguiti a bizzeffe che intravvedevano “luci in fondo al tunnel” e quant’altre
amenità che si sono dissolte con un niente dinnanzi ad una “crisi” per la quale
non servono gli artefizi finanziari per venirne a capo. Ora dato per scontato
che una certa parte politica sia da vedere schierata tout-court con l’esistente,
ciò che colpisce è la cecità e la mancata azione di contrasto da parte di
quella politica che avrebbe dovuto fronteggiare l’esistente per arginarne l’azione
dirompente e distruttiva di risorse economico-finanziarie a tutto vantaggio
della speculazione più selvaggia ed a-morale. Chiude il Suo reportage - “Waal
Street. Tornano i lupi” – pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 26 di
maggio scorso Federico Rampini con questa osservazione: I lupi sono tranquilli, hanno
dalla loro un ceto politico acquiescente, e un mondo del risparmio
anestetizzato dai rialzi delle Borse. Fino al prossimo... incidente di
percorso.
Ecco, io affermerei non trattarsi di un “ritorno
dei lupi” nella fossa di Wall Strett. I “lupi” non hanno mai abbandonato tutte
quelle postazioni di dominio e di comando che consentano loro di controllare innanzitutto
la “politica”. Senza il superamento della “politica” acquiescente, di questa
politica senza identità, senza cultura, senza idealità e senza progetti, l’uscita
dalla “crisi” è una mera utopia. Poiché, mentre la crisi ha impoverito il
grosso del ceto medio, in pari tempo ha aggredito l’istituto del “ welfare
state” facendone pagare le più gravi conseguenze proprio a quei ceti meno
abbienti ai quali la politica, ovvero la politica delle opportunità sociali,
della equa distribuzione della ricchezza prodotta, insomma quella politica
sedicente di sinistra, avrebbe dovuto offrire la massima delle attenzioni
contrastando la deriva economicistico-finanziaria del capitalismo. Niente di
tutto ciò, mentre per quelli dell’altra sponda nulla è cambiato, anzi hanno
irrobustito ricchezze e privilegi di ogni sorta. Scrive infatti Federico
Rampini: Sono tornati i lupi a Wall Street. Impuniti, feroci, avidi come in
passato. Non deve ingannare l'apparenza, il ripetersi delle maxisanzioni, multe
pesantissime. L'ultima è della scorsa settimana, ben 5,6 miliardi di dollari. È
il castigo inflitto dal Dipartimento di Giustizia americano a cinque banche,
ree confesse: manipolavano nientemeno che il mercato dei cambi, uno dei più
grandi per volumi d'affari, dove ogni giorno avvengono transazioni per oltre
5.000 miliardi. Avevano formato The Cartel, proprio così, si auto-definivano spudoratamente
un cartello oligopolistico, nelle chatroom in cui i trader orchestravano
movimenti sulle valute. JP Morgan Chase, Citigroup, Barclays, Royal Bank of
Scotland, le più grandi d'America e d'Inghilterra, più la svizzera Ubs (che ha
avuto uno sconto di pena per aver "spifferato" per prima le dritte
giuste agli inquirenti) erano i membri del club banditesco. Ma non c'è da farsi
illusioni. Queste multe non cambiano nulla. Del resto sono solo l'ultima rata
di un conto che all'apparenza sembra pesante: 60 miliardi di sanzioni
pecuniarie inflitte solo nell'ultimo biennio dal Dipartimento di Giustizia e da
altre authority di vigilanza americane. Per reati connessi al mercato dei
mutui, ai tassi d'interesse, alle transazioni di Borsa. Sessanta miliardi sembrano
un conto da far tremare, di che rieducare un'intera casta di banchieri. Invece
no. Il punto debole sta proprio in quella definizione: "sanzioni
pecuniarie". Chi le paga? Non i banchieri ma le banche. Che poi spalmano
il costo delle multe nei loro bilanci. A pagare sono gli azionisti, e poi in
ultima istanza i clienti attraverso rialzi di commissioni, tariffe, balzelli e
prelievi vari. È già successo, per esempio dopo il maxi-scandalo della
manipolazione del tasso Libor. Ecco perché i lupi di Wall Street non sono
affatto pentiti né redenti dei loro peccati. (…). Ci sono top manager delle
banche, capi degli hedge fund, trader che operano sui mercati. (…). Tra coloro
che guadagnano più di mezzo milione di dollari all'anno, un terzo ammette di
"avere un'esperienza diretta di reati e infrazioni commessi sul
lavoro". Uno su cinque confessa di averli perpetrati lui, quei
comportamenti illeciti, e si giustifica in questi termini: "Condurre
attività illegali è talvolta necessario per avere successo nel contesto della
finanza attuale". Uno su dieci si dice "costretto" a violare la
legge. In quanto agli sceriffi di Wall Street? Vengono giudicati
"inefficaci nello scoprire e perseguire le violazioni". Non fanno
paura a nessuno, insomma, nonostante quei 60 miliardi di multe. (…). …la
maggior parte delle inchieste sui lupi di Wall Street si chiudono in sede
civile, col patteggiamento. L'incasso è notevole, il gettito per il Tesoro è
sostanziale, i risultati arrivano a una velocità lampo. Ma ben altro è il
bilancio sull'efficacia di lungo periodo. Non si taglia il pelo ai lupi, finché
questi pagano le multe coi soldi degli altri. Non un solo banchiere finito
dietro le sbarre: è la constatazione oggettiva di un fallimento, dalla crisi
del 2008 a oggi. (…). Questo rinvia al problema delle compensazioni. Un altro
fronte dove la crisi non ha insegnato proprio nulla. Prendiamo il caso del
banchiere più potente d'America e del mondo. Per capitalizzazione di Borsa, non
c'è dubbio che sia lui: Jamie Dimon, il chief executive di JP Morgan Chase. Il
