È il 9 di aprile dell’anno 2009. Sono
passati tre giorni dal sisma. Si corre ai ripari. C’è da fare una riunione
urgente. Anzi, urgentissima. La Commissione Grandi Rischi si riunisce a Roma
nella sede dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Bertolaso e
Boschi parlano al telefono – intercettati -:"Mi hanno chiesto: ma ci
saranno nuove scosse? La riunione di oggi è finalizzata a questo, quindi è vero
che la verità non la si dice". Bertolaso aggiunge: "Alla
fine fate il vostro comunicato stampa con le solite cose che si possono dire su
questo argomento delle possibili repliche e non si parla della vera ragione
della riunione. Va bene?". Lo scienziato risponde: "Non
ti preoccupare, sai che il nostro è un atteggiamento estremamente
collaborativo. Facciamo un comunicato stampa che prima sottoponiamo alla tua
attenzione". Ovvero, “La
protezione incivile di capitan Bertolaso”, che è poi il titolo
dell’articolo che Francesco Merlo ha pubblicato sul quotidiano la Repubblica e
che trascrivo in parte. Poi, ai giorni nostri, i signori scienziati della
Commissione Grandi Rischi, risentiti assai, si sono dimessi a seguito della
sentenza del giudice de L’Aquila. Loro, il fior fiore degli scienziati, che non
hanno ascoltato la voce – della coscienza meglio non parlarne – della scienza
per ascoltare invece, con deferenza e molto interessatamente, la voce del
potere. La dignità venduta sempre per l’ossequio al potere sulla pelle della
gente. Chiude Francesco Merlo il Suo pezzo amaramente: A ciascuno di loro, (…),
bisognerebbe gridare come a Schettino: - Torni a bordo,…-. I
professoroni della Commissione Grandi Rischi, su invito del governo, sembra che
abbiano rioccupato le seggiole. Ma cosa ne rimane della loro dignità professorale?
Un bel nulla. Ha dichiarato il professor Boschi che il verbale è stato steso
alcuni giorni dopo lo svolgimento della riunione, aggiungendo di non conoscere
neppure l’estensore dello stesso. Avviene, nelle consuete, deprimenti e
litigiose riunioni condominiali, che la stesura del verbale venga fatta al
termine o nel corso della riunione stessa. Siamo a questo punto: la Commissione
Grandi Rischi si comporta peggio del peggiore dei condomini di questo
disastrato paese. Ora sappiamo perché il nostro è un paese disastrato. Come
potrebbe non esserlo? Scrive Francesco Merlo: (…). Chiunque ha vissuto un
terremoto sa che la prima precauzione è
uscire di casa. Il sisma infatti terremota anche le nostre certezze. E dunque la casa diventa un agguato, è una trappola, può trasformarsi in una tomba fatta di macerie. In piazza invece
sopra la nostra testa c’è il cielo che ci protegge. Ebbene all’Aquila, su più
di trecento morti, ventinove, secondo il
processo, rimasero in casa perché tranquillizzati dagli scienziati di
Bertolaso. E morirono buggerati non dalla scienza ma dalla menzogna politica,
dalla bugia rassicurante. (…). …noi ora sappiamo che questi stessi scienziati avevano previsto
l’arrivo di un’altra scossa mortale, nei limiti ovviamente in cui la scienza
può prevedere le catastrofi. Ebbene, il dovere di Franco Barberi, Bernardo De
Bernardinis, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi,
Claudio Eva era quello di dare l’allarme. Gli scienziati del sisma sono infatti
le sentinelle nelle torri di avvistamento, sono addestrati a decifrare i
movimenti sotterranei, sono come i pellerossa quando si accucciano sui binari.
Nessuno si sogna di rimproverarli se non “sentono” arrivare il terremoto. Ma
sono dei mascalzoni se, credendo di sentirlo, lo nascondono. Il processo
dell’Aquila dunque è stato parodiato. E
quell’idea scema che i giudici dell’Aquila sono dei persecutori che si sono
accaniti sulla scienza è stata usata addirittura dalla corporazione degli
scienziati. Alcuni di loro, per solidarizzare con i colleghi, si sono dimessi,
lasciando la Protezione Civile nel caos, proprio come Schettino ha lasciato la
Concordia. (…). …gli scienziati che
sguarniscono le difese per comparaggio con i colleghi sono come i
chirurghi che scioperano quando devono ricucire la ferita. Ma diciamo la
verità: è triste che gli scienziati italiani si comportino come i tassisti a
Roma, forze d’urto,interessi organizzati, cecità davanti a una colpevolezza
giudiziaria che può essere ovviamente rimessa in discussione, ma che non è però
priva di senso, sicuramente non è robaccia intrusiva da inquisizione medievale.
Insomma la sentenza di primo grado può essere riformata, ma non certo perché il
giudice oscurantista ha condannato i limiti della scienza nel fare previsioni e
persino nel dare spiegazioni. E il giudice dell’Aquila è stato sobrio. (…). Non
è neppure andato a Porta a Porta per difendersi dall’irresponsabile
travisamento che ai commentatori frettolosi può essere forse perdonato, ma che
è invece imperdonabile al ministro dell’ambiente Corrado Clini, il quale
ha tirato in ballo Galileo e ci ha tutti
coperti di ridicolo facendo credere che in Italia condanniamo i sismologi
perché non prevedono i terremoti, che mettiamo in galera la scienza,che
continuiamo a bruciare Giordano Bruno e neghiamo che la Terra gira intorno al
Sole. (…). So purtroppo che è inutile invitare personaggi e comparse di questa
tragica farsa ad un atto di decenza intellettuale, a restituire l’onore alla
ricerca, alla scienza e alla giustizia, e a risalire su quelle torri sguarnite
della Protezione Civile senza mai più umiliarsi con la politica. A ciascuno di
loro, (…), bisognerebbe gridare come a Schettino: - Torni a bordo,…-. La
decenza. La decenza s’impone per il normale cittadino, giammai per gli
indecenti del potere politico, economico o intellettuale che sia. Scrive oggi
Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica – “L’altro pianeta del Cavaliere” -: Tutti questi potenti tendono a
diffidare della magistratura, e non a caso c'è un ministro, Corrado Clini, che
giunge sino ad equiparare la condanna di Galilei e quella dei sette scienziati che
minimizzarono gli sciami sismici incombenti sull'Abruzzo dal dicembre 2008.
Come se gli scienziati fossero accusati di scarsa preveggenza, non di avere
perentoriamente escluso rischi gravi. Non di aver servito il potere politico
(Bertolaso, Berlusconi) che voleva occultare la verità ai cittadini. Non
dimentichiamo uno dei sette, Bernardo De Bernardinis, che consigliava di
chiudersi in casa (in casa! uno scienziato dovrebbe sapere che la casa uccide,
nei terremoti) e per calmarsi di bere un bicchiere di Montepulciano in più. Bacco,
tabacco e Venere “pe’ tutti”.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 31 ottobre 2012
martedì 30 ottobre 2012
Storiedallitalia. 26 Viva l’Italia.
Sono andato a vedere il film Viva l’Italia di Massimiliano Bruno.
Nel buio della sala le cose che mi hanno spiazzato di più sono state le risate
spropositate, grasse della gente presente. C’era da aspettarselo. Osservavo,
ancor prima dell’inizio della proiezione, l’affluire degli spettatori. Intere
famiglie con al seguito la figliolanza, anche la più giovine. Come se si
andasse ad una festicciola per infanti, nel corso della quale gli adulti, i
cosiddetti “grandi”, non mancano di abbuffarsi delle leccornie distribuite.
