Tantissimi anni addietro ho conosciuto una donna. Generosa, si direbbe avesse le mani bucate. Con tutti. Con tutto ciò che le appartenesse. Entusiasta sempre del nuovo. Aveva voluto, già avanti negli anni, provare l’esperienza del suo primo, rimasto unico, viaggio in aereo. Ne era scesa entusiasta, come sempre. Per come lo era per tutto ciò che fosse nuovo, bello, moderno. Negli ultimi suoi anni di vita aveva voluto all’8 di marzo incontrare le sue vicine di casa, le sue amiche, stare assieme ad esse per festeggiare il giorno dedicato alle donne. Tantissimi anni addietro ho conosciuto quella donna. Interessata a tutto quanto le girasse attorno. Generosa, altruista. Di un amore morboso per i suoi cari più vicini, i figli, il coniuge. Di un amore esclusivo, il suo, che attendeva sempre che anche l’amore di quegli altri, i figli, il coniuge, fosse allo stesso modo, intenso, viscerale. Quell’amore suo così inteso fu il suo limite di vita. Aveva sempre condiviso tutto che le appartenesse, aveva dato tutto di sé stessa, del suo lavoro, della sua vita, ma non ammetteva di condividere quegli amori che dovevano essere e rimanere esclusivi, non condivisibili con altri, amori che avessero un’unicità senza limiti. Amori per sempre, senza condivisione alcuna con altri. Ho pensato a quella donna conosciuta tanto tempo addietro leggendo e meditando sullo stupendo passo scritto da Kahlil Gibran nel Suo “ Il profeta”: “E una donna che stringeva un bimbo al seno chiese: parlaci dei figli. Ed egli disse: i vostri figli non sono i vostri figli. Essi sono i figli e le figlie della smania della Vita per sé stessa. Vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benché stiano con voi, tuttavia non vi appartengono. Voi potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i propri pensieri. Potete dare alloggio ai loro corpi, ma non alle loro anime, poiché le loro anime dimorano nella casa del futuro che voi non potete visitare neppure in sogno. Voi potete sforzarvi di essere come loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Poiché la vita non va all’indietro e non si trattiene sullo ieri. Voi siete gli archi dai quali i vostri figli vengono proiettati in avanti, come frecce viventi. (…)”. Quella donna che ho conosciuto tanti anni addietro è mia madre che aveva, per dirla con le parole di Gibran, una indomabile “smania della Vita”. Ed oggi, che è l’8 di marzo, dopo tantissimi anni, mi va di ricordarla con tutto quell’amore che non le ho mai fatto mancare e che avrebbe desiderato non fosse condiviso con altri. Non sapeva, mia madre, che le madri sono come gli archi dai quali i (…) figli vengono proiettati in avanti, come frecce viventi. Sarebbe bene che tutte le donne, tutte le madri, tenessero a mente le parole di Kahlil Gibran. E per rendere piena e sempre cara la memoria di quella donna, che è stata mia madre, conosciuta tantissimi anni addietro, trascrivo di seguito, in parte, il brano tratto da “Così è la vita” – Einaudi editore (2011) € 14,50 - di Concita De Gregorio, già direttore del quotidiano l’Unità. Concita De Gregorio; dedicato e per pensare a tutte le donne di questo mondo. A tutte le donne, che sono le sacerdotesse della memoria del mondo.
(…). Sono cresciuta in un mondo in cui i vecchi si scendeva in piazzetta ad ascoltarli, per ore. Me li ricordo uno per uno: Armida, la signora Ferri, Belisario che era rimasto cieco da un occhio in guerra ma tutti dicevano invece che gliel'aveva accecato con una bastonata il marito della Lenzi. E lo zio Ciccio, che era stato l'amante "dell'attrice muta", diceva, amante anche del Duce. Non era muta lei, era muto il cinema. Mi ricordo mio padre che andava a suonare alle loro porte quando non uscivano da un po', il nostro piccolo quartiere era un paese, e li portava fuori tenendoli sotto braccio, su su che l'aria di mare fa bene. Mi ricordo i loro occhi, i loro odori di saponetta e certi modi di dire che avevano e che sono diventati i miei. Quando morivano c'era sempre un parente mai visto che usciva dalla casa e diceva: ha lasciato scritto di darti questo. Un foulard, una cornice. Per la casa che metterai su quando ti sposi, diceva un biglietto con quella calligrafia con le elle e le effe lunghissime e le maiuscole tutte al loro posto. Perciò, quando i vecchi sono spariti mi è dispiaciuto parecchio, è stato come aver perso l'infanzia. Lì per lì non me ne sono accorta. Si sa come va, c'è da fare. La vita i figli il lavoro, tutto che succede nello stesso momento. Un'altra città, un altro posto. Poi però, a un certo punto, in un momento di quiete, ho visto che non c'erano più. Spariti. (…). Così un giorno di fine anno, nel giornale dove lavoravo, ho proposto di fare il supplemento di fine anno dedicandolo ai centenari: la meglio gioventú, appunto. Perché non c'è chi non veda che anche nelle arti e nelle scienze, insieme ai ragazzi, le energie migliori arrivano dai vecchi. C'erano ancora Louise Bourgeois e Lévi Strauss, allora. E poi Rita Levi Montalcini, Manoel de Oliveira, Oscar Niemeyer. È stato difficilissimo. Appassionante, ma difficile. L'idea non piaceva, pareva stravagante, i contatti nessuno li aveva, poi quelle facce di vecchi sul giornale, ma siamo sicuri?, la gente quando vede le rughe gira pagina. Per molto tempo la vecchiaia è stata bandita dall'informazione. Non parliamo della morte naturale, quella proprio proibita. La morte è solo accidentale, o frutto di un delitto, sui giornali e in tv. La morte ti capita se ti mette sotto un tir o se ti accoltella uno scippatore, altrimenti, no, tranquilli, altrimenti non esiste. Poi poco a poco, ma molto di recente, qualcosa è successo. Dev'essere stato in coincidenza con la "nuova primavera" dei giovani. Gli indignati, i rivoluzionari arabi, i movimenti europei. Tornati i giovani, sono ricomparsi anche i vecchi. Così è la vita, del resto. (…).
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