A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.
Ho conosciuto Piero Bevilacqua. Al tempo non ancora il professor Piero Bevilacqua. È che le nostre sporadiche frequentazioni risalgono alle nostre età adolescenziali. La memoria mi rimanda il ricordo delle interminabili partite di calcio su di un semplice spiazzo sterrato di quella che, nella mia città, era allora denominata la Scuola Agraria. Si correva per ore ed ore dietro ad un pallone, con le normalissime, magari consunte scarpe allo scopo conservate e riutilizzate. Non si aveva, a quel tempo, la possibilità di magliette, calzoncini e scarpette per come oggi si usa; importante era giocare. Le nostre frequentazioni si interruppero al tempo dei nostri studi universitari. Partimmo, come migranti del sapere, verso sedi universitarie diverse. Ho conosciuto molto meglio la famiglia di Piero, soprattutto i suoi fratelli. Piero ha fatto uno stupenda carriera universitaria divenendo infine professore ordinario di storia contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma. Ho seguito con interesse la Sua attività editoriale che oggigiorno annovera un gran numero di pubblicazioni; soprattutto mi ha interessato conoscere il Suo pensiero al riguardo della storia del Meridione d’Italia e dei suoi ritardi nello sviluppo economico e sociale – tanto per citare, “Breve storia dell'Italia meridionale. Dall'Ottocento a oggi” (2005) Donzelli Editore pagg. 240 € 12,90 -. Certamente non condivide, a proposito del Mezzogiorno, quanto ebbe a dire Giustino Fortunato, considerato grande meridionalista (1848-1932): “La questione meridionale è tutta qui. Noi meridionali siamo bigotti e superstiziosi, ma non crediamo in Dio. E chi non crede in Dio non crede nel domani. E chi non crede nel domani non pianta alberi: li lascia distruggere dalle sue capre quando sono ancora virgulti. Vada a vedere i nostri calanchi e se ne accorgerà. (…)”, considerazione che il grande di Indro Montanelli ha riportato nel Suo splendido volume di memorie “Soltanto un giornalista”. Piero Bevilacqua ha fatto ben altre analisi. Sono andato a riprendere un vecchio ritaglio di un suo pensiero che, al tempo, ho maldestramente conservato senza annotarne la data di pubblicazione ed il tema: (…). Se il nostro tempo tende a prosciugare l’acqua viva della memoria, essa andrà compensata dalla scuola che, cittadella della restaurazione, deve elaborare una linea di difesa, ritrovando l’orgoglio di essere protagonista, in un progetto che mira a ricostruire una società dotata di senso. (…). Per dire della sensibilità del Nostro alle problematiche educative e della formazione delle giovani generazioni. Ho ritrovato Piero Bevilacqua sul quotidiano la Repubblica in una recentissima intervista concessa a Francesco Erbani, intervista che ha per titolo “Prendersi cura del mondo”. L’intervista, che di seguito trascrivo in parte, è stata pubblicata in occasione dell’uscita dell’ultimo lavoro di Piero Bevilacqua che ha per titolo “Elogio della radicalità” - (2012), Laterza Editore pagg. 184 € 16,00 -.
(…). L´elogio della radicalità come l´elogio della follia di Erasmo da Rotterdam? «Erasmo contrapponeva un modo di pensare ragionevole, fondato sul buon senso al dottrinarismo astratto. Nel nostro tempo il dottrinarismo astratto pretende che il mercato aggiusti da sé ogni cosa e che compito della politica sia di oliare la macchina».
E i moderati, lei dice, sostengono questo assetto? «Assumono i rapporti di forza esistenti come un dato di realtà immodificabile. Ma che cosa c´è di moderato nella pretesa delle imprese di avere prestazioni sempre più intense dai dipendenti, i quali sono sempre più precarizzati? E che cosa nella spinta a un consumo senza limiti, pur che sia, che divora risorse e che porta dissesti nei complicati equilibri del pianeta?»
E sarebbe questo il vero estremismo? «È estremista l´ideologia di una società fondata sulla competizione ossessiva. Noi abbiamo conosciuto la torsione berlusconiana del moderatismo, che era estremismo allo stato puro. E non parlo dei comportamenti sessuali, ma dello stravolgimento di ogni regola istituzionale».
E il radicalismo, invece? «Chi viene definito radicale ha una prospettiva rovesciata. Propugna la riduzione degli sprechi, individuali e collettivi. Combatte la bulimia distruttiva di risorse, la mortificazione dell´operosità ridotta a merce. Insomma valori che recuperano la base etimologica del moderatismo, il latino modus, misura».
È la decrescita teorizzata da Serge Latouche, che tante polemiche solleva. «Non credo molto nella praticabilità politica di alcune tesi di Latouche. Ma del suo messaggio mi convincono il rifiuto del consumismo compulsivo e di una crescita illimitata che sperpera suolo, natura, biodiversità, cioè i patrimoni su cui è vissuta l´umanità. Quello di Latouche è comunque un linguaggio moderato».
Lei sostiene che questo capitalismo avrebbe perso capacità egemonica. «Il capitalismo è il primo sistema economico portatore di egemonia, non solo di dominio. Cattura consenso, dicevano già Marx ed Engels. Ma ora cedono entrambi i pilastri su cui si è retta questa abilità, la stessa che gli ha consentito di vincere il comunismo alla fine del XX secolo. E cioè la capacità di produrre ricchezza come nessun altro sistema nella storia umana, una capacità smentita ancor prima della crisi: sono aumentate le disuguaglianze, la ricchezza è nelle mani di sempre meno persone e nel 2000 nei paesi Ocse c´erano 35 milioni di disoccupati, senza contare i precari».
E il secondo pilastro? «La liberazione dell´uomo, trasformata in un individualismo patologico. Zygmunt Bauman e schiere di filosofi denunciano l´infelicità prodotta dalla malattia esistenziale di uomini e donne spinti a fare da sé, a scollarsi dalla società. Ormai dilaga la letteratura medica sui malesseri che affliggono i ceti alti, prodotti da frustrazione e da assorbimento totale nel proprio ruolo lavorativo. All´inverso si camuffa la precarietà con la creatività, provocando lo sbriciolamento dell´identità individuale. Storicamente il capitalismo ha sempre promesso un miglioramento costante della condizione umana, attraverso sia il lavoro, sia il progressivo accorciamento dei suoi tempi. Ora entrambi vengono negati. E con essi ogni promessa di felicità, il che non produce più consenso».
È una crisi di sistema, dunque? «La crisi dell´egemonia, non è la crisi del dominio. Si comanda, ma senza consenso, promuovendo anche forzature nelle regole democratiche». (…).
Nessun commento:
Posta un commento