Mi chiedevo: ma perché ridono? Ma perché hanno portato anche i bambini
appresso? Ridevano tutti, i cosiddetti “grandi” ed i loro pargoli, per il
linguaggio sboccato e per le situazioni equivoche che il film ha presentato in
abbondanza nelle sue scene iniziali. Si capiva che il regista calcava forte la
mano per realizzare un ripugnante affresco del bel paese, di fronte al quale
non sarebbe rimasto che vergognarsene oltre ogni misura. L’immaturità del
pubblico aveva modo di manifestarsi nelle grasse risate che hanno accompagnato
quel florilegio di scempiaggini ed ottusità. Devo pur dire che scorrendo le
immagini sullo schermo quelle grasse, insensate risate hanno perso di smalto,
sono andate scemando, per ritrovarsi, al riaccendersi delle luci in sala, tutti
muti, sbalorditi, come ubriachi, dinnanzi alla protervia del potere, dinnanzi
alle nostre povere storie di cittadini. Devo pur dire che il regista ha saputo
suonare bene gli accordi della opera Sua. Ma mi chiedo: cosa ne sarà rimasto ai
bambini fatti affluire come ad una festa per infanti? Solamente la eco delle
loro risate e di quelle dei loro immaturi genitori. È che il bel paese si
gigioneggia su questa immaturità che tutto consente. Ho voluto raccontare questi
fatti dopo aver letto l’”Amaca” di
oggi di Michele Serra sul quotidiano La Repubblica. Scrive Miche Serra a
proposito dei risultati elettorali della regione Sicilia: La maggioranza dei siciliani non
è andata a votare, ma sarà ugualmente governata. Da un governo di altri, eletto
da altri. Se il proposito di chi non vota è tirare una bordata alla politica,
depotenziarla, dequalificarla, il risultato è (sempre) l’esatto contrario: nei
suoi nuovi confini, più ristretti, la politica può ugualmente sommare i voti
che le restano dentro il cerchio magico del cento per cento. Chi è andato a
votare, per quanto minoranza, pesa come una totalità. E chi non ha votato, per
quanto maggioranza assoluta, pesa meno della più insignificante delle
listerelle del nostro comicissimo paese (per fare solo tre nomi Popolo dei
Forconi, Piazza Pulita e Sturzo Presidente). Di peggio, nel bilancio di chi non
vota, si può aggiungere questo: che grazie all’astensione di massa, per vincere
e per governare bastano meno voti, sempre meno voti. Lo stesso numero di voti
che non erano sufficienti, pochi anni fa, per arrivare secondi o terzi, oggi
bastano per vincere. Ovviamente chi non va a votare ha le sue rispettabili
ragioni, e il diritto di non farlo. Ma perde il diritto di lamentarsi per
quanto accadrà, e acquisisce il dovere di tacere e subire, perché ha taciuto e
subito nel giorno delle elezioni. Poiché ho pensato che tantissimi di
quegli spettatori che hanno riso assieme ai loro pargoli non sono affatto
migliori dell’onorevole Spagnolo del film, spregiudicato quanto basta, che
riesce a dire la verità suo malgrado solo a seguito di un colpo apoplettico che
lo ha colpito durante un incontro d’amore clandestino, lui grande protettore
della sacralità della famiglia. Saranno questi spettatori sprovveduti gli
elettori che un giorno in massa decideranno di non votare? Rendendo così tutti i
(dis)onorevoli Spagnolo sempre più arroganti e sicuri d’essere degli
intoccabili. Il risultato politico della Sicilia traspare nella sua assurdità:
la minoranza (47%) degli isolani che è andata a votare ha determinato una
situazione politica caratterizzata dalle molteplici, diffuse debolezze, dalle
quali debolezze si invocherà, con grande mugugnare dei tanti, di invertire il
corso delle cose. 13.5, 12.8, 10.8, 9.6,
giù giù verso numeri sempre più irrilevanti, sono i numeri delle maggiori forze
politiche della Sicilia. 25.4, 46.6, 9.4,
7.0
sono i numeri precedenti (elezioni politiche dell’anno 2008) di quelle stesse
forze politiche siciliane. Chi ha vinto? Tutti. Chi ha perso? Nessuno. Questi
fatti accadono nell’indifferenza generale. Avrà vinto, o crederà di aver vinto,
quel prototipo di elettore che ho avuto la ventura d’incontrare al buio della
multisala nella quale si proiettava Viva l’Italia? Qualche leader ha parlato di
un risultato storico. Lo sarà proprio? Affermava Gesualdo Bufalino: Vi è
una Sicilia «babba», cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia «sperta»,
cioè furba. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica... Tante Sicilie, perché? Soffre,
la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male. Direi
tantissime “patrie”. I soliti bene informati affermano che la Sicilia è il
“laboratorio”
politico del bel paese, che in quell’angolo di Mediterraneo si sperimentano da
sempre le “novità” politiche del bel paese. C’è da rabbrividirne! Alla
fine una grande, grassa risata ci sommergerà tutti. Ha scritto Michele Serra in
quello straordinario Suo libro che è “Cerimonie”
– (2002) Feltrinelli Editore, pagg. 136, € 12.50 -: (…). Questo paese pullula da
sempre di spiriti liberi che praticano nella più facile indisciplina le loro
personali secessioni da questo e quel potere, che modificano statuti e
convenzioni solo nello scenario platonico del loro “carattere”. Di questi
caratteristi è pieno ogni bar e ogni rione d’Italia, dove da sempre nessuno è
disposto a “farsi fregare” da una qualsiasi costruzione normativa o culturale o
ideale, e pare vile e debole acconciarsi a un qualche ordine. (…). Il
ritratto degli astenuti, nuovi salvatori d’Italia.
domenica 28 ottobre 2012
Doveravatetutti. 6 Il complotto.
“E adesso povero uomo” si
sarebbe chiesto quel complicato di Hans Fallada. Costretto a tornare sui suoi
passi. Costretto a rimangiarsi tutto quanto imprudentemente aveva osato dire.
Per il bene nostro, s’intende! Come leggeranno gli italiani questo rientro? Non
saranno così smaliziati da pensare che lo faccia solo ed esclusivamente per
mettere a posto la giustizia in modo che sia ridotta ad una istituzione pro
domo sua? O continueranno a bersi le sue sparate? Il complotto. Quando
si dice “doveravatetutti” è perché il copione è sempre lo stesso. E
questa rubrichetta ha lo scopo di riproporre le cose dette e scritte quando
tutti facevano finta di non sentire e di non sapere. Il “doveravatetutti” di
oggi, a seguito della nota sentenza di condanna, ripesca in quella che dovrebbe
essere una “memoria” consolidata e collettiva. Solo che di “memoria”
questo paese non ne ha e non ne vuole avere. Scriveva Indro Montanelli in “Soltanto un giornalista”: (…).
Questo Paese è quello che è – ignorante, superficiale, capace di qualche
effimero furore, ma non di veri e propri sentimenti e risentimenti morali -
perché così l’ha fatto la scuola ed è la politica che ha fatto la scuola così.
(…). Un paese che non coltiva il bene della “memoria”, per l’appunto.
È per rispondere a questa esigenza di “memoria” da salvare che il “doveravatetutti”
di oggi ripropone uno scritto del compianto Giuseppe D’Avanzo. Il testo,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica, e riproposto di seguito in parte, è
del 27 di novembre dell’anno 2010 ed ha per titolo “Il complotto”, per l’appunto. E di complotto se ne ritorna a
parlare a seguito delle disavventure giudiziarie del signore di Arcore. Giustizia
ad orologeria! Persecuzione giudiziaria! Scriveva il sempre compianto Giuseppe
D’Avanzo: Quando il potere spinge il cospirazionismo nel cuore stesso della vita
politica di un Paese si deve sapere udire il suono di un pericolo, l'annuncio
di un rischio. È un ritorno al tempo che è stato. Al “rischio”
mai scongiurato. Ci si è illusi d’essercene
liberati per sempre? Senza “memoria”, come la leggeranno
stavolta gli italiani?
(…). Ora qualche nebbia sembra
diradarsi. Dunque, i problemi non sono i fatti ma chi li racconta o chi deve
accertarli. Per il governo, non bisogna riferire e riflettere su "i
fattori negativi". Se lo si fa, ci si iscrive alla schiera dei
cospiratori, ai nemici dell'Italia che minacciano l'immagine nazionale e gli
interessi economici del Paese. Un atteggiamento, dice Berlusconi,
"anti-italiano". È "anti-italiana" l'informazione. È "anti-italiana"
la curiosità della magistratura per Finmeccanica. Eliminato il giornalismo e
l'ordine giudiziario - sembra di capire - l'Italia del Cavaliere non avrebbe
più problemi né macchie né angosce. Contro questi "nemici" il governo
invoca "fermezza e determinazione". Quali saranno, viene da chiedere,
gli strumenti, le iniziative o le leggi che l'esecutivo disporrà o approverà
per difendere immagine nazionale e interessi economici? Senza dubbio, si può
anche beffeggiare quest'ultima trovata complottistica per coprire i sempre più
fragorosi fallimenti del governo. Antonio Di Pietro lo fa disegnando un
Frattini che alza troppo il gomito prima di prendere la parola in pubblico. Un
minimalismo beffardo può essere un errore, però. Quando il potere spinge il
cospirazionismo nel cuore stesso della vita politica di un Paese si deve sapere
udire il suono di un pericolo, l'annuncio di un rischio. Si deve poter vedere
non tanto la mediocre infelicità dell'iniziativa, ma la trama di una politica. Lo
si può dire così. Come si può giustificare lo stupefacente crollo di un regime
politico incardinato in un leader carismatico e popolarissimo, sostenuto da una
maggioranza politica numericamente inattaccabile e da un consenso quasi
ipnotico? Se l'autorità politica è incapace di riconoscere le proprie
responsabilità e la sua incompetenza, si fa strada soltanto un'altra
possibilità: la soluzione cospiratoria che più rendere ragione dei fatti - di
tutti i fatti accaduti - in modo unitario, senza coinvolgere il malgoverno, le
inettitudini delle persone, l'inidoneità delle politiche. È una strada - la
teoria del complotto - che offre anche un qualche ragionevole elemento di
speranza. Se si individuano e afferrano "i cospiratori", se li si colpisce
o in ogni caso si impedisce loro di nuocere ancora, la battaglia può essere
vinta, l'Italia potrà essere liberata non da chi l'ha ridotta in miseria e
rovina ma, con un rovesciamento di ruoli e responsabilità, da chi ne ha subito
finora le disgrazie. Non si deve trascurare l'irrompere nella
"narrazione" del Cavaliere del cospirazionismo finora utilizzato per
proteggere se stesso non per denunciare le minacce contro il Paese. È vero, il
cambio di passo può essere semplicemente l'inizio della prossima campagna elettorale.
