È bastato l’incipit della riflessione
proposta dal professor Umberto Galimberti sul settimanale “D” del 15 di marzo
ultimo per far emergere pensieri e ricordi che parevano essere stati sepolti
negli strati più profondi della mia memoria. Ha scritto l’illustre studioso
nella sua riflessione che ha per titolo “A
che cosa serve avere un Dio”: Più che discutere sull'esistenza o meno di
un essere supremo, conviene chiedersi se credere nella sua esistenza è di aiuto
o non è di aiuto alla vita, sempre esposta alla precarietà, afflitta dal
dolore, terrorizzata dalla morte. Sin qui quel folgorante incipit. Non so
di Voi, ma è accaduto a me qualcosa che trovavo inspiegabile. Maturando negli
anni, attenuandosi sempre di più illusioni e speranze mi sono ritrovato ad un
certo punto del mio cammino a compiere quella svolta dalla quale tutto il resto
ne è derivato. Dico che, educato ad una confessione religiosa che nel bel paese
va per la maggiore, giunto alla comprensione sempre più matura dei fatti e
degli avvenimenti della Storia, quell’abbraccio non scelto ma familiarmente tramandato
mi è parso d’improvviso come che mi impedisse un più libero respirare del mio
pensiero. Ed avvenne così che, già adolescente avanzato, ruppi quei legami che
mi avevano tenuto ancorato ad una struttura ecclesiale ed a tutta quella
creazione di ritualità che d’improvviso mi sembrarono vuote e financo
opprimenti. Ma la cosa più straordinaria è stata che quel distacco ricercato da
quella religione fattasi chiesa ha comportato un distacco dalla figura
principale di quella creazione confessionale, ovvero di quel Dio per il quale
da quel momento in poi non ho ricercato più contatto alcuno.
Continua il
professor Galimberti nella Sua riflessione: Quello che penso io di Dio
equivale a quello che pensa chiunque, perché in materia di fede è inutile
disputare. La fede, infatti, non è la scienza che dà risposte esatte,
verificate e valide per tutti. La fede è una richiesta del cuore che cerca:
protezione per la precarietà della nostra esistenza, consolazione per il dolore
che ci affligge, rifiuto di fronte all'ineluttabilità della morte. Quando chi
crede adduce a giustificazione della propria fede il fatto che da quando l'uomo
è comparso sulla terra ha invocato l'aiuto di potenze superiori, altro non dice
che l'uomo, da quando è comparso sulla terra, ha avvertito che la sua esistenza
è precaria, il suo dolore difficile da reggere, la morte insopportabile. Su
questa base sono nate le religioni, che garantivano una protezione dall'alto a
chi si fosse attenuto alle norme etiche che esse prescrivevano. E siccome il
bisogno di protezione era più forte del sacrificio che le prescrizioni morali
richiedevano, in ogni comunità umana si affermò un'etica che aveva nel volere
di Dio o degli déi il suo fondamento. L'affermazione dell'etica fu di grande
giovamento per l'umanità che, in questo modo, passò dallo stato selvaggio a
forme comunitarie che si reggevano su regole condivise perché garantite da un
ordine superiore. È stato a questo punto poi della lettura che il
proseguire mi è stato quasi impossibile. Poiché di quella necessità di un Dio,
che pur avevo sentito nei miei anni più giovanili, ho iniziato nella mia età
più matura a diffidare in quanto mi veniva da pensare quante sofferenze siano
state imposte, nella lunga storia del genere umano, in nome di un qualsivoglia
Dio. E come la creazione di un dio nei gruppi degli umani abbia di fatto comportato
non già “l'affermazione dell'etica”, quanto l’affermazione di quel
settarismo che ha nel profondo caratterizzato la storia e la vita degli umani
sino ai giorni nostri correnti. A conforto del mio personale travaglio è stata
la lettura più recente – del 28 di giugno – di uno straordinario “pezzo” a
firma di Massimo Fini che ha per titolo “Se il Bene porta guerre, allora
preferisco il Male”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”: Nell’orgia
di retorica seguita alla scomunica dei mafiosi, del tutto priva di significato
nella sua genericità, è passata inosservata una frase di Papa Bergoglio: «Chi
non adora Dio di conseguenza adora il Male». Frase di una gravità inaudita che
non può essere «voce dal sen fuggita» perché detta da uno che sa, o dovrebbe
sapere, quel che dice. Io non adoro Dio, semplicemente non credo alla sua
esistenza. Ma se mai ci credessi penserei che è un sadico perché ha creato
l’uomo, l’unico essere vivente ad avere una lucida consapevolezza della propria
fine. Un essere tragico. «La sola scusante di Dio è di non esistere» ha scritto
Baudelaire. Ed è la cosa più misericordiosa che si possa dire nei confronti di
questo Soggetto. (…). …questi adoratori di Dio, soprattutto del Dio monoteista,
sia esso ebreo, cristiano o musulmano, (…) dimenticano con troppa disinvoltura
le infamie di cui si sono coperti. Gli ebrei con la pretesa di essere «il
popolo eletto da Dio» hanno fondato quel razzismo di cui in seguito diverranno
tragicamente vittime. Ma almeno non hanno mai avuto mire espansive. In quanto
agli altri due ‘adoratori del Dio unico’ hanno distrutto, al seguito dei propri
eserciti, intere popolazioni e culture, più miti, da quelle dell’America
precolombiana a quelle dell’Africa centrale. Prima che, nel 1789, entrasse in
campo un altro Dio, questa volta laico, anzi una Dea, la Dea Ragione, le guerre
di religione sono state le più spietate. Il Medioevo europeo era cristiano ma
essendo la grande maggioranza della popolazione contadina, oserei dire che,
nella gente comune, era un cristianesimo che tendeva al pagano, all’animismo,
un po’ come per le popolazioni dell’Africa nera. Le guerre le facevano i professionisti,
i cavalieri. Ma furono guerre ridicole. (…). …è assodato che il bilancio di
quasi tutti i conflitti medioevali si riduce a poche centinaia di morti. C’è
però un’eccezione, il 1500, il ‘secolo di ferro’ caratterizzato dalle guerre di
religione. Nella sola ‘notte di San Bartolomeo’ (1572) furono uccisi 20 mila
ugonotti. E ce ne vuole di ferocia per fare un tale massacro all’arma bianca.
