"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 30 giugno 2014

Uominiedio. 15 “A che cosa serve avere un Dio”.



È bastato l’incipit della riflessione proposta dal professor Umberto Galimberti sul settimanale “D” del 15 di marzo ultimo per far emergere pensieri e ricordi che parevano essere stati sepolti negli strati più profondi della mia memoria. Ha scritto l’illustre studioso nella sua riflessione che ha per titolo “A che cosa serve avere un Dio”: Più che discutere sull'esistenza o meno di un essere supremo, conviene chiedersi se credere nella sua esistenza è di aiuto o non è di aiuto alla vita, sempre esposta alla precarietà, afflitta dal dolore, terrorizzata dalla morte. Sin qui quel folgorante incipit. Non so di Voi, ma è accaduto a me qualcosa che trovavo inspiegabile. Maturando negli anni, attenuandosi sempre di più illusioni e speranze mi sono ritrovato ad un certo punto del mio cammino a compiere quella svolta dalla quale tutto il resto ne è derivato. Dico che, educato ad una confessione religiosa che nel bel paese va per la maggiore, giunto alla comprensione sempre più matura dei fatti e degli avvenimenti della Storia, quell’abbraccio non scelto ma familiarmente tramandato mi è parso d’improvviso come che mi impedisse un più libero respirare del mio pensiero. Ed avvenne così che, già adolescente avanzato, ruppi quei legami che mi avevano tenuto ancorato ad una struttura ecclesiale ed a tutta quella creazione di ritualità che d’improvviso mi sembrarono vuote e financo opprimenti. Ma la cosa più straordinaria è stata che quel distacco ricercato da quella religione fattasi chiesa ha comportato un distacco dalla figura principale di quella creazione confessionale, ovvero di quel Dio per il quale da quel momento in poi non ho ricercato più contatto alcuno.
Continua il professor Galimberti nella Sua riflessione: Quello che penso io di Dio equivale a quello che pensa chiunque, perché in materia di fede è inutile disputare. La fede, infatti, non è la scienza che dà risposte esatte, verificate e valide per tutti. La fede è una richiesta del cuore che cerca: protezione per la precarietà della nostra esistenza, consolazione per il dolore che ci affligge, rifiuto di fronte all'ineluttabilità della morte. Quando chi crede adduce a giustificazione della propria fede il fatto che da quando l'uomo è comparso sulla terra ha invocato l'aiuto di potenze superiori, altro non dice che l'uomo, da quando è comparso sulla terra, ha avvertito che la sua esistenza è precaria, il suo dolore difficile da reggere, la morte insopportabile. Su questa base sono nate le religioni, che garantivano una protezione dall'alto a chi si fosse attenuto alle norme etiche che esse prescrivevano. E siccome il bisogno di protezione era più forte del sacrificio che le prescrizioni morali richiedevano, in ogni comunità umana si affermò un'etica che aveva nel volere di Dio o degli déi il suo fondamento. L'affermazione dell'etica fu di grande giovamento per l'umanità che, in questo modo, passò dallo stato selvaggio a forme comunitarie che si reggevano su regole condivise perché garantite da un ordine superiore. È stato a questo punto poi della lettura che il proseguire mi è stato quasi impossibile. Poiché di quella necessità di un Dio, che pur avevo sentito nei miei anni più giovanili, ho iniziato nella mia età più matura a diffidare in quanto mi veniva da pensare quante sofferenze siano state imposte, nella lunga storia del genere umano, in nome di un qualsivoglia Dio. E come la creazione di un dio nei gruppi degli umani abbia di fatto comportato non già “l'affermazione dell'etica”,  quanto l’affermazione di quel settarismo che ha nel profondo caratterizzato la storia e la vita degli umani sino ai giorni nostri correnti. A conforto del mio personale travaglio è stata la lettura più recente – del 28 di giugno – di uno straordinario “pezzo” a firma di Massimo Fini che ha per titolo “Se il Bene porta guerre, allora preferisco il Male”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”:   Nell’orgia di retorica seguita alla scomunica dei mafiosi, del tutto priva di significato nella sua genericità, è passata inosservata una frase di Papa Bergoglio: «Chi non adora Dio di conseguenza adora il Male». Frase di una gravità inaudita che non può essere «voce dal sen fuggita» perché detta da uno che sa, o dovrebbe sapere, quel che dice. Io non adoro Dio, semplicemente non credo alla sua esistenza. Ma se mai ci credessi penserei che è un sadico perché ha creato l’uomo, l’unico essere vivente ad avere una lucida consapevolezza della propria fine. Un essere tragico. «La sola scusante di Dio è di non esistere» ha scritto Baudelaire. Ed è la cosa più misericordiosa che si possa dire nei confronti di questo Soggetto. (…). …questi adoratori di Dio, soprattutto del Dio monoteista, sia esso ebreo, cristiano o musulmano, (…) dimenticano con troppa disinvoltura