suo ultimo pacchetto di compensazioni, annunciato il 19 maggio, eccolo qua: uno
stipendio di 1,5 milioni di dollari, più azioni-premio per un valore di 11,1
milioni, più un bonus o gratifica per 7,4 milioni. Totale 20 milioni. Per
premiarlo di che cosa, esattamente? Va notato che questo generoso emolumento
coincide con lo stesso esercizio di bilancio nel quale JP Morgan Chase è stata
condannata per la grave evidenza della "balena di Londra", un
episodio di speculazione illecita sui derivati, in totale spregio della nuova
normativa americana. (…). Perché mai questo re di tutti i lupi dovrebbe perdere
il vizio? I lupi non sono solo banchieri. La paga di tutti i chief executive
americani è cresciuta mediamente del 12% all'anno dalla fine della crisi,
mentre quella dei loro dipendenti ristagna. Una delle grandi delusioni viene
dall'apparente passività degli azionisti. La grande riforma della finanza
voluta da Barack Obama e votata dal Congresso nel 2010, la legge Dodd-Frank,
richiede che le assemblee degli azionisti vengano consultate sulle paghe dei
top manager. A parte il fatto che il loro parere è consultivo, non vincolante,
comunque sono rari i casi in cui un'assemblea ha bocciato i super-bonus ai top
manager. Nel caso di Dimon, il suo generoso emolumento ha ricevuto il 61% di
voti favorevoli. Perché gli azionisti avallano l'avidità e i comportamenti
rapaci dei lupi di Wall Street? Una delle risposte è che la Borsa sale da 6
anni, gli indici azionari hanno battuto tutti i record storici. Sia il Dow
Jones, sia lo Standard&Poor's500, sia il Nasdaq, veleggiano ai massimi
storici. Gli azionisti dunque ci vedono un tornaconto. Guai a disturbare il
manovratore, finché garantisce che la ricchezza degli investitori continui a
rivalutarsi. In questo clima, altre cattive sorprese sono in serbo. Al
Congresso, da quando i repubblicani hanno la maggioranza in tutt'e due le
Camere, stanno montando un'offensiva per depotenziare ulteriormente la legge
Dodd-Frank. (…).Per venire poi alle cose di casa nostra dove l’antipolitica,
che è al potere, agisce per nome di una setta economico-finanziaria che
definire inadeguata – basti pensare a quel “pensatoio” di tecnici chiamato a
dipanare la matassa e vien da ridere – è forse del tutto improprio. Irresponsabili
starebbe meglio. Ma come chiedere responsabilità ad una setta di inadeguati
allorquando la politica latita ed anzi ne è corriva? La mancanza di un’azione
di contrasto e di orientamento della politica sortisce gli effetti che Federico
Fubini ha bene illustrato il 16 di febbraio scorso sul settimanale “Affari&Finanza”
nell’editoriale che ha per titolo “Chi
paga il salvagente per le banche del paese”: (…). Martedì scorso (10
di febbraio 2015 n.d.r.) Intesa Sanpaolo ha fatto sapere che porterà
praticamente tutto l’utile del 2014 a dividendo per gli azionisti, meno di due
settimane dopo che la Banca centrale europea aveva chiesto «prudenza» nella
distribuzione delle cedole in queste condizioni così difficili per l’economia.
Unicredit ha visto i suoi livelli di capitale intaccati dalla crisi
russo-ucraina, un’area dove ha una forte presenza, e dal crollo del rublo. Il
Banco Popolare e Mps hanno affondato il bisturi nelle rettifiche del valore sui
loro prestiti, per un totale cumulato di quasi 10 miliardi. Banca Etruria è
stata commissariata dalla Banca d’Italia: unico istituto quotato, ma in
compagnia di altri quindici attualmente sotto la custodia delle autorità. E la
procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta con indagati di alto profilo, incluso
il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli,
per presunta manipolazione delle deleghe dei soci in assemblea. (…). Intesa
sembra aver ascoltato più le richieste delle fondazioni azioniste che quelle
del suo nuovo regolatore di Francoforte, ma ha livelli di capitale molto
robusti nel confronto europeo. Unicredit è vittima di quello che alla lunga
resterà un suo punto di forza, la capacità di crescere all’estero. E il Banco
Popolare e Mps hanno compiuto un atto dovuto da quando gli esami dell’Eurotower
hanno rivisto al ribasso la qualità del loro capitale. Resta però un problema
di fondo, comunque ai forti e ai deboli. Questo sistema bancario così in
chiaroscuro sta per essere oggetto della più delicata riforma di Matteo Renzi:
un ingranaggio costruito per assorbire a prezzi scontati dalle banche i crediti
inesigibili o quelli di debitori in difficoltà, con la rete di sicurezza di
garanzie pubbliche se quei prestiti produrranno ancora nuove perdite. Il
governo ha deciso di non chiamarla «bad bank», ma la sostanza non cambia. (…). Se
l’aiuto di Stato sarà troppo mirato su singole banche, la nuova legge europea
imporrà che i loro azionisti e obbligazionisti debbano subire delle perdite. Ma
se le banche saranno aiutate dallo Stato senza che sia loro imposta alcuna condizione,
come invece fece il Tesoro Usa quando nel 2008 entrò negli istituti di Wall
Street bloccando i bonus e esigendo dividendi a favore del contribuente, non
sarà solo Bruxelles a non capire. Saranno gli italiani. Ma gli italiani
hanno piena consapevolezza del ritorno di questi “lupi” che agiscono
indisturbati ed all’ombra della politica sonnacchiosa in tutti gli angoli del
pianeta chiamato Terra e non solo a Waal Street?
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