"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 14 dicembre 2015

Oltrelenews. 75 “Il bail in”.



Da “Etruria, banca spolpata tra fidi ai consiglieri e yacht fantasma" di Alberto Statera, sul quotidiano la Repubblica dell’11 di dicembre 2015: (…). Ruggisce la Chimera di Arezzo verso i 13 ricchi ex amministratori e 5 ex sindaci di Banca Etruria che (…)non restituiranno mai i 185 milioni che si sono auto-concessi con 198 posizioni di fido finiti in  " sofferenza" e in "incaglio", settore che in banca curava Emanuele Boschi, fratello del super-ministro Maria Elena. Né, visti i precedenti, restituiranno i 14 milioni riscossi di gettoni negli ultimi cinque anni. Figurarsi poi i 20 primi "sofferenti" per oltre 200 milioni. A cominciare da Francesco Bellavista Caltagirone dell'Acqua Antica Pia Marcia, "un dono fatto all'Urbe dagli dei"(Plinio il Vecchio) esposta con le sue controllate per 80 milioni o la Sacci (40 milioni) della famiglia Federici, passata adesso all' Unicem, o la Finanziaria Italia Spa del Gruppo Landi di Eutelia (16), o ancora la Realizzazioni e Bonifiche del Gruppo Uno A Erre (10,6), l'Immobiliare Cardinal Grimaldi, titolare di un mutuo di 11,8 milioni a 40 anni, una durata che non esiste sul mercato, e l' Acquamare srl (17,1) sempre del gruppo Bellavista Caltagirone. Tra le storie più deliranti tra quelle nelle quali ci si imbatte percorrendo i sentieri delle quattro banche fallite, la più sconclusionata è quella del panfilo più lussuoso al mondo che doveva essere costruito dalla Privilege Yard Spa a Civitavecchia, lungo 127 metri e già opzionato – si diceva - da Brad Pitt e Angelina Jolie.
Dal 2007, quando fu costituito il pool di banche capeggiato dall'Etruria, esiste solo il rendering della nave di carta e la società è fallita con un buco di 200 milioni. L'inventore del bidone si chiama Mario La Via, che si definisce "finanziere internazionale", e che esibiva come suoi soci l'ex segretario generale dell'Onu Perez de Cuellar, il sultano del Brunei e Robert Miller, azionista di Louis Vuitton e CNN. L'inaugurazione del cantiere fu benedetta dal cardinale Tarcisio Bertone. Nel consiglio figuravano Mauro Masi, ex direttore generale della Rai, Giorgio Assumma, ex presidente della Siae, e il tributarista Tommaso Di Tanno. Per non farsi mancare niente, tra gli sponsor c'era anche Giancarlo Elia Valori, l'unico massone espulso a suo tempo dalla P2 di Licio Gelli. D'altro canto, la Banca Etruria è da lustri teatro dello scontro e anche degli incontri d'interessi tra finanza massonica e finanza cattolica. Quasi tutte storie che vengono dalla notte dei tempi. La Banca dell'oro, come era chiamata per il ruolo nel mercato dei lingotti, nasce nel 1882 in via della Fiorandola come Banca Mutua Popolare Aretina. Ma è cent'anni dopo, nel 1982, che comincia l'espansione con l'acquisto della Popolare Cagli, della Popolare di Gualdo Tadino e della Popolare dell'Alto Lazio, feudo di Giulio Andreotti che era sull'orlo del default. E comincia il trentennio del padre-padrone Elio Faralli, classe 1922, massone, che rinunciò alla presidenza con una buonuscita di 1,3 milioni e un assegno annuale di 120 mila euro perché a 87 anni non facesse concorrenza alla sua ex banca. Scomparso nel 2013 e sostituito dal cattolico Giuseppe Fornasari, ex deputato democristiano, Faralli sponsorizzò tutte le prime venti operazioni in sofferenza di cui abbiamo dato conto, salvo 20 milioni deliberati ancora per la nave di carta durante la presidenza Fornasari. Risale poi al 2006 l'acquisto di Banca Federico Del Vecchio. Doveva essere la boutique bancaria che portava in Etruria i patrimoni delle ricche famiglie fiorentine, ma si è rivelata un buco senza fondo. Un giorno Faralli si rinchiuse da solo in una stanza col presidente della Del Vecchio e ne uscì con un contratto di acquisto per 113 milioni, contro una stima di 50, mentre mesi fa veniva offerta in vendita a 25 milioni. "La Banca Etruria non si tocca," andava proclamando il sindaco di Arezzo Giuseppe Fanfani, nipote del leader storico della Democrazia Cristiana Amintore e figlio del leader locale Ameglio, alla vigilia di lasciare l'incarico per trasferirsi nella poltrona di membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura. Un sindaco aretino, chiunque egli fosse, era costretto a difendere "per contratto" l'icona bancaria cittadina, 186 sportelli e1.800 dipendenti, con un modello fondato su un groviglio di interessi intrecciati tra loro. Lo stesso modello ad Arezzo, come nelle Marche, a Chieti e Ferrara, con banchieri improvvisati, politici locali, imprenditori, azionisti, grandi famiglie feudatarie, truffatori, a spese dei piccoli correntisti spinti ad acquistare prodotti a rischio per loro incomprensibili. Ma il mito della banca semplice, radicata sul territorio, per clienti semplici, dove tutti si fidano, si è infranto definitivamente un mercoledì del febbraio scorso, quando ad Arezzo di fronte ai capi- area convocati per avere comunicazione dei tragici dati di bilancio irrompono due commissari nominati dalla Banca d'Italia, Riccardo Sora e Antonio Pironti. Il presidente vuole annullare la riunione , ma i commissari dicono: "No, la riunione la facciamo noi." E di fronte ai dirigenti esordiscono così: "Qualcuno in Consiglio d'amministrazione insiste nel non voler capire bene la situazione". E dalla sala si alza un commento:"Meglio i commissari che il geometra", che non è altri che il presidente commissariato Lorenzo Rosi, affiancato dal vice Pier Luigi Boschi. Ma la Banca d'Italia finalmente muscolare non fa miglior figura. Passano due o tre giorni e si scopre che il commissario di Bankitalia Sora è indagato a Rimini, dove era stato commissario della locale Cassa di risparmio per l'acquisto