le infamie di cui si sono coperti. Gli ebrei con la pretesa di essere «il popolo eletto da Dio» hanno fondato quel razzismo di cui in seguito diverranno tragicamente vittime. Ma almeno non hanno mai avuto mire espansive. In quanto agli altri due ‘adoratori del Dio unico’ hanno distrutto, al seguito dei propri eserciti, intere popolazioni e culture, più miti, da quelle dell’America precolombiana a quelle dell’Africa centrale. Prima che, nel 1789, entrasse in campo un altro Dio, questa volta laico, anzi una Dea, la Dea Ragione, le guerre di religione sono state le più spietate. Il Medioevo europeo era cristiano ma essendo la grande maggioranza della popolazione contadina, oserei dire che, nella gente comune, era un cristianesimo che tendeva al pagano, all’animismo, un po’ come per le popolazioni dell’Africa nera. Le guerre le facevano i professionisti, i cavalieri. Ma furono guerre ridicole. (…). …è assodato che il bilancio di quasi tutti i conflitti medioevali si riduce a poche centinaia di morti. C’è però un’eccezione, il 1500, il ‘secolo di ferro’ caratterizzato dalle guerre di religione. Nella sola ‘notte di San Bartolomeo’ (1572) furono uccisi 20 mila ugonotti. E ce ne vuole di ferocia per fare un tale massacro all’arma bianca. Ma è solo un esempio, fra i tanti. (…). È forse stata la consapevolezza di questa tragica storia che ha indotto in me non solo un distacco da quella religione fattasi chiesa e potere temporale, ma anche da quel Dio nel nome del quale i tiranni d’ogni tempo benedivano le loro armi e gli stuoli di sterminatori di altri figli di un dio ritenuto minore all’uopo arruolati. Continua la riflessione del professo Galimberti: Se questa è l'origine della fede in Dio e della morale che ne deriva, è inutile discutere sulla validità delle prove razionali che ritengono di poter dimostrare l'esistenza di Dio, perché a promuovere questa fede non è la ragione, ma un'esigenza del cuore, che ha bisogno di essere rassicurato nell'inquietudine della sua esistenza, consolato nell'afflizione del dolore, rassicurato di fronte all'angoscia della morte. Se avessimo la capacità di distinguere i problemi razionali che la filosofia e la scienza, con modalità differenti, sanno comunque risolvere da sé, dai problemi esistenziali che non trovano conforto e neppure soluzioni con gli strumenti della ragione, non ci sarebbero dispute tra ragione e fede, né inutili tentativi di trovare una conciliazione tra le procedure della ragione e le credenze a cui aderisce la fede. (…). …io non mi chiedo se Dio esiste o no, ma piuttosto, come è venuta al mondo l'idea di Dio? Quale bisogno, quale esigenza, quale necessità l'ha generata? Perché le idee che nascono nella storia e non si estinguono nella successione dei secoli, devono avere un solido fondamento e soprattutto essere di grande utilità, affinché la specie umana possa sopravvivere e non estinguersi quando la precarietà dell'esistenza angoscia, il dolore non trova conforto né consolazione, e la prospettiva della morte, oltre ad atterrire, fa apparire vana ogni iniziativa, ogni impresa, ogni costruzione umana. Una prova di quanto sto dicendo è costituito dal fatto che man mano che la scienza e la tecnica, almeno in Occidente, hanno ridotto la precarietà dell'esistenza e l'ineluttabilità del dolore, la fede in Dio ha trovato sempre meno seguaci, e la morale che da Dio discendeva ha trovato la sua riformulazione nel diritto, dove le regole, di cui nessuna comunità può fare a meno, trovano fondamento nella legge che una comunità sa darsi da sé. A questo punto resta il problema della morte e dell'angoscia che accompagna questo pensiero, a cui né la scienza né la tecnica sanno indicare un rimedio. C'è allora chi si consegna al suo destino mortale, e chi proprio non riesce ad accettarlo. In questo caso il soccorso giunge dalla religione che promette una vita eterna oltre la vita terrena. E se questa fede aiuta a vivere chi proprio non ce la fa a rassegnarsi all'idea della morte, perché impedirla o confutarla? Il problema, infatti, non è stabilire cosa è vero e cosa è falso, ma cosa sostiene e conforta la vita e cosa la deprime e alla fine la spegne. Dell’insensatezza nel credere che un Dio sia un Dio più vero e migliore degli altri e per questo sol fatto ergersi ad esecutori di altri esseri umani ne ha scritto Guido Ceronetti in “A chi appartiene il nome di Dio” apparso sul quotidiano la Repubblica del 24 di giugno: “Nei monoteismi non ci può essere pace: tra loro e nel loro interno la pace non può essere che provvisoria, o creazione politica, regola di convivenza. Dai secoli della loro prevalenza, la loro eredità è la guerra”. E così sia, con buona pace di quegli uomini che, credendo in un qualsivoglia dio che sia ritenuto superiore, si sentono in pace assoluta con la propria coscienza anche nel commettere gli scempi più orrendi.  

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