La filastrocca la si può già sentire: una "potente centrale politica e
finanziaria", con un complotto, mi ha impedito di governare e di fare gli
interessi del Paese, datemi la maggioranza del 51 per cento e vi libererò da
ogni nemico. Ma c'è anche un'altra possibilità che deve essere tenuta in
considerazione. Che cosa può produrre la diffusione della leggenda di una
cospirazione nello stato di insicurezza (percepito e concreto) che angoscia il
Paese? Al crepuscolo della sua avventura politica, Berlusconi potrebbe essere
tentato di giocare la carta dell'emergenza, una condizione straordinaria che,
nell'interesse del Paese, richiede decisioni che sacrifichino le norme, un
diritto liberato dalla legge. "La creazione volontaria di uno stato
d'eccezione - ha scritto Giorgio Agamben - è divenuta una della pratiche
essenziali degli Stati contemporanei, anche quelli cosiddetti
democratici". D'altronde, lo abbiamo sempre saputo che Berlusconi avrebbe
trascinato il Paese nella sua caduta.
venerdì 26 ottobre 2012
Sfogliature. 14 Compagni, tornate a comportarvi da marxisti!
Scorro con dolente rassegnazione l’e-book ed alle
pagine 2540 e 2541 ritrovo il post scritto il 16 di giugno dell’anno 2010. Sembrano
trascorsi invano – ma per chi? - gli ultimi inutili anni. Mi sembra, comunque, che
il post di allora – facilissime profezie! - faccia bene il paio con il post di
ieri – “L’ultima classe” – ove
riportavo una citazione dal libro di Étienne Balibar “Cittadinanza” – Bollati Boringhier Editore (2012), pagg. 178, € 9
-. In aggiunta alle cose dette ieri e dette allora mi garba completare la
citazione del Balibar (pag. 62): “(…). …quelle lotte hanno realizzato a loro
modo un’articolazione dell’impegno individuale e del movimento collettivo, che
è il cuore stesso dell’idea di insurrezione. È un aspetto tipico della
cittadinanza moderna, il cui valore è indissociabilmente etico e politico, che
i diritti del cittadino siano attribuiti a soggetti individuali, ma siano
conquistati attraverso movimenti sociali capaci di inventare, in ogni
circostanza, le forme e i linguaggi appropriati della solidarietà. (…).” È
ciò che è mancato alla politica; è ciò che è mancato alla coscienza di quelli
dell’”ultima
classe”. Il post che ripropongo di seguito era il secondo della sezione
“Tatzebao”. Altri tempi!
(…). La Fiat è disposta a investire 700
milioni di euro per liberarsi di lacci e lacciuoli, come il capitalismo
postmoderno ci ha abituato a chiamare la tutela di chi, sul mercato, ha da
spendere soltanto la sua fatica, la sua competenza, il suo tempo. Non è una
gran cifra per un risultato così funzionale alla crescita del profitto. In
altri tempi toccava sparare sugli inermi, guastandosi il sonno, con il sangue
degli altri. Oggi è tutto meno cruento: ci si nasconde dietro la crisi
(europea, mondiale, cosmica), ci si giustifica sventolando lo spauracchio della
Grecia (dove in effetti si è sparato), ci si fa scudo della globalizzazione (se
l’operaio polacco costa meno è mica colpa nostra!). E ci si può permettere
questo balletto perché c’è, ovunque, un contingente massiccio di precari pronti
a prendere il posto degli operai che non ci stanno. L’obbiettivo è allargare il
“parco schiavi”, fino a levarsi definitivamente di torno “la classe operaia”.
Sarà una Paese sempre più povero, l’Italia. Povero e immobile. Ricchi saranno i
peggiori, quelli con più pelo sullo stomaco, aggregati in comode cricche, a far
soldi, nell’asfittico mercato dei loro appalti truccati, protetto
dall’inesauribile lavorio politico di “legalizzazione” dell’illegalità. In
questo scenario dickensiano (pre-rivoluzione industriale), vi scongiuro,
compagni del centrosinistra, tornate a comportarvi da marxisti! Lo stato di
cose presente va rovesciato!Da “Il
futuro è già passato” di Lidia Ravera sul quotidiano l’Unità. Non sarà ancora
la fine della storia. Come non sarà ancora la fine del capitalismo. È per non
cadere in un abbaglio simile, la fine del capitalismo prossimo venturo che
alcuni cantori immemori s’ingegnano di preconizzare, che resto legatissimo alla
mia visione dell’eterno flusso e riflusso; il capitalismo avrà modo di far suo ancora
lo sviluppo a venire della umanità globalizzata. A dispetto di quei cantori
immemori. È una ben magra consolazione; ma le macerie, materiali ed
immateriali, accumulate con la sconfitta sul campo del cosiddetto “socialismo
reale” stanno lì a renderci amaramente disincantati. E quello, del “socialismo
reale”, è stato l’unico ed ultimo esperimento andato a male. A meno che… Del
declino del capitalismo ne ha scritto a più riprese il professor Umberto
Galimberti. Di seguito ne trascrivo una riflessione, “Il declino del capitalismo”, pubblicata di recente su di un supplemento del
quotidiano “la Repubblica”.
- Il nemico più implacabile e più pericoloso
del capitalismo è il capitalismo stesso. - (Emanuele Severino). (…) … da
Agostino (354-430 d.C.) in poi, la religione cristiana assegna allo Stato non
il compito di provvedere al bene comune, ma quello più modesto di togliere gli
impedimenti che si frappongono alla salvezza dell'anima. Questo tipo di
mentalità perdura tuttora nella reiterata richiesta a tutti i politici
cattolici, a qualsiasi schieramento appartengono, di provvedere, nella loro
funzione, a non approvare leggi che contrastino con l'itinerario della salvezza
dell'anima. Su questo nesso tra la religione che afferma il primato
dell'individuo e il capitalismo come ricerca dell'interesse e della ricchezza
individuale si è espresso con molta chiarezza il grande sociologo del primo
Novecento Max Weber in quella sua opera fondamentale che ha per titolo: L'etica
protestante e lo spirito del capitalismo, dove si sostiene che il capitalismo
trae la sua forza propulsiva dall'etica calvinista (che è una variante del
cristianesimo), volta all'utilità personale, e che ha il suo fondamento nel
dovere professionale assunto come dovere morale. Il capitalismo, promosso dal
primato dell'individuo sulla società come vuole l'assunto cristiano, si è
sganciato dalle sue radici religiose e, attraverso l'occidentalizzazione del
mondo, è penetrato anche nei paesi totalitari che, pur non riconoscendo il
primato dell'individuo, hanno favorito la ricchezza individuale che ha come sua
ricaduta il progressivo affermarsi della potenza collettiva. Ora però si pone
un problema, ben evidenziato da Emanuele Severino, il quale sostiene che
siccome il capitalismo si alimenta del consumo della terra, - arriverà il
giorno in cui dovrà rendersi conto che, distruggendo la terra, distrugge se
stesso. E sarà questa coscienza, non la coscienza morale o religiosa, a
spingere il capitalismo al tramonto -. La salvaguardia della terra oggi può
essere garantita solo dalla tecnica, per cui, se il capitalismo vuole salvare
la fonte della sua ricchezza, non potrà più servire solo il profitto, ma due
padroni: il profitto e la tecnica, perché questa sola può rallentare l'usura
della terra, vero fondamento della ricchezza. A questa situazione limite siamo
già giunti, non ancora a una matura coscienza di questo limite.
giovedì 25 ottobre 2012
Capitalismoedemocrazia. 31 L’ultima classe.
