(…). …quando la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione della classe dominante, dell’intera società, assume un carattere talmente violento, talmente aspro, che una frazione della classe dominante se ne stacca e si unisce con la classe rivoluzionaria, con la classe che rappresenta l’avvenire. Ed allo stesso modo che nel passato una parte della nobiltà si schierò al fianco della borghesia, così oggi una parte della borghesia fa causa comune con il proletariato, in particolare quegli ideologi borghesi che hanno raggiunto la comprensione teorica del movimento generale della storia. In tutte le classi che al giorno d’oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è la classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi vacillano e periscono con la grande industria; il proletariato, al contrario, ne è il prodotto più specifico. I ceti medi, i piccoli industriali, i piccoli commercianti, gli artigiani, i contadini, combattono la borghesia perché essa minaccia la loro esistenza in quanto classe media. Dunque, non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, perché chiedono che la storia cammini all’indietro. E se questi ceti agiscono in modo rivoluzionario, è perché temono di cadere nel proletariato; essi difendono in tal modo i loro interessi futuri, non quelli attuali; abbandonano il proprio punto di vista per assumere quello del proletariato.(…). Così scrivevano il Moro di Treviri ed il Suo grande ed amorevole mecenate nella parte prima di quello che è stato il “Manifesto”, che annunciava l’aggirarsi minaccioso di uno “spettro (che) ossessiona l’Europa, lo spettro del comunismo”. Sappiamo bene quale sia stata la fine ingloriosa di quel comunismo materializzatosi nel socialismo sovietico. Nel socialismo dei gulag e della industrializzazione forzata, di quella che fu denominata l’economia dei “piani quinquennali” di staliniana memoria, che liquidava quelle pur timide aperture che la Nep – Nuova politica economica - leniniana del 1921 aveva tentato di introdurre negli anni a cavallo della guerra e della sanguinosa rivoluzione bolscevica. Sappiamo bene come da quel socialismo storico non sia sorto l’uomo nuovo che avrebbe dovuto catalizzare le energie della società tutta per l’edificazione di quel paradiso in terra che, nella utopia di quegli uomini, avrebbe concorso addirittura alla scomparsa delle divisioni sociali, alla scomparsa delle “classi”. Una profezia mancata quella del Moro di Treviri? Si è visto come il capitalismo industriale abbia magnificamente giocato le sue carte, attirando nella sua sfera, nel suo alone, quelle classi sociali che ne avrebbero dovuto contrastare il dominio. Sembra quasi che la profezia del Moro si sia verificata e concretizzata all’incontrario: con una fuga in avanti, illusoria, delle classi lavoratrici e sfruttate verso il bengodi che il capitalismo, soprattutto nell’ultima sua versione “finanziaria”, ha fatto baluginare per milioni e milioni di esseri umani. Si era, al tempo di quello scritto – 1848 -, agli albori della industrializzazione più spinta; si era, al tempo, alla presa di “coscienza” di un’appartenenza che configurava quella società, come da sempre in vero, divisa in classi che difendevano sì interessi concorrenti al benessere generale, ma non compromissori. Il resto è storia recente. Ma di un ritorno alla sana contrapposizione e competizione sociale, che superi la indistinta “melassa” nella quale sono affogati gli interessi e gli obiettivi di milioni di esseri umani, risucchiati in un vortice consumistico indistinto a tutto vantaggio del profitto impiegato nella finanziarizzazione della economia globale, processo del quale se ne stanno pagando amaramente le conseguenze, di quel ritorno, dicevo, ne ha scritto sul quotidiano la Repubblica Massimo Giannini col titolo “Il ritorno delle classi”, per l’appunto, del quale scritto trascrivo di seguito una parte. Ne ha scritto, Massimo Giannini, in concomitanza con la pubblicazione, presso l’editore Laterza, di un volume (2012) – pagg. 224, € 12 – a firma di Paola Borgna che intervista il sociologo Luciano Gallino. Titolo del volume: “La lotta di classe” e per sottotitolo “Dopo la lotta di classe”.
