A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.
La politica senza qualità è il titolo di una attenta riflessione del filosofo, storico e sociologo tedesco Jurgen Habermas, riflessione pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 12 di aprile dell’anno 2011, che di seguito trascrivo in parte. Oggigiorno è un gran dibattere, allarmato, attorno a questa politica al momento posta in una condizione di esclusione (?) dalla conduzione della cosa pubblica. È che la politica, massimamente nel bel paese, si è rivelata essere in ritardo, se non indietro assai, culturalmente, nella prassi e nell’etica, nei confronti delle problematiche nuove che la crisi del capitalismo finanziario le ha rovesciato addosso. È pur vero che non in tutti i luoghi essa, la politica, si sia fatta trovare del tutto impreparata e colpevolmente disposta ad ignorare l’avvicinarsi delle nubi nere della recessione, pur di non dover assumere impegni ed oneri che comportassero un grave prezzo in chiave elettorale; così come è pur vero che la politica senza qualità di Habermas ha rinunciato da un bel pezzo a svolgere una qualsivoglia azione pedagogica preferendo invece di uniformare, per utilizzare la straordinaria intuizione del Nostro, il suo agire all'imperativo di trovarsi in sintonia con gli umori del pubblico, rinunciando di fatto a rendere la democrazia quella occasione unica, impegnativa, il più delle volte di difficile gestione, durante la quale le tornate elettorali possano acquisire il significato vero e pieno, solamente per una vera democrazia, di una compartecipazione (…) in relazione ad opinioni articolate pubblicamente, formatesi attraverso la comunicazione e lo scambio di informazioni, motivazioni e posizioni pertinenti ai singoli temi. Di tutto ciò si è persa la traccia. È da tempo immemore che diserto i talk show della televisione pubblica e delle televisioni private; ogni qualvolta abbia dedicato il mio tempo ad essi, mi sono ritrovato nella condizione disdicevole, ed umiliante al contempo, di essere considerato quel dodicenne non troppo sveglio al quale sia possibile somministrare impunemente, metodicamente, mitridatizzandolo convenientemente, con il sottile veleno del disimpegno e dell’antipolitica, un impasto di opinioni ridotte a una specie di poltiglia, tanto che anche l'ultimo dei telespettatori perde ogni speranza di trovare tra i temi politici qualche motivazione che conti veramente. E così è sempre più facile, per “la politica senza qualità”, occupare il potere, dettare i temi ed i tempi del vivere comune. Ecco: la crisi offre l’opportunità di riflettere anche su questi aspetti che non sono affatto secondari, come potrebbe sembrare al confronto con il tema del micidiale attacco alla stato sociale, poiché da una “politica senza qualità” non possono che sortire affanni e danni sempre più grandi e non sanabili. Poiché la crisi ha posto ciascuno di noi, nella nostra consapevolezza di cittadini che siano riflessivi, nella condizione difficile espressa da Zygmunt Bauman – “Lo spettro dell’indignazione” Micromega n° 8/2011 pag. 180 – in questi termini: “(…). Il potere e la politica vivono e agiscono separatamente l’uno dall’altra e il loro divorzio è dietro l’angolo. Da una parte, il potere vagabonda liberamente nelle distese globali, terre di nessuno, libero da ogni controllo politico e con piena libertà di selezionare i propri target; dall’altra, c’è la politica, privata e deprivata di tutti o quasi i suoi poteri, dei muscoli e dei denti. Tutti noi, individui per decreto del destino, sembriamo abbandonati alle nostre risorse individuali, certamente inadeguate rispetto ai grandi compiti che già dobbiamo affrontare e agli ancor più terrificanti compiti a cui sospettiamo di essere esposti fino a quando non verrà trovato il modo di rispondervi. Alla base di tutte le crisi di cui abbondano i nostri tempi c’è la crisi delle agenzie e degli strumenti efficaci di azione. Da qui, l’intensa sensazione di essere sati condannati alla solitudine di fronte a pericoli comuni. (…)”. Ma esiste un dato che è umano e politico assieme: che di fronte a quella “solitudine di fronte a pericoli comuni” a sentirsi sempre più soli sono e saranno, e per sempre, gli strati sociali sui quali si è riversato il rigore di questa crisi che si suol definire epocale. Falso, falsissimo; in tutte le epoche si è fatto sempre così. Di epocale non c’è proprio un bel nulla. L’avidità della Storia di ripete immutata ed immutabile.