“L’ultima classe” è il titolo dell’interessante riflessione del
professor Luciano Gallino – la Repubblica, 22 di settembre 2012 – scritta in
occasione della pubblicazione del volume “Precari.
La nuova classe esplosiva” di Guy Standing (il Mulino editore, pagg. 304, €
19,00). Una nuova “classe”, anzi l’ultima delle “classi” a detta
dell’illustre sociologo, ma senza la consapevolezza della sua condizione.
Scrive infatti l’illustre recensore che “essendo pressoché priva sia di un’efficace
rappresentanza sindacale, sia di un solido riferimento politico, e meno che mai
di una qualche guida, il suo comportamento politico ed elettorale rischia di
oscillare tra il consenso per l’ultimo pifferaio di Hamelin che capiti sulla
scena e il voto per le formazioni di estrema destra che promettono soluzioni
facili e immediate per problemi terribilmente difficili”. È il grande
smarrimento artatamente creato affinché dalla “melassa sociale” così
composta si potesse ottenere il massimo dei vantaggi in fatto di
globalizzazione e di arretramento sul piano dei diritti faticosamente acquisiti
dai prestatori d’opera. Poiché la mancata coscienza di “classe” diffusa ha
determinato anche l’arretramento dell’azione della politica in gran parte del
mondo occidentale e la trasformazione – di quell’azione – in un
mercanteggiamento al ribasso in fatto di diritti e di difesa del lavoro che
oggigiorno non è più “considerato dignitoso” non offrendo
“al
lavoratore una serie di sicurezze fondamentali per poter condurre un’esistenza
che consenta il pieno sviluppo della persona e dei suoi rapporti sociali”. È su
questo aspetto non secondario che si è giocata, e forse perduta, la battaglia
delle cosiddette forze della “sinistra”. Scrive Ètienne Balibar –
in “La cittadinanza” Bollati
Boringhieri Editore (2012), pagg. 178, € 9 – alla pagina 61 del Suo
pregevolissimo lavoro: “(…). Non sembra necessario dilungarsi (…)
su come la lotta di classe abbia svolto un ruolo democratico essenziale nella
storia della cittadinanza nazionale moderna. Ciò è dovuto al fatto che le lotte
organizzate dalla classe operaia (…) hanno portato al riconoscimento e alla
definizione da parte della società borghese di alcuni diritti sociali
fondamentali, che lo sviluppo del
capitalismo industriale rendeva al tempo stesso più urgenti e più difficili da
imporre, contribuendo con ciò alla nascita di una cittadinanza sociale. (…)”. Scomparsa
l’idea della lotta - e per giunta di “classe” - ne è sopravvissuta una
forma alienante di (non)-partecipazione alle problematiche del lavoro che vede
l’ultima delle classi “diventare tra non molto la maggioranza” dei
prestatori d’opera, e pur divenuta “maggioranza”, senza un risveglio
delle coscienze, quella moltitudine permanere nella condizione asfissiante
dell’anonimato e della solitudine, così come è vissuta oggigiorno dai milioni e
milioni di esseri umani sprofondati in una condizione oggettivamente amarissima
“di
frustrazione, rabbia, disperazione”. Ne viene fuori una allarmante
verità per la quale, laddove sia regredita la “lotta di classe” è in
pari tempo regredita l’idea stessa “di una cittadinanza sociale” matura
e consapevole, poco incline quest’ultima a concedere deleghe facili al ceto
politico del momento e sul quale poi essa non cessa di mantenere una costante
azione di vigilanza, essendo la mancata azione di vigilanza causa prima dell’arretramento
della politica nella forma attuale dell’”antipolitica” al potere.
(…). Il lavoro viene considerato
dignitoso quando offre al lavoratore una serie di sicurezze fondamentali per
poter condurre un’esistenza che consenta il pieno sviluppo della persona e dei
suoi rapporti sociali. (…). La precarietà, intesa soprattutto come una
prolungata sequenza di lavori di breve durata, non offre nessuna di tali
sicurezze, e dove esse esistono le distrugge. La prima sicurezza che il lavoro
precario viene a negare è ovviamente quella del reddito. Pur nei casi in cui un
singolo periodo di occupazione sia ben retribuito, è raro che un precario
arrivi a mettere insieme più di otto o nove mensilità l’anno. Ma la sua
condizione non è gravata soltanto dell’ammontare del reddito. Ciò che rabbuia
la vita dei precari è il non sapere se, dove, quando troveranno un’altra fonte
di reddito, una volta scaduto il contratto in essere. Altre pesanti insicurezze
derivano dal potere arbitrario di cui un datore di lavoro dispone nei confronti
del precario in tema di costi che questi deve sopportare e regole che deve
seguire; di possibilità di mantenere il proprio ruolo professionale; di potersi
esprimere per mezzo di una rappresentanza collettiva sul mercato del lavoro.
Per tacere della protezione dai rischi di incidente e malattia, e della
sicurezza di ricevere una formazione adeguata. Nessuna impresa investe
volentieri un euro in tali ambiti, quando sa che la lavoratrice che dovrebbe
esserne oggetto se ne andrà presto perché ha un contratto in scadenza. I
precari costituiscono ormai una grossa minoranza dei lavoratori nel mondo, e
potrebbero diventare tra non molto la maggioranza. Sono il prodotto della
globalizzazione, del conflitto che è stato scientemente provocato tra i
lavoratori dei paesi sviluppati con salari da 25 euro l’ora e quelli dei paesi
emergenti che ne guadagnano uno e fanno orari doppi. Nonché delle forti
pressioni che i politici come le imprese hanno esercitato per rendere più flessibile
l’occupazione, dando a intendere sin dagli anni Ottanta che in tal modo sarebbe
cresciuta. Formano una classe in sé, i precari, in quanto condividono tutte le
insicurezze sopra ricordate; tuttavia, (…), sono lungi dal formare una classe
per sé, ossia una collettività consapevole della propria situazione e capace di
intraprendere adeguate iniziative politiche al fine di migliorarla.
Rappresentano una classe pericolosa (…) per diversi motivi. Essendo
attraversata da sentimenti di frustrazione, rabbia, disperazione, essa tende a
scaricarli sugli immigrati, le minoranze etniche, o coloro che ancora godono,
forse non per molto, di un’occupazione stabile. Inoltre, essendo pressoché
priva sia di un’efficace rappresentanza sindacale, sia di un solido riferimento
politico, e meno che mai di una qualche guida, il suo comportamento politico ed
elettorale rischia di oscillare tra il consenso per l’ultimo pifferaio di
Hamelin che capiti sulla scena e il voto per le formazioni di estrema destra
che promettono soluzioni facili e immediate per problemi terribilmente
difficili. (…). Tra le fila dei precari ha poca presa la convinzione che
l’uscita dalla precarietà potrebbe essere un ritorno al lavoro che offre sì
stabilità di occupazione di reddito, e però consiste nello svolgere ogni ora,
giorno, settimana, per anni e anni, la stessa stupida mansione che si impara in
due giorni e si svolge, sotto il controllo implacabile di un capo o di un
computer, in due minuti. Per essere poi ripetuta sempre uguale. Che è il tipo
di lavoro imposto dalle imprese a milioni di persone in tutti i paesi
sviluppati, e con ancora maggiore durezza a decine di milioni di altre nei
paesi emergenti, in forza delle moderne tecniche organizzative. Perciò, se a
qualcuno venisse in mente di proporre alla classe sociale dei precari di
guardare a un futuro diverso, e ad organizzarsi politicamente per realizzarlo,
dovrebbe provare a disegnare con loro un lavoro che oltre a garantire le
sicurezze che lo rendono dignitoso, permetta di esercitare mentre lo si svolge
intelligenza, autonomia, immaginazione, libertà di muoversi e di inventare. Un
tema di cui si discuteva molto, ricorda (…) chi scrive, forse mezzo secolo fa,
prima che la ristrutturazione produttiva e l’ideologia della flessibilità
distruggessero, insieme con la stabilità dell’occupazione, anche la capacità di
pensare il lavoro. (…).
mercoledì 24 ottobre 2012
Capitalismoedemocrazia. 30 Il potere belluino.
