Da “Renzi ha
finito le metafore, aiuto” di Daniela Ranieri, su “il Fatto Quotidiano” del
29 di novembre dell’anno 2014: (…). Ma adesso qualcuno comincia a
sospettare che l’abuso di metafore sia un’abile strategia per mascherare la
mancanza di strategie. Matteo ha unito un naturale istinto affabulatorio a un
uso bellico, di sfondamento, della supercazzola di Monicelli. Nativo televisivo
coi riflessi da Ruota della fortuna, ha mostrato la sua marcia in più rispetto
al più grande inventore di sineddochi e di racconti paralleli al vero della storia
italiana (quello de “i ristoranti sono tutti pieni”) portando alla ribalta un
linguaggio inaudito, fresco, tutto giochi di parole e rime spassose.
Intelligenza rapida, talento da battutista, propensione alla vanagloria: gli
ingredienti c’erano tutti per fare di uno scalatore da sezione di provincia il
narratore di una nuova nazione, fuori dalla gora della crisi e dei tecnicismi
fallimentari. Ed è nato Matteo Renzi: a metà tra il cazzaro da Bar dello Sport
e il grande statista, lui stesso metafora vivente (ultima spiaggia,
rottamatore), Matteo ha pescato nei simboli più potenti dell’immaginario
nazionale una caterva di metafore efficaci, mediaticamente pro-attive,
familiari e gagliarde, per forma e lunghezza destinate a finire nei titoli dei
giornali e nei 140 caratteri di Twitter. E ha funzionato, finora. Dài Matteo,
facce ’n’altra metafora. (…).
Schiacciato tra i conti di Bruxelles e
l’apocalisse annunciata delle dimissioni di Napolitano, ha perso le parole,
perché le sue parole così festosamente vuote si rivelano inservibili di fronte
alle difficoltà. Nella manovra di effrazione del Pd e di costruzione di un sé
vitalista, anti-intellettualista, visionario, Matteo pensava alla “nuova
frontiera” di Kennedy e al “sogno” di Martin Luther King, potenti simboli di un
afflato comunitario, ma rischia di replicare la “gioiosa macchina da guerra” di
Occhetto, grottesca metafora di una sinistra sempre più distante dal suo
popolo, e di riprodurre, contratta, la parabola di Craxi delimitata dalle due
famose metafore, quella felliniana de La nave va (1983) e quella autolesionista
del “poker” che diceva di avere in mano per screditare Di Pietro (1993). (…). Ha
rottamato il giaguaro e il tacchino di Bersani, che non erano metafore ma
proverbi il cui limite era quello di evocare un mondo à la Pellizza da Volpedo
che non esiste più, con la bocciofila, la cascina, l’osteria, la bottega, come
disse Miguel Gotor. Ha irriso al grigiore di Letta, che non usava metafore e
dimostrò la sua concretezza in extremis demolendo indocilmente il rito
metaforico della campanella. Ha doppiato B., che faceva leva su elementi reali
come l’invidia sociale nella costruzione di una realtà parallela, e che oggi,
occupato nei suoi tristi casting per trovare un clone di Matteo, insegue il suo
epigono proprio sul piano metaforico (“Salvini è un goleador”), destando la
pietà generale. (…). Le regionali hanno mostrato il ritratto del vero volto di
un bellissimo Dorian Gray: smantellamento dello Statuto dei lavoratori, stasi
delle Riforme e svuotamento della democrazia. Perché la comunicazione
impressionistica a un certo punto non comunica più; si satura nutrendosi di se
stessa e si svuota di significato politico. Perseverare nel puro racconto
fantasioso si rivela prima o poi per quello che è: una manifestazione di narcisismo
infantile o, peggio, di inadeguatezza cialtrona. E dopo il popolo della
sinistra se ne accorgerà anche l'audience plaudente, pronta, col dito sul
telecomando, a decretare la morte mediatica di chi un attimo prima l'aveva
appassionata.
Da “Finalmente
Renzi ha un nemico. Il cielo ci ha regalato Salvini” di Alessandro
Robecchi, su “il Fatto quotidiano” del 3 di dicembre dell’anno 2014: (…). Il
disegno è presto detto: un grande partito al centro, il Pd, capace di
rastrellare voti dispersi e confusi dalla destra berlusconiana, qualcosa di
piccolo a sinistra (forse, se, chissà), e una forza a destra con le
caratteristiche della destra senza più centro. Uno schema abbastanza
prevedibile, e può darsi che funzioni. In più, un vero fenomeno della natura:
la strabiliante capacità degli italiani di dimenticare tutto molto in fretta. (…).