(…). Le crisi - finanziaria, del debito e dell'euro - hanno fatto emergere in piena luce i difetti strutturali di una vasta area economico-monetaria priva degli strumenti per l'attuazione di una politica economica comune. I capi di governo sono giunti alla decisione di compilare, ciascuno per il proprio Paese, un catalogo di misure attinenti alle rispettive politiche finanziarie, economiche, sociali e salariali che di fatto sarebbero di competenza dei parlamenti nazionali (o delle parti sociali). (…) …i parlamenti nazionali - e se del caso i sindacati - si sentono inevitabilmente ridotti al ruolo di semplici esecutori, chiamati a dare il loro assenso a decisioni prese altrove: un sospetto che non può non minare alla base ogni credibilità democratica. (…). Indubbiamente, oggi la politica in generale sembra degenerare verso una condizione che è quella della rinuncia a guardare al futuro con una volontà costruttiva. La crescente complessità delle materie da regolamentare costringe i politici a reazioni di breve respiro, entro spazi di manovra sempre più ristretti. Come se avessero fatta propria l'ottica disvelatrice della teoria dei sistemi, si attengono impudicamente al copione opportunistico di un pragmatismo del potere, guidato dalle rilevazioni demoscopiche e ormai svincolato da qualsiasi obbligo normativo. Alla base di tutto ciò si delinea un'idea della democrazia che il New York Times, dopo la rielezione di George W. Bush, ha bollato col termine di post-truth democracy. Nella misura in cui la politica condiziona tutto il suo agire all'imperativo di trovarsi in sintonia con gli umori del pubblico, rincorrendoli da un'elezione all'altra, la prassi democratica perde il suo significato. Il senso del voto democratico non è quello di fotografare la gamma delle opinioni quali si manifestano allo stato brado, bensì di riflettere il risultato di un processo pubblico di formazione dell'opinione. Il voto espresso nella cabina elettorale acquista il peso istituzionale di una compartecipazione democratica solo in relazione ad opinioni articolate pubblicamente, formatesi attraverso la comunicazione e lo scambio di informazioni, motivazioni e posizioni pertinenti ai singoli temi. I media non sono certo estranei alla deplorevole mutazione della politica. Se da un lato si inducono i politici a lasciarsi andare a esibizioni autoreferenziali di breve respiro, dall'altro i palinsesti subiscono il contagio della fretta che nasce dall'occasionalismo. Negli innumerevoli talk show, con i loro vivaci moderatori (e moderatrici) - sempre gli stessi - ammanniscono al pubblico un impasto di opinioni ridotte a una specie di poltiglia, tanto che anche l'ultimo dei telespettatori perde ogni speranza di trovare tra i temi politici qualche motivazione che conti veramente. Anche i media di maggior rilievo sono contaminati da un processo di crescente fusione tra le classi politica e mediatica - cosa di cui vanno addirittura fieri. (…). Forse le motivazioni che al momento sembrano mancare possono generarsi solo dal basso, dalla stessa società civile. Ma un movimento sociale per l'Europa non è nell'aria. In passato i politici dei vari governi federali si potevano definire in base a prospettive verificabili. Dal 2005 i contorni si sono fatti sempre più confusi. Non si riesce più a riconoscere un obiettivo, a capire quale sia la posta in gioco, al di là del prossimo successo elettorale. I cittadini si rendono conto che questa politica svuotata di contenuti normativi li sta defraudando. E questo deficit si esprime da un lato nella disaffezione verso la politica organizzata, e dall'altro in una nuova contestazione di base. (…).
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