Scrive Dario Fo – il Fatto
Quotidiano, “La brutalità tecnica di
Monti” -: (…). Dice Queneau, il filosofo: “Ognuno soffre di un duro trattamento
solo in conseguenza della sua collocazione nella società e in seguito alla
probabile reazione adeguata che esprime davanti a ciò che considera sopruso”.
Quindi è una costante matematica: la violenza del potere si proietta dal basso
verso l’alto in rapporto alla potenza economica di cui il colpito dispone. (…).
E qualcuno dovrà pur pagare. La situazione drammatica in cui viviamo la si può
capovolgere solo se ogni cittadino partecipa al salvataggio. Se poi, in seguito
alla reazione di alcuni gruppi economici, chiamiamole lobby, il governo è
costretto a ritirare le proposte che imporrebbero a costoro di versare il
dovuto, non facciamone una tragedia, spingiamo un po’ di più l’acceleratore su
coloro che non possiedono né mezzi, né santi in paradiso o deputati in
Parlamento a proprio comando. Saranno loro a pagare anche per quelli che
avrebbero i mezzi per risolvere democraticamente ed egalitariamente il loro
compito civile. (…). È una dovuta, necessaria anticipazione
all’intervista, che di seguito trascrivo in parte, che il professor Marco
Revelli ha rilasciato al quotidiano l’Unità – “Potere belluino” – a firma di Jolanda Bufalini. È la “stortura”
nei rapporti sociali della quale “stortura” si sono avvantaggiate le
classi dominanti per creare quella “melassa sociale” – il termine è mio
e fa un po’ il verso alla “poltiglia” del sociologo De Rita -,
quell’indistinto zuccheroso che ha reso deglutibile e meno amaro il calice
delle diseguaglianze dilatatesi a dismisura nei lustri correnti. È il miracolo
del liberismo più sfrenato. Sosteneva Goffredo Fofi – “La vocazione minoritaria”, Laterza editore (2009), pagg. 165, € 12
-: “Una
delle astuzie della società attuale – almeno in Italia – è di aver convinto i
poveri ad amare i ricchi, a idolatrare la ricchezza e la
volgarità. In passato i poveri solitamente non amavano i ricchi: li si convinceva,
anche con la forza, a sopportare la loro condizione, si tollerava anche che
peccassero di invidia, al più li si spaventava con la prospettiva delle pene
dell’inferno. Negli anni Ottanta, negli anni di Craxi, è esplosa invece una
cosa del tutto nuova: la tendenza a negare le differenze tra i ricchi e i non
ricchi, a far sì che i non ricchi si pensino ricchi, che amino i ricchi come
maestri di vita, come modelli assoluti di cui seguire ogni esempio. (…)”. E
sono così trascorsi gli anni infami dalla “discesa in campo”, che tanto
malanno ha arrecato al tessuto sociale ed alla sensibilità etica dell’italico
popolo. La “melassa sociale”, zuccherosa quanto mai, ha consentito e
facilitato la “dissoluzione degli aggregati sociali” – volgarmente denominati
“classi”
– che ha determinato la caduta dei principi e, perché no, la caduta del primato
della politica come arte suprema di regolazione degli inevitabili, salutari,
conflitti sociali. Come simbolo degli anni vissuti pericolosamente sull’orlo di
un precipizio etico, morale e di dissoluzione del capitalismo industriale, a
tutto vantaggio di un capitalismo di pura finanza creativa, andrebbe preso per
l’appunto il mito della Medusa che, per dirla con le parole del professor
Revelli, è “ il simbolo di un potere belluino, dallo sguardo pietrificante”.
Che ha pietrificato le coscienze.
(…). Professore, ne «I demoni del
potere» lei parte dal «genocidio finanziario» della Grecia per avventurarsi in
una ricognizione dei miti che accompagnarono la nascita della polis antica, la
Medusa e Perseo, le sirene e Ulisse. (…). Il primo mito è quello della Gorgone
o Medusa.
«La Medusa è il simbolo di un
potere belluino, dallo sguardo pietrificante. Lo scudo di Perseo nel quale
quello sguardo si riflette, lo addomestica. Questo addomesticamento del potere
è un pilastro dell’incivilimento che nasce con l’invenzione della città. Nel
Novecento la funzione di addomesticamento del potere l’ha svolta il conflitto
sociale, l’azione collettiva del movimento operaio ha tenuto sotto controllo i
demoni del potere. È impressionante guardare le statistiche degli scioperi: le
guglie fra gli anni Cinquanta e Settanta che sforano le 100.000 giornate di
sciopero. È il periodo che Hobsbawm (di recente scomparso n.d.r.) definisce l’età dell’oro del
capitalismo contemporaneo, quando alla crescita dell’economia e del welfare si
accompagnò un conflitto sociale esteso e potente. Quella azione collettiva
teneva a bada la forza belluina del potere, producendo al tempo stesso
solidarietà sociale. Poi il grafico precipita, la curva si fa piatta, si torna
a grandezze ottocentesche, come se il Novecento, il secolo del lavoro, fosse
stato una parentesi».
Cosa è successo?
«È stato infranto lo specchio di
Perseo. Il paradigma neoliberista ha rimosso il conflitto sociale dall’orizzonte
pubblico. Il lavoro, che la nostra Costituzione mette a fondamento della
repubblica, si è atomizzato, privatizzato, il lavoratore singolo si trova nudo
di fronte a questo potere enorme. (…). Credo che all’origine della svolta c’è
una sconfitta storica del lavoro, i cui termini si possono pesare: lo studio di
Luci Ellis e di Kathryn Schmit per la Banca dei regolamenti internazionali ha
messo in evidenza che nei maggiori paesi industrializzati, i salari hanno perso
in 30 anni 8 punti percentuali, Luciano Gallino ha calcolato, nel suo
bellissimo La lotta di classe dopo la lotta di classe che in Italia 250
miliardi di euro si sono trasferiti dai salari ai profitti».
La famiglia mitologica del
potere, scrive, non è molto simpatica: Krato è figlio di Stige, fratello di Bia
(la forza), di Nike e Zelo. Di contro c’è la polis.
«La polis è il soggetto
collettivo che, al riparo delle sue mura, produce la legge. Nel Novecento la
fabbrica ha espresso questa identità collettiva. Non era un’arcadia, non era un
mondo armonico, ma il conflitto si sviluppava fra forze alla pari, mentre ora
c’è una gigantesca asimmetria, l’individuo si trova in competizione con
un’infinità di potenziali nemici in concorrenza fra loro, allo stesso grado
della piramide sociale. La crisi della politica è dentro questa dissoluzione
degli aggregati sociali. I grandi poteri non hanno volto, non si sa dove siano
ma si sentono quando cala la scure, come ad Atene, dove le maestre raccontano
che gli allievi svengono in classe per la fame».
Lei usa un altro mito, quello di
Ulisse che con l’astuzia ascolta ma resiste al canto delle sirene. «Nell’orrore
in cui siamo precipitati c’è la perdita del racconto. Ulisse trasforma le
sirene da cantanti in canto, in una ricapitolazione di senso. È la parabola della
civilizzazione che, con la storia, dice all’uomo chi è. Oggi il racconto non
c’è più, al suo posto c’è uno zombie, qualcosa che assomiglia alla storia ma
non lo è. Lo story telling che viene dall’alto non racconta l’esperienza del
passato ma disegna i comportamenti futuri».
Viene in mente una canzone di
Francesco De Gregori, «La storia siamo noi». Non è più così? «Con lo story
telling è il potere che riconfigura la storia degli uomini, cominciò Ronald
Reagan ad utilizzare questa tecnica del marketing. Con Bill Clinton sono
arrivati gli spin doctors alla Casa Bianca. Nel libro ricordo la performance di
Colin Powell alle Nazioni Unite, durante la presidenza di Bush Junior, che usò
la menzogna delle armi di distruzione di massa per motivare l’attacco all’Iraq.
E i media non sono innocenti, sono un pezzo di questo dispositivo, che usa
simulacri, frammenti della storia, cose morte in funzione del potere».
(…). Lei ragiona sulla polis ma
il mondo si è fatto più grande, si è globalizzato.
«La polis è lo spazio ordinato
che respinge fuori dalle sue mura il caos esterno. Noi abbiamo giustamente
gioito quando sono caduti tutti muri, compreso quello principale, con la M
maiuscola. Ma abbiamo sottovalutato le conseguenze, l’irruzione del caos, il
ritorno di forme primordiali del potere. I demoni del potere, che la Grecia
antica conosceva bene e sapeva dominare: lo specchio di Perseo, le corde che
legano Ulisse all’albero sono delle tecniche che pongono un diaframma fra noi e
il potere nudo. Consentono di dominare il racconto anziché esserne dominati.