Ecco l’inedito: uno scontro ideologico tra due forze che ad ogni passo si
dichiarano post-ideologiche. Uno scontro di idee senza impianti ideali, due
cinismi che si fronteggiano. E pure con uno schema analogo, quello di far ricadere
sui più deboli scelte, propaganda e strategie. Il mondo del lavoro dipendente
in sofferenza accusato di essere “privilegiato” dalla parte renziana, e il
mondo degli ultimi, immigrati, Rom, rifugiati, capri espiatori perfetti della
crisi come da tradizione delle destre nazionaliste europee. Grosse distanze tra
i due mondi, certo. Eppure anche una grande similitudine: la crisi la
pagheranno i deboli: i lavoratori vecchi e conservatori per il Pd, aggrappati
ai loro diritti come a un salvagente in mare aperto, immigrati e minoranze
etniche per la Lega salviniana. Sarà battaglia, e nei fumi della battaglia
nessuno dei due eserciti penserà al grandi patrimoni, alle rendite, a un
capitalismo finanziario che ci ha portato fin qui, alla finanza che guadagna senza
creare lavoro, in parole povere alle caratteristiche strutturali di un’economia
liberista distorta e rapinatrice. Due guerre tra poveri di diverso segno, di
diversa provenienza, di diverso spessore. E i poteri veri, intanto, non li
sfiora nessuno.
Da “Ti piace
vincere facile? Basta scegliersi l’avversario” di Alessandro Robecchi, su “il
Fatto Quotidiano” del 10 di giugno 2015: Tra i migliori trucchi per vincere, in
qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile:
basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. (…).
Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica
opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con
sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di
scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva
l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo
del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa. E’ una
buona mossa, soltanto un po’ rischiosa. Intanto perché vista la rapidità con
cui Renzi perde pezzi di elettorato le cose possono cambiare velocemente (si
veda l’ingresso al Nazzareno dalla porta posteriore, essendo quella principale
presidiata da ex elettori infuriati, insegnanti nella fattispecie). E poi
perché per indicare un avversario bisogna in qualche modo mettersi sul suo
piano, accettarne almeno il gioco, sfidarlo sullo stesso campo. Si ricorda per
esempio en passant che mentre il Salvini gigioneggia in giro parlando di ruspe
e pogrom, le ruspe sono state usate a Roma, alla favela di Ponte Mammolo, per
cacciare senza preavviso gente che ci abitava da anni, senza soluzioni
alternative accettabili. Risultato: in una città dove si discute fittamente se
gli affari sulla pelle dei migranti si possano o no chiamare “mafia” (una mafia
decisamente bipartisan, tra fascisti conclamati, coop rosse e esponenti Pd),
c’è ancora gente che dorme per strada davanti alla sua baracca spianata dalle
ruspe. Eroiche associazione di volontari e persone civili chiedono aiuto sui
social: servono medicine, cibo, acqua, carta igienica. Qualche tenda l’ha
fornita una nota (e a questo punto: meritoria) catena di articoli sportivi,
mentre le istituzioni si accapigliano sui giornali a proposito di inchieste e
mandati di cattura. Il salvinismo teorico di Salvini, insomma, si contrappone a
un salvinismo reale, che le ruspe le usa davvero, ma si circonda di una
narrazione umanitaria, confortevole pietosa. C’è chi dice che l’onnipresenza di
Salvini in tivù (è quello, non il brillante eloquio da seconda media, che gli
procura consensi) sia incoraggiata e agevolata proprio a questo scopo:
trasformare una dialettica politica complessa in un derby tra buoni e cattivi,
o almeno tra peggio e meno peggio. E’ una dietrologia complottista e quindi non
le daremo peso. Ma è certo che anche i media tifano per quella soluzione da
pensiero binario: o il Matteo buono (?) o il Matteo cattivo (!), e non ci sarà
altra scelta. Sanno tutti che non è così, ma per il momento la cosa sembra
funzionare: è una semplificazione, una caricatura, uno schema facile, e dunque
– in tempi di distrazione di massa – conveniente. Il giochetto non durerà a
lungo: tra uno che straparla di ruspe e uno che dice “Ok, discutiamo” puntando
la pistola, sarà inevitabile una qualche terza via. Perché il trucchetto di
scegliersi il nemico ha questa controindicazione: qualcuno potrebbe pensare che
sono nemici entrambi, e finiscono per somigliarsi.
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