(…). Da almeno un ventennio, il colossale inganno (…) è aver fatto credere che le classi non esistono più. E che dunque la lotta di classe è un "residuo arcaico" del vetero-marxismo. Niente di più falso. (…). Oggi è più difficile sezionare un corpo sociale con la precisione chirurgica di Sylos Labini (nel Suo celeberrimo “Saggio sulle classi sociali” Laterza editore – 1988 - pagg.212 € 7,74 n.d.r.) in quei primi Anni Settanta: borghesia vera e propria, borghesia impiegatizia, piccola borghesia, classe operaia, sottoproletariato. È vero che dal dopoguerra in poi, in Italia come nel resto delle democrazie occidentali, l´accesso al lavoro ha consentito a milioni di individui di trasformarsi in cittadini, e di accedere a una piramide sociale con una base sempre più ampia e più solida. Di comprare ieri il frigorifero, oggi il telefonino. Ma nonostante l´omogeneizzazione dei consumi e degli stili di vita, a marcare il perimetro di una classe che resiste c´è la qualità e la quantità del lavoro. A dettare i tempi della storia non ci sono più solo le avanguardie orgogliose della classe operaia, ma le retroguardie silenziose di una "working class" sempre più estesa, precaria e impoverita. Adam Smith sosteneva che la lotta di classe esiste perché operai e padroni non possono essere "complici", visto che i primi lottano per aumentare i salari, mentre i secondi lottano per aumentare i profitti. Gallino aggiorna lo schema: «la lotta di classe, oggi, è quella di chi non è soddisfatto del proprio destino, e vuole cambiarlo, e quella di chi invece è soddisfatto del proprio destino, e vuole difenderlo». Il conflitto è durissimo. La classe dei "capitalisti per procura" che gestiscono trilioni di miliardi di denaro altrui, sta consumando la sua rivincita ai danni della "classe dei perdenti". Le politiche dei governi assecondano la "reconquista" del capitale ai danni del lavoro. Da Bush a Sarkozy a Berlusconi, si riducono le tasse ai ceti più abbienti e alle società, e si sposta il carico tributario a vantaggio della rendita. Così in Italia può succedere che un lavoratore con un imponibile di 28 mila euro e 1.500 ore lavorate paga 6.960 euro di tasse, mentre un redditiere con un capitale dello stesso importo, senza muovere un dito, ne paga 5.600. Nel mondo può succedere che lo 0,5% della popolazione più ricca detenga 69 trilioni di dollari, mentre il 68% della popolazione detenga solo 8 trilioni di dollari. È la disuguaglianza elevata a "modello di sviluppo", che oggi domina la scena. (…). La globalizzazione degenera in delocalizzazione selvaggia fondata sul dumping sociale: Apple assembla un iPhone in 140 pezzi, e nessuno di questi è fabbricato in America. La ricerca di competitività delle merci dal solo lato dei costi svalorizza il lavoro e immiserisce il salario: un lavoratore americano o europeo che guadagna 25/30 dollari l´ora viene licenziato, perché al suo posto lavorano poveri cristi indiani o vietnamiti a 36 centesimi l´ora. La legislazione del lavoro diventa funzionale all´obiettivo di rendere l´occupazione tanto flessibile quanto lo sono i capitali: così nascono i moderni "salariati della precarietà", e così (nonostante l´inutile spargimento di parole sull´articolo 18) tra il 1996 e il 2008 l´Italia ha registrato un calo dal 3,57 all´1,89% nell´indice Ocse sulla rigidità della protezione del lavoro. L´austerità dei bilanci pubblici diventa lo strumento di una "economia politica dell´insicurezza", dove l´isteria del deficit si traduce in tagli sempre più massicci alla spesa sociale: governi miopi, di destra e di sinistra, predicano "ideologia liberista, incompetenza e ipocrisia", mentre istituzioni europee e trans-europee prive di legittimazione politica praticano l´ingiustizia sociale e perpetuano la gramsciana egemonia del "partito di Davos". (…). Come scrive Slavoj Zizek, il comunismo è un´immane tragedia da condannare, ma in quella tragedia c´è tuttora un frammento importante, da non buttare via: «la speranza dell´emancipazione, l´idea che si potesse essere un po´ più uguali, che la società potesse essere un po´ più giusta». Quel frammento è ancora qui. Ed è la ragione stessa della Storia.
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