
Da “Una carta di credito per sognare” di Vittorio Zucconi, sul settimanale “D” dell’11 di aprile 2015: Passata la grande paura della crisi, negli Stati Uniti torna il vizio del debito facile. (…). I carissimi vicepresidenti della Megaultrafinanziarie stanno scrivendo ai polli, alle "famiglie", per convincerli ancora una volta a riempirsi di debiti che non riusciranno a saldare, ma che rimborseranno a rate infinite soltanto di interessi, confondendo ancora una volta il debito per reddito. (…). Spendi, figliolo, spendi, mi sussurrano all'orecchio le banche. Cadi nella trappola del miele che una strisciatina della nostra tesserina di plastica, o adesso anche il semplice avvicinamento degli smarphone alla cassa per indebitarti ancora più in fretta, ti spalancano. Offrono cinque camicie al prezzo di quattro, come resistere a un simile "risparmio"? C'è una meravigliosa crociera scontata (ma scontata rispetto a che cosa?) nel mare del Caribe che pagherai al ritorno, ora divertiti. Tua moglie, la tua compagna, tuo marito, non vedono più una borsa firmata, un paio di scarpe di classe, un pullover di vero cachemire dagli anni dello sfracello: ora te le puoi permettere, via, non fare l'accattone. Ci sono qui io, il tuo amico di lettera, con il borsellino spalancato. Ogni resistenza è futile, perché se spalmi il miele, le mosche arriveranno. Dopo la frenata degli anni successivi alla Grande Strizza del 2008, il debito dei consumatori americani, dunque mutui esclusi, ha ricominciato a gonfiarsi. In questa primavera del 2015 ha raggiunto la cifra siderale di 3mila miliardi di dollari, pari di fatto a 3mila miliardi di euro. Sono più dell'intero debito pubblico italiano, e mille di quei miliardi sono figli del rettangolino di plastica. Dalla prima carta emessa su cartoncino dalla società dei telegrafi Western Union nel 1921 per inviare telegrammi a credito siamo ai 232 milioni di oggi. In ogni famiglia ci sono in media tre carte di credito e spesso una viene usata per pagare le rate delle altre, creando un effetto risucchio di debiti per saldare debiti dal quale molti non riescono a riaffiorare. (…). La cura, in apparenza, è semplice. Mai acquistare con il rettangolino di plastica quello che alla fine del mese non siamo in grado di saldare interamente. Ma la tentazione è enorme. Perché non indebitarmi, se posso? (…).
Da “Sorpresa:
l’Economist scopre il debito privato” di Alberto Bagnai, su “il Fatto
Quotidiano” del 20 di maggio 2015: (…). Un dato in particolare balza
all’occhio: settore pubblico e famiglie contano per quasi due terzi del totale
del debito (negli Usa come nel resto del mondo). (…). …negli Stati Uniti, e in
generale nel mondo, il settore pubblico emette meno di un terzo del debito
complessivo. I restanti due sono debito privato, emesso da famiglie e imprese.
Ma voi, di debito privato, sentite mai parlare? No: sentite parlare solo di
debito pubblico, causato dalla propensione allo scialacquo dei politici (tutti
ladri, tutti disonesti, ecc.). Una spiegazione populista (parla alla pancia
dell’elettore facendo leva sulla sua invidia sociale) e parziale, perché
dimentica i due terzi del problema! (…). …Adair Turner (ex presidente della
Consob inglese) sostiene che il debito è “amplificato” dalla disuguaglianza. Un
grazioso eufemismo che allude alla vera causa del problema. La
controrivoluzione liberista dei primi anni 80, con l’avvento al potere di
Reagan e Thatcher, si traduce ovunque in uno schiacciamento dei redditi da
lavoro a vantaggio dei profitti. Ma il capitalismo funziona se qualcuno compra.
Il singolo imprenditore che riduce il “costo del lavoro”, cioè che paga di meno
il suo operaio, ha vinto: i suoi profitti aumentano. Peccato che poi lo
facciano anche i suoi colleghi, e alla fine perdono tutti: nel sistema
circolano meno soldi, i fatturati crollano, e con loro i profitti. Come
argomento ne L’Italia può farcela, la controrivoluzione liberista segna appunto
il passaggio da un capitalismo “guidato dai salari”, dove il dipendente è visto
come cliente (come lo vedeva Henry Ford, per capirci), a un capitalismo
“guidato dal debito”, dove il dipendente è costretto a indebitarsi per
sopravvivere. La causa del decollo del debito (prima pubblico, poi privato) è
qui: nella necessità di sostenere l’acquisto di beni in un capitalismo che non
vuole distribuire ai lavoratori un potere di acquisto proporzionato al valore
aggiunto che essi hanno contribuito a creare. Una cosa è chiara dai dati:
l’ammontare dell’esposizione debitoria complessiva ha raggiunto, in rapporto al
Pil, un livello pari a quello toccato prima dell’ultima guerra. Storicamente,
le crisi debitorie si risolvono in tre modi: con la bancarotta, con
l’iperinflazione, o con la crescita, che mette i debitori in condizione di
saldare i debiti. I creditori, però, preferiscono la disoccupazione e la
deflazione, che mantengono intatto il valore dei loro crediti. Così,
nell’Eurozona a guida tedesca, i governi percorrono la strada dell’austerità,
prendendo a pretesto la necessità di sanare quel debito pubblico che però, (…),
è il pezzo più piccolo del problema. L’austerità amplifica il vero problema:
oppresse dai tagli e dalle imposte, famiglie e imprese vanno in sofferenza. Non
è quindi strano che dopo tanta austerità siamo indebitati più di prima. È già
successo. Brüning, dopo aver posto con la sua austerità le premesse per
l’ascesa di Hitler, se ne andò a insegnare a Harvard, e poi, per trent’anni, fu
possibile vivere in un mondo in cui il lavoro veniva remunerato correttamente e
il debito diminuiva. Ah, sì, dimenticavo: fra l’austerità e la cattedra a
Harvard ci fu una guerra mondiale. Ottanta milioni di morti che suggerirono ai
governanti un minimo di ragionevolezza. Ce ne sarà bisogno anche questa volta?
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