Ma è solo un esempio, fra i tanti. (…). È forse stata la consapevolezza
di questa tragica storia che ha indotto in me non solo un distacco da quella
religione fattasi chiesa e potere temporale, ma anche da quel Dio nel nome del
quale i tiranni d’ogni tempo benedivano le loro armi e gli stuoli di sterminatori
di altri figli di un dio ritenuto minore all’uopo arruolati. Continua la
riflessione del professo Galimberti: Se questa è l'origine della fede in Dio e
della morale che ne deriva, è inutile discutere sulla validità delle prove
razionali che ritengono di poter dimostrare l'esistenza di Dio, perché a
promuovere questa fede non è la ragione, ma un'esigenza del cuore, che ha
bisogno di essere rassicurato nell'inquietudine della sua esistenza, consolato
nell'afflizione del dolore, rassicurato di fronte all'angoscia della morte. Se
avessimo la capacità di distinguere i problemi razionali che la filosofia e la
scienza, con modalità differenti, sanno comunque risolvere da sé, dai problemi
esistenziali che non trovano conforto e neppure soluzioni con gli strumenti
della ragione, non ci sarebbero dispute tra ragione e fede, né inutili
tentativi di trovare una conciliazione tra le procedure della ragione e le
credenze a cui aderisce la fede. (…). …io non mi chiedo se Dio esiste o no, ma
piuttosto, come è venuta al mondo l'idea di Dio? Quale bisogno, quale esigenza,
quale necessità l'ha generata? Perché le idee che nascono nella storia e non si
estinguono nella successione dei secoli, devono avere un solido fondamento e
soprattutto essere di grande utilità, affinché la specie umana possa
sopravvivere e non estinguersi quando la precarietà dell'esistenza angoscia, il
dolore non trova conforto né consolazione, e la prospettiva della morte, oltre
ad atterrire, fa apparire vana ogni iniziativa, ogni impresa, ogni costruzione
umana. Una prova di quanto sto dicendo è costituito dal fatto che man mano che
la scienza e la tecnica, almeno in Occidente, hanno ridotto la precarietà
dell'esistenza e l'ineluttabilità del dolore, la fede in Dio ha trovato sempre
meno seguaci, e la morale che da Dio discendeva ha trovato la sua
riformulazione nel diritto, dove le regole, di cui nessuna comunità può fare a
meno, trovano fondamento nella legge che una comunità sa darsi da sé. A questo
punto resta il problema della morte e dell'angoscia che accompagna questo
pensiero, a cui né la scienza né la tecnica sanno indicare un rimedio. C'è
allora chi si consegna al suo destino mortale, e chi proprio non riesce ad
accettarlo. In questo caso il soccorso giunge dalla religione che promette una
vita eterna oltre la vita terrena. E se questa fede aiuta a vivere chi proprio
non ce la fa a rassegnarsi all'idea della morte, perché impedirla o confutarla?
Il problema, infatti, non è stabilire cosa è vero e cosa è falso, ma cosa
sostiene e conforta la vita e cosa la deprime e alla fine la spegne. Dell’insensatezza
nel credere che un Dio sia un Dio più vero e migliore degli altri e per questo sol
fatto ergersi ad esecutori di altri esseri umani ne ha scritto Guido Ceronetti
in “A chi appartiene il nome di Dio”
apparso sul quotidiano la Repubblica del 24 di giugno: “Nei monoteismi non ci può essere
pace: tra loro e nel loro interno la pace non può essere che provvisoria, o
creazione politica, regola di convivenza. Dai secoli della loro prevalenza, la
loro eredità è la guerra”. E così sia, con buona pace di quegli uomini
che, credendo in un qualsivoglia dio che sia ritenuto superiore, si sentono in
pace assoluta con la propria coscienza anche nel commettere gli scempi più
orrendi.
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