D’altra parte il Novecento è disseminato di indizi, sulla fine del racconto. Fu
Primo Levi a parlarci della Medusa. La fine del racconto è nella inenarrabilità
dell’esperienza limite, di Auschwitz».
sabato 20 ottobre 2012
Sfogliature. 13 Il wcm e le nuove povertà.
È fortunosamente sopravvissuta,
nel mio e-book, una sezione del defunto blog che aveva per titolo Tatze-bao. Ho
così “ripescato” – alle pagine 2542 e 2543 - il primo post (16 di giugno 2010) di
quella sezione che ha per titolo “Il wcm
e le nuove povertà”. Mi ha spinto a farlo la visione del film “Le
couperet” – uscito in Italia il 10 di febbraio dell’anno 2006 col titolo “Cacciatore di teste” – del grande regista
Costa-Gavras. Il film è dell’anno 2005: si era ancora ben lontani dalla crisi
dei mutui “sub-prime” e dalla crisi
finanziaria globalizzata. Ma uno dei protagonisti – riferisco a memoria – ad un
certo punto chiede: a chi saranno vendute le merci se si impoveriscono le
grandi masse del ceto medio dell’Occidente? Una profezia? No. Una banalissima
constatazione. E siamo all’oggi, con la crisi dei consumi. Scrive Étienne
Balibar nel Suo lavoro “Cittadinanza”
– (2012) Bollati Boringhieri, pagg. 178 € 9 -: “(…). …il neoliberalismo non è
soltanto una ideologia, è una mutazione della natura stessa della politica,
veicolata da attori che si collocano in tutti i comparti della società. In
realtà si tratta della nascita di una forma altamente paradossale dell’attività
politica, perché non soltanto tende a neutralizzare quanto più possibile
l’elemento di conflittualità insito nella sia figura classica, ma vuole
privarla preventivamente di ogni significato, e creare le condizioni di una
società in cui le azioni degli individui e dei gruppi (anche quando sono
violente) rientrano oramai in un unico criterio: quello dell’utilità
quantificabile. Non si tratta dunque tanto di politica quanto di antipolitica,
di neutralizzazione o di abolizione preventiva dell’antagonismo sociopolitico.
(…)”. E l’Italia ha rappresentato un ottimo laboratorio di
sperimentazione socio-politica. Ed il governo dei “tecnici” è stato
pedissequamente nella scia del neoliberalismo che è il progenitore
dell’antipolitica al potere.
“Chi poteva immaginare, solo una
decina di anni addietro, che il cosiddetto capitalismo finanziario avrebbe
messo in pericolo l’esistenza del capitalismo stesso? Che avrebbe messo così a
nudo le sue contraddizioni?”. Predrag
Matvejevic, nato a Mostar nella Bosnia-Erzegovina, è professore ordinario di
slavistica all'Università la Sapienza di Roma. È guardando l’eterno respiro del mare, il suo avanzare e poi il
suo indietreggiare incessante, incurante degli esseri umani e dei loro affanni,
che l’idea si è fatta prepotentemente strada. L’idea è però trasferita ed
applicata alle quotidiane cose degli umani. Che non hanno un respiro eterno.
L’onda avanzante della globalizzazione non ha risparmiato angolo alcuno del pianeta
chiamato Terra. È avanzata prepotente, dirompente, quasi senza ostacolo alcuno.
Ma da quell’atto dell’avanzare ne sta seguendo un altro di arretramento, che
trascina con sé la sorte e la morte dei “diritti sociali“ prima faticosamente
conquistati. Era scritto nelle cose. Sarebbe stato giusto e segno di
lungimiranza guardarci dentro con più attenzione. Nel riflusso dell’onda lunga
della globalizzazione si pretende di estendere, per ogni dove, le nuove regole,
quelle imposte prima ai paesi poveri di un tempo: pochi diritti in cambio di un
lavoro che sia. L’onda lunga del capitalismo globalizzato ritorna così con il
suo “eterno” fluire, flusso e
riflusso, cercando di imporre, in tutti i contesti sociali ed economici, le
regole delle nuove povertà, povertà nei diritti se non ancora nei salari, in
tutti gli anfratti produttivi del pianeta Terra. Vorrà significare ciò
Pomigliano e la sua storia? Diverranno tutti i luoghi di produzione dell’Occidente
del pianeta Terra tante “pomigliano”,
con un lavoro che sia, ma senza diritti? E se poi si imponesse alle nuove “pomigliano”, sempre in cambio di un
lavoro che sia, anche salari più bassi e meno diritti ancora? Vincerà su tutti
i fronti l’onda del riflusso della globalizzazione? A chi dice che è sempre
meglio un lavoro che sia, anche senza i diritti faticosamente conquistati dalle
masse operaie dell’Occidente avanzato, un lavoro che sia magari, in un avvenire
ormai prossimo, con remunerazione sempre più bassa, come nella fase del flusso
originario della globalizzazione nei paesi non avanzati, a chi asserisce tutto
ciò, cosa rispondere? “(…) … la
riduzione delle pause da 40 a
30 minuti giornalieri. Un'inezia? Per molti sì, non per le tute blu. Facciamo
un esempio: sulla linea della futura Panda (nella nuova catena di montaggio
della Panda di Pomigliano n.d.r.) la
differenza di 10 minuti equivale a 8,3 operazioni in più per turno, quante se
ne fanno in 600 secondi. Che diventano 25 automobili in più nell'arco della
giornata. In un anno quei piccoli dieci minuti sono diventati 6.650
automobili.(…)”. “6.650”
auto in più prodotte. Così scrive Paolo Griseri sul quotidiano “la
Repubblica” – “La fabbrica che non
spreca un minuto così nasce l’operaio a ciclo continuo” - a proposito del World
class manufacturing – il Wcm -, ovvero la cronometrizzazione computerizzata del
lavoro umano in quel di Pomigliano. Auto in più, tante, tantissime, da vendere
a chi, se gli operai saranno sempre di più depredati non solo di diritti ma
anche del salario? Questo surplus di produzione, troverà uno sbocco nel mercato
globale impoverito? O forse poi, attaccando sempre sulle stesso fronte, per
smaltire il surplus produttivo, si richiederanno altri sacrifici ancora per un
lavoro che sia? Senza diritti e poco salario? Non diviene tutto ciò una
stortura, una contraddizione? L’immagine del cane che cerca di mordere la
propria coda; è forse l’immagine di un capitalismo senza più una via d’uscita? Ne ha scritto il sociologo del lavoro Luciano
Gallino sul quotidiano “la Repubblica” col titolo “La globalizzazione dell´operaio”. Di seguito lo trascrivo in parte.
“(…) …19 pagine sulle 36 del
documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla
‘metrica del lavoro’. Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i
movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e
dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo.
Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l´analisi dei
tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c´è
l´uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma
soprattutto l´adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World
Class Manufacturing (Wcm, che sta per produzione di qualità o livello
mondiale). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due
scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture
anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo
di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta
di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza
produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un´azienda deve quindi
puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo
del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa
di utile; dall´altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere
il più elevato possibile. L´ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si
stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la
metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile
come robot. È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita
fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del
Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il
primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più
basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là
da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell´ideologia
neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere
verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinché si
allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi
economica esplosa nel 2007
ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici,
industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è
quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti:
sono i nostri che debbono, s´intende per senso di responsabilità, discendere al
loro livello. (…). Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di
lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro
i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio
paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la
mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla
politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte
con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla
politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative
esistono, per le persone non meno per le imprese”.
martedì 16 ottobre 2012
Sfogliature. 12 Che vuol dire che una cosa è pubblica?
Scriveva (1977 ) quel grande Maestro che è stato Norberto Bobbio in «Italie
’77. Le mouvement et les intellectuels» : (…). Lascio volentieri ai
fanatici, cioè a coloro che vogliono la catastrofe, e ai fatui, cioè a coloro
che pensano che alla fine tutto si accomoda, il piacere di essere ottimisti. Il
pessimismo oggi, mi sia permessa ancora questa espressione impolitica, è un
dovere civile. Un dovere civile, perché soltanto un pessimismo radicale della ragione
può destare qualche fremito in coloro che, da una parte o dall’altra, mostrano
di non accorgersi che il sonno della ragione genera mostri. (…). Ed il
Suo pessimismo ha motivo e ragione d’essere oggigiorno, gli sopravvive come amorevole
lascito Suo, nello spaventevole spettacolo che, dalle Alpi a Capo Lilibeo il
bel paese offre all’intero globo terracqueo. Poiché dal suo orizzonte, intendo
dire del bel paese, è definitivammente scomparso il senso proprio e profondo di
cosa possa intendersi, di cosa voglia « dire che una cosa è pubblica ».
