L’ intransigenza non appartiene al carattere degli italiani. Gli intransigenti sono rari, un’élite. (…). Gli intransigenti sono quelle persone che sono disposte a sacrificare il proprio particolare per l’idea in cui credono. Da questo punto di vista Gobetti è stato un bell’esempio. Lo Stato italiano non lo è. (…). Intransigenza vuol dire anche non perdonare, non dimenticare con troppa leggerezza. La mancanza di intransigenza crea bambini viziati, non liberi cittadini. (…) … abbiamo dimenticato il vero significato di carità. (…) …l’intransigenza è perfettamente coerente con la carità (…). La vera carità è una forza interiore che ti spinge a punire (e a premiare) secondo giustizia per il bene pubblico: né vendetta, né favore. (…). Noi dovremmo educare (…) all’idea che essere cittadino richiede anche una forza interiore che ti spinge ad esigere che la repubblica sia intransigente. Così sosteneva Norberto Bobbio nel volume “Dialogo intorno alla Repubblica” curato da MaurizioViroli. È l’intransigenza il quid che ci manca? È certo che non ad un quid di quella natura alludesse il signor B. all’indirizzo del suo segretario di partito, suo nel senso più pieno dell’aggettivazione, poiché divenuto tale per unica sua decisione e sua personale proclamazione. Nel PDL, ovvero il “Partito di lui”, di prossima scomparsa per sua decisione e proclamazione da venire su di uno strapuntino o qualcosa d’altro, ma sempre sopra un necessario rialzo, l’intransigenza di Bobbio non ci sta di casa. Sono convinto che tutto ciò sia una caratteristica antropomorfica propria dell’italico popolo, una costante storica, sociale, che la sua cultura, impregnata sino al midollo di quella che è stata la controriforma, ha plasmato nel tempo sino a penetrare nelle coscienze a prescindere, come direbbe il grande comico, dalle condizioni storiche, politiche e sociali che il Paese si trova a vivere. Il quid dunque, che i padroni si concedono di attribuire agli altri o di sottrarre agli altri a loro esclusivo compiacimento. È su quel quid di quel tale cavaliere, che Francesco Piccolo assimila, con l’arguzia Sua di sempre, al famoso ‘basta la parola’ di Tino Scotti davanti al purgante che si è costruita e retta da sempre la vita associata del bel paese, e pure la sua politica, e le relazioni tra la miriade di componenti, confraternite, sagrestie, congreghe che costellano il vasto panorama della vita pubblica. “Da Montale al cavaliere il paese senza quid” è per l’appunto il titolo della riflessione di Francesco Piccolo sul quotidiano la Repubblica che di seguito trascrivo solo in parte.
(…). Perché il quid può essere mancato anche per eccesso: troppo quando appare senza essere evocato e troppo poco quando sparisce senza essere distrutto. Infatti il quid, indefinito e indefinibile segnalatore della quantità che si muta in qualità, in politica come in cucina è l’arte magica degli ingredienti: ‘sq’, secondo quantità, prescrive la Bibbia dei ricettari, ‘Il Cucchiaio d’argento’. Mia madre raccomanda ‘quanto basta’, ‘un pizzico’ , ‘un’anticchia’ … E cosa vuole dire che ‘il burro deve fondere, ma non friggere?’. Vuol dire che il quid ‘è il tempo di un Padrenostro’ tagliava corto mia nonna, senza sapere che il quid misterioso dello sciogliersi senza friggere è anche la forza della leadership, ed è un quid che fa il carattere dell’uomo di carattere: quid, anime, titubas? cuore, perché vacilli? (…). È davvero un vecchio sciamano questo Berlusconi che inaspettatamente ripropone, nel triste fine carriera, il suo antico e solo talento, quell’istintivo quid di artista dell’avanspettacolo che gli permette di sintetizzare inconsapevolmente l’Italia in un solo pronome indefinito. Il suo quid è sicuramente un quid pluris, meglio ancora del famoso ‘basta la parola’ di Tino Scotti davanti al purgante, il confetto Falqui. Certo, Berlusconi voleva solo disfare quel che aveva fatto, aggiungere il suo quid malum alla dissoluzione del mondo che pure ha creato e dove ormai Schifani chiama Alfano ‘l’Alfan prodige’ e Alfano chiama Schifani ‘la seconda scarica dello Stato’. E invece senza volerlo ha trovato la parolina che contiene la nostra vita ed entra di diritto in quell’ elenco di frasette, battutine, libretti e canzoncine che racchiudono un’ epoca, come swing, come je je … come zero tituli, come ‘cchiù pilu ppi tutti’. Oggi infatti un quid ci impedisce di essere pienamente europei; per un quid non abbiamo battuto l’Inghilterra nel rugby; le sconfitte della sinistra sono tutte per un quid; alle primarie del Pd ci si stupisce ogni volta per un prevedibile quid di imprevedibilità; alle liberalizzazioni di Monti manca un quid di vero e definitivo liberalismo; un quid culturale ci impedisce di costruire la Tav: ‘Non amo / chi sono, ciò che sembro. E’ stato tutto un qui pro quo. E’ un ‘osso di seppia’ e dunque è perfetto, ma la formula corretta sarebbe quid pro quo, perché il quid indicibile è anche la forza di ogni ambiguità, la direzione di ogni doppio senso, la sostanza di ogni atto mancato. Per un quid Berlusconi non è stato il nostro Reagan, aveva un quid di troppo per essere soltanto un mascalzone, un imponderabile quid di dissolutezza lo ha estenuato nella prostituzione di Stato. (…). Ecco, c’è stato in tutti questi anni un quid sovranazionale, uno storico quid che, pur tra tante differenze di forma e di misura, ha reso simili Berlusconi, Gheddafi e Putin. Di quell’Asse Internazionale della Satrapia il quid ormai è rimasto solo a Putin. Berlusconi, che lo ha perso, lo va cercando nel povero Alfano: quid mihi agis, che mi combini?. Cerca con la lanterna spenta il Quid metafisico come Diogene cercava l’Uomo con la lanterna accesa.
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