A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.
Questa nuova etichetta è la continuazione ideale della sezione Se il divino diviene il problema di questo b-log, di quando questo b-log “viveva” su di un’altra piattaforma della rete immensa. L’approccio al “temibile” e “terribile” problema rimane essenzialmente lo stesso; scrutare, molto timidamente, pudicamente quasi, a quel rapporto dio/uomo o uomo/dio che, seppur dichiarandomi non credente, mi interessa in verità tanto. e riprendo a farlo per mezzo di quelle “letture” che definirei importanti ma non esaustive, che cercano di penetrarne il mistero. Poiché quel rapporto si risolve il più delle volte in un mistero di difficile, capziosa comprensione. Confesso – per quanto valga la confessione di un non credente, ma tant’è - che l’approccio rimane essenzialmente di tipo “esplorativo”, ritenendomi sensibile ai soli fenomeni registrabili dai nostri sensi, ché tutto il resto mi viene da considerare come necessità, bisogni, che scaturiscano dagli infiniti meandri di quella mente che è custodita mirabilmente nella nostra scatola magica. Forte di queste convinzioni mi ha sempre affascinato pensare a quel rapporto nei termini di quel "deus sive natura" di spinoziana memoria, anche se riconosco come non mi abbisogni una tale identificazione a rendere la mia vita più piena, più responsabile, diversa insomma da come la si potrebbe prospettare senza il credere in qualcosa/qualcuno che ci sovrasti e che diriga i nostri passi, i nostri pensieri. “E un vecchio sacerdote disse: parlaci della religione. Ed egli rispose: (…). Religione non è forse ogni atto e ogni riflessione, e ciò che non è né atto, né riflessione, ma una continua meraviglia e sorpresa che scaturisce nell’anima, persino quando le mani spaccano la pietra o tendono il telaio? Chi può mai separare la sua fede dalle azioni, o il suo credo dalle sue occupazioni? Chi può mai distribuire le ore davanti a sé e dire : - Questa per Dio e questa per me; questa per la mia anima, e quest’altra per il mio corpo? -. Tutte le vostre ore sono ali che palpitano attraverso lo spazio da tutt’uno a tutt’uno. (…). E’ la vostra vita quotidiana il vostro tempio e la vostra religione. Ogni qualvolta vi entrate portate con voi il vostro tutto. Portate l’aratro e la fucina e il mazzuolo e il liuto, le cose che avete fatto per necessità, o per diletto. Poiché nei vostri sogni a occhi aperti non potrete andare al di là dei vostri conseguimenti, o al di sotto dei vostri fallimenti. E con voi portate tutti gli uomini. Poiché nell’adorazione non potrete volare più in alto delle loro speranze, né avvilirvi oltre la loro disperazione. E se volete conoscere Dio non siate dunque solutori di enigmi. Piuttosto guardatevi intorno e lo vedrete giocare coi vostri bambini. E guardate nello spazio; lo vedrete camminare dentro la nuvola, protendere le braccia nel lampo e scendere con la pioggia. Lo vedrete sorridere nei fiori, poi alzarsi per agitare le mani fra gli alberi”. È questa la visione di una vita religiosa che colgo dentro di me ed al di fuori di me e che mi sento di fare pienamente mia, così come me ne viene leggendo e rileggendo il più volte citato “Il Profeta” di Kahlil Gibran dal quale ho tratto il brano appena trascritto. È questa la chiave di lettura che porto con me, in me; è questa la fioca luce di quella lanterna che arde dentro di me e che illumina il percorso di quella ricerca verso la quale sento di non essere indifferente. Trovo grandi assonanze tra quanto scritto da Kahlil Gibran (جبران خليل جبران) - 6 di gennaio 1883/10 di aprile 1931 - poeta, pittore e filosofo libanese, di religione cristiano-maronita, e quanto va scrivendo, sempre dottamente assai, il professor Umberto Galimberti. Una ultimissima Sua riflessione ha per titolo “Il tormento dei santi in paradiso”, lettura importante che ho rinvenuto in uno degli ultimi numeri del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica, riflessione che di seguito trascrivo in parte. È inutile alzare gli occhi al cielo se il cielo è vuoto. Se il problema (…) è perché Dio e i santi, da lui chiamati in cielo, se sono buoni, tollerano il male nel mondo, (…) devo dire che non mi aggiungo a tutti quei filosofi e teologi che intorno a questo tema si sono tormentati per secoli, cercando di far concordare tra loro concetti come libertà, libero arbitrio, provvidenza, predestinazione e quant'altro. Su questo tema preferisco seguire il racconto di Platone là dove, nel Politico (272d - 273e), riferisce che, quando a seguito del "grande capovolgimento (méghiste metabolé)" che ha invertito la direzione degli astri, Dio abbandonò il timone del mondo, gli uomini, lasciati soli, furono soccorsi con il dono delle tecniche, che, per quanto utili, non mancarono di rivelare tutta la loro insufficienza, senza quella "tecnica regia (basilikè téchne)", la politica, che tutte le coordina a partire dall'idea di bene comune. E allora, se seguiamo questa narrazione, la domanda sui mali nel mondo non va rivolta ai santi o a Dio, ma alla politica, da cui dipende la cura dell'ambiente, la distribuzione della ricchezza, l'educazione dei bambini e degli adolescenti ai valori che reggono la comunità, i servizi sanitari che abbiano in vista la salute e non solo il risparmio o peggio il profitto, fino ad allargare l'orizzonte ai problemi della fame nel mondo, ai problemi della schiavitù e all'abolizione di quel male radicale che è la guerra. È alla politica che dobbiamo chiedere queste cose, e non ai santi o a Dio, perché la fede nei miracoli risponde solo al desiderio infantile di vedere d'incanto risolti i nostri problemi e realizzati istantaneamente i nostri desideri. Perché l'età dell'oro, che metaforicamente riproduce l'età dell'infanzia, l'umanità l'ha lasciata da tempo alle spalle, anche perché forse tanto aurea non era. Ed è per questo che ha inventato la storia come emancipazione dall'indigenza e dalla miseria. Solo che, lungo la storia, quello che si è trascurato è il "progresso" come miglioramento delle condizioni della vita umana, perché lo si è confuso con lo "sviluppo", ossia con il semplice potenziamento delle disponibilità tecniche, che Platone giudicava insufficienti se non governate dalla politica, la quale, a differenza della tecnica che sa come si fanno le cose, dispone se e a che scopo si devono fare. Purtroppo oggi la politica non è più il luogo della decisione, perché, per decidere, la politica guarda l'economia, che a sua volta per investire guarda alle risorse tecnologiche, per cui luogo della decisione è diventata la tecnica. A questo punto abbiamo bisogno di un nuovo "grande capovolgimento" che subordini la tecnica alla politica. E solo allora potremo risolvere, se non tutti, certo molti mali nel mondo.
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