Ripesco nel mio e-book, alle pagine 712 e 713, un post del 15 di luglio
dell’anno 2006 che ripropongo nella sua sempiterna attualità.
Mi è capitato solo l’altro giorno, al mio rientro dalla solatia isola
di Trinacria, di utilizzare come pubblico mezzo di trasporto i famosi traghetti
dello stretto. Sistemati comodamente nel salone grande della nave, ben
refrigerato giusto per contenere il caldo afoso della stagione, si deplorava
con la mia consorte il poco corretto atteggiamento di due gaglioffi che
ineducatamente stendevano le estremità dei loro arti calzati sulle poltrone
loro prospicienti. All’improvviso un piccolo miracolo di efficienza: un addetto
della nave compariva inopinatamente e redarguiva con energia i gaglioffi in
questione. Straordinario! Inatteso! Inimmaginabile! Non ci era mai capitato di
assistere a tanto zelo da parte di un addetto alla cosa pubblica. Ma più
straordinario ancora è stato vedere un altro passeggero, più a noi prossimo,
stendere le sue estremità calzate sulle prospicienti poltrone non appena
sparito lo zelante addetto. Una sfida! Per non tediare più di tanto, la
questione si è risolta al ricomparire dell’addetto e al pronto ritiro in
posizioni più ammodate degli arti del balordo di turno. Al capitolo
ventinovesimo, “Danni da tutti”, del
bel libro di Raffaele Simone “Il paese
del pressappoco”, fonte inesauribile o quasi della rubrichetta “Mal
d’Italia”, si discetta per l’appunto di cosa pubblica e di come la stessa venga
percepita e considerata dagli abitatori del bel paese.
“…che vuol dire che una cosa è pubblica? Significa che non appartiene al
singolo individuo ma alla collettività, quindi che è di tutti. Ma in che senso
è di tutti? La risposta a questa domanda è fondamentale per capire il Mal
d’Italia. Vedo almeno due interpretazioni possibili. Una cosa è di tutti nel
senso che ognuno può farne quel che gli apre: quindi nel senso che è esposta
all’arbitrio di ciascuno, perfino al rischio di essere distrutta nel corso del
suo uso. Ma può esser di tutti anche nel senso che ognuno può farne un uso
libero, ma limitato dall’obbligo di non danneggiarla e di lasciarla integra
perché anche gli altri la usino. Si converrà che l’interpretazione giusta è la
seconda. E lo è, se non altro, per un motivo pratico: è l’unica che lasci che
il bene pubblico sopravviva all’uso che ne viene fatto e possa offrirsi a usi
ulteriori da parte di altri, più tardi e sempre ancora. Quindi, non prevede la
distruzione del bene a seguito del suo impiego, ma ne contempla la
sopravvivenza e il prolungamento nella pubblica fruizione. In questo senso,
direi, quell’interpretazione è più intelligente della precedente. Ma, ahimè,
l’accezione di pubblico che prevale da noi è la prima: una cosa pubblica può
essere usata da tutti senza limiti e può finanche non sopravvivere a questo
impiego e rimanere distrutta nell’uso. Questa peculiare interpretazione, che
costituisce uno dei cardini del Pensiero Italiano, è dovuta al fatto che, mancando
l’alleanza, prevale lo spirito di famiglia. Nei paesi in cui manca l’alleanza,
il senso della collettività è basso o nullo e scende in proporzione anche il
significato di ciò che possiamo trattare come patrimonio collettivo. ‘La
mancanza di una sensibilità comunitaria degli italiani – di una idea di patria
se si preferisce – non si è rivelata né consolidata nei cinquant’anni trascorsi’
assicura un libretto recente (“Il
bisogno di patria” di Barberis n.d.r), ma
‘ chiama in causa almeno cinque, se non quindici secoli’. Quindi è una storia
vecchia di cui noi portiamo le conseguenze. Ma l’antichità del dato di fatto ci
assolve e consola solo in minima parte. (…). Per questo da noi è nato un
concetto di bene pubblico fortemente anarchico e dissipativo, coltivato in
specie dall’ampia fascia di praticanti del pensiero plebeo. Ciò che è pubblico
‘all’italiana’ si caratterizza quindi per due tratti che lascerebbero attonito
uno straniero e darebbero parecchio da fare ai filosofi del diritto. Anzitutto,
il bene pubblico è esposto al rischio permanente di ricevere danni da tutti,
quindi è (in senso letterale) comunemente danneggiabile. Capita spesso infatti,
quando si richiama qualcuno al rispetto della proprietà pubblica, di sentirsi
rispondere: - Non è tuo, è di tutti, quindi ne faccio quel che voglio! – Battute
volgari di questo genere offrono la migliore ermeneutica di questa proprietà
costitutiva. In secondo luogo, il bene pubblico è liberamente appropriabile,
perché viene facilmente assimilato alla proprietà privata, nella quale spesso
trapassa per una semplice confusione dei confini. Il paralogismo sottostante è
semplice: se è di tutti è come se fosse di nessuno, quindi può diventare mio. In
questo modo gli italiani mostrano di creder davvero che ‘dal punto di vista
della razionalità individuale il bene pubblico non esiste, è un’entità che
trascende il mondo dell’esperienza individuale‘. Chi glielo fa fare, a loro, di
curarsi di qualcosa che non esiste neppure? ‘I beni pubblici, essendo al di là
di questo mondo, sono perseguiti solo dagli ipocriti o dai folli’, non dai
furbi che noi siamo. (…)”.
È sempre il pessimismo del grande
Maestro che ha ispirato Carlo Galli nello scrivere – su la Repubblica del 19 di
luglio 2012 - “Lo scandalo del
Porcellum”? (…). La pretesa di garantire
tutto e tutti – di neutralizzare la volontà dei cittadini, di minimizzare
l´esito delle elezioni, poiché non le si può proprio evitare – porta con sé
naturalmente la ridda dei veti incrociati e in ultima istanza la paralisi: (…).
È, questa, una nuova edizione della logica della tela di Penelope, fondata sul
meccanismo del "rilancio": poiché non si può dire semplicemente No al
cambiamento, è meglio spostare il confronto ad altezze del tutto impraticabili,
(…) che è come rinviare il fattibile a quando sarò realizzato l´infattibile.
Ovvero, è fingere di darsi molto da fare perché nulla cambi. (…). Il ceto
politico è una parte importante delle élite di un Paese. Il fatto che – nella
sua maggioranza – non sappia affrontare alcun rischio, né assumersi alcuna
responsabilità, né riconoscersi in un orizzonte generale a cui chiamare il
Paese, ma pensi solo (e malamente) a se stesso, non è che una parte del nostro
più grave problema: l´assenza (o la presenza minoritaria) di élite degne di
questo nome, lo sfrangiarsi dell´establishment in innumerevoli cordate che
parlano ormai solo il dialetto locale delle categorie e ignorano la lingua
nazionale della politica. (…). Per dirla a muso duro, han ben poca
coscienza di come possa definirsi la “cosa pubblica”. Io resto
irrimediabilmente “pessimista”. E non per un atteggiamento snobistico, per paura
delle “élite”. Se sono queste le “élite”, come non esserlo? Che il
grande Maestro sia stato un impolitico?
sabato 13 ottobre 2012
Cosecosì. 30 Ove tanto spesso si ha la sfrenata voglia di fuggirne.
Scrive Mila Spicola, insegnante e scrittrice, nella Sua nota “La giornata degli insegnati. Ma c’è poco da festeggiare” pubblicata sul quotidiano l’Unità: (…). Ieri (il 5 di ottobre n.d.r.) è stata la giornata mondiale degli insegnanti però si è mandata alla malora in Italia la tradizione della ricerca educativa avanzata. Oso dissentire poiché di una “ricerca educativa avanzata”, nella scuola pubblica del bel paese, non se ne ha notizia da un cinquantennio almeno. Intendo parlare di “ricerca educativa”, senza aggettivazione alcuna, che non abbia rappresentato solamente episodi sporadici di illuminate iniziative di questa o quella scuola, né tanto meno il tran-tran della cosiddetta formazione in servizio, ma la trama e l’ordito profondo di quel prezioso tessuto educativo del quale la scuola pubblica in quanto tale avrebbe dovuto indossare. Nulla di tutto ciò. Ho riportato nel mio volume “I professori” – AndreaOppureEditore (2006), capitolo VIII “Ove tanto spesso si ha la sfrenata voglia di fuggirne” – alle pagine 38 e 39 una esperienza personale di “formazione in servizio”: (…). …ricordo di un pomeriggio tra i più tediosi della mia vita non solo scolastica, ma personale proprio. Si era all’ascolto di un ispettore del ministero della pubblica istruzione che avrebbe dovuto illuminarci, dall’alto della sua sconfinata abilità nel leggere ed interpretare la miserevole, orrenda, inintellegibile prosa del ministero stesso, sulle questioni più innovative nella nobile arte dell’educare. Ovvero, nell’arte dell’intrattenere, ché questo in fondo è lo spirito che ha pervaso le ultime innovazioni in campo scolastico. Divenire intrattenitori, così come alla Tv. Ma quel buon diavolo di ispettore risultava essere, quel tedioso pomeriggio, il peggiore di tutti gli intrattenitori di questo pianeta chiamato Terra. E non mi soccorreva la vista del dorso coperto di una collega molto allegramente abbigliata, avendo incautamente occupato un banco nella primissima fila, come si conviene ad un diligente ascoltatore. Tant’è che la pennichella piano piano riusciva ad impossessarsi delle mie falcoltà attentive, con grande mio scorno al timore di essere scoperto del tutto su di un ospitale pianeta dei sogni. Fu necessario allora allertare l’attentività con un banale espediente; mi soccorreva il possedimento di un blocchetto di appunti e di una penna, diligentemente portati appresso. Ma per segnarci cosa? Semplicissimo. Tutte le citazioni del magnifico e sapiente ispettore ministeriale, all’uopo cinicamente richiamate alla nostra non-memoria in quell’assurdo silenzio di quel tedioso pomeriggio scolastico; leggi, circolari, ordinanze, testo unico, e via discorrendo. Sorpresa! All’indomani, verificate sui sacri testi quelle dottissime citazioni che tanta soggezione e meraviglia avevano suscitato nell’uditorio semiaddormentato, scoprimmo, con altri volenterosi e caparbi colleghi, che non una, ma dico una sola, di quelle citazioni avesse una pur lontana attinenza con gli argomenti che l’illustre ispettore avrebbe dovuti renderci chiari, al di là di ogni nostro possibile futuro dubbio. Così sono sempre andate, e mi sorregge in tale affermazione la mia diretta esperienza, e vanno le cose nel mondo della scuola; ed oggi ci si interroga sui suoi imprevedibili e calamitosi futuri scenari. Gli scenari futuri allora vagamente immaginati sono sotto gli occhi di tutti. Continua Mila Spicola nella Sua interessante nota: È giunta l’ora dell’improvvisazione. La fregatura, per noi docenti, è che siamo così masochisti da amarlo questo lavoro e da andare avanti comunque. Col capo maledettamente chino sui nostri registri e gli occhi puntati sui nostri ragazzi. Eppure sarebbe l’ora di occuparci anche del nostro mestiere. Sarebbe il momento di guardarli in faccia questi ragazzi e interrogarci sul serio: «Che cosa vi stiamo facendo? Che cosa vi stiamo togliendo?». E poi, ci basta davvero sentire dire ogni tre mesi «siete degli eroi» e avere, comunque e sempre, calci e pugni metaforici in bocca, chiunque sia a darli? A me no. Non so a voi. Vorrei che la scuola tornasse al suo pilastro fondamentale, occuparsi del progetto educativo in modo professionale e aggiornato. Con i mezzi migliori forniti dalla ricerca e dallo studio, non dal governo che passa. Ieri è stata la giornata mondiale degli insegnanti. E oggi? L’oggi vede, come da sempre, una scuola che non ha un “progetto educativo” che sia, poiché su di esso non si è mai provato a discutere ed a riflettere. Ha imperato l’improvvisazione. Responsabilmente, da educatori, si dovrebbe cogliere il momento per guardare “in faccia questi ragazzi e interrogarci sul serio: «Che cosa vi stiamo facendo? Che cosa vi stiamo togliendo?»”. Non lo si fa, da sempre. Ne ha scritto Francesca Giusti in “Lettera di una professoressa” (1998): (…). Come è possibile parlare di un lavoro amato, che ha dato vita, allegria, un ritorno culturale e affettivo e, al tempo stesso, accostarlo di continuo ad angoscia, schizofrenia, panico, desiderio di fuga? È colpa solo dei cattivi ministri e della politica scolastica del nostro paese? Nulla volendo togliere ad anni di incuria, danni e malgoverno e nulla volendo togliere neanche ai ministri, non è così. Non è solo da questo che nasce il nostro malessere più profondo. La sofferenza insostenibile (che questo sia chiaro o rimosso) è continuare a far scuola come quando questa assicurava un futuro, un lavoro a generazioni che non hanno più davanti a sé né l'uno né l'altro. È questa angoscia del non-progetto, del non-futuro che si riversa su di noi, impreparati, impotenti a gestirla. Quasi tutti, forse persino i più giovani che lavorano nella scuola, siamo cresciuti all'interno di una dimensione del mondo proiettata al futuro. Educazione e scuola servivano a preparare e garantire questo futuro. Non a tutti. È in questa mancanza di un progetto, anzi del “progetto”, che continua ad essere la disperante condizione propria della scuola, la sua inidoneità a lanciare messaggi di speranza per il futuro delle giovani generazioni. Sta in questa condizione di irrilevanza il dramma di sempre che la scuola non riesce a scrollarsi di dosso non avendo coscienza di un “progetto educativo” che sia al contempo “professionale e aggiornato”. Ha scritto ancora Francesca Giusti nella Sua “lettera”: “Se lo studio non serve a costruirsi una vita e non è nemmeno servito a cambiare il mondo, a che cosa potrebbe servire? È qui il vero peso. Da qui deriva la tentazione di fuggire, di fare lo struzzo. Gli eserciti che vogliono andare in pensione. L'assenza di futuro in tutte le sue manifestazioni”. Di un progetto mancato – istruzione/educazione - nella scuola pubblica del bel paese ne ha scritto di recente sul settimanale “D” il professor Umberto Galimberti – “Professori parlate al cuore” -: Bisogna evitare che i giovani a scuola si sentano stranieri nella propria vita. In cattedra si sale per impartire un'istruzione, (…) ai "miei ragazzi". E in questo aggettivo possessivo c'è già quel riferimento affettivo, (…) alla condizione essenziale perché l'istruzione possa essere efficace. L'elemento affettivo fa la differenza tra "istruzione" ed "educazione" perché, a differenza dell'istruzione, l'educazione prevede anche la cura dell'emotività dello studente, in quella stagione adolescenziale dove i fattori emotivi sono non solo più potenti di quelli intellettuali, ma soprattutto perché la mente non si dischiude se non si apre quello che (si) chiama il "cuore". (…). Attraverso questo coinvolgimento, i ragazzi costruiscono la loro identità, che è poi il sentimento che uno ha di sé, base della propria autostima, senza la quale non c'è impegno, non c'è interesse, non c'è motivazione. E di conseguenza non c'è apprendimento. Ma quanti sono i professori che si preoccupano del coinvolgimento emotivo dei loro studenti? E sappiano condurli dall'impulso (che ci è dato per natura, e che si esprime con azioni e reazioni irriflesse e talvolta violente come nel caso del bullismo), all'emozione spesso spenta nei nostri ragazzi, che non di rado appaiono indifferenti ad ogni evento? Senza una partecipazione emotiva non si accede al sentimento che, come l'umanità ha sempre saputo, non è un dato di "natura" ma di "cultura". Per questo in ogni tempo e in ogni luogo si è provveduto, con racconti mitici e oggi letterari, a segnalare cos'è l'amore, il dolore, la noia, la disperazione, l'entusiasmo, la gioia. Infatti solo quando si conoscono i nomi e i percorsi di quanto si agita nel nostro cuore, è possibile evitare l'angoscia che sempre accompagna i turbamenti emotivi, così frequenti e intensi nell'adolescenza, soprattutto quando restano sconosciuti e, in quanto sconosciuti, ingestibili. Senza questa cura per la formazione del sentimento, che è la via d'accesso all'apertura della mente, l'istruzione non arriva al cuore e perciò non diventa processo formativo, così importante in quell'età incerta e faticosa che è l'adolescenza, dove la comparsa della sessualità chiede, come ci insegna Freud, il duro lavoro di una riformulazione della propria visione del mondo, e dove la formazione della persona non solo è più importante delle competenze che si possono acquisire, ma è anche la condizione per cui si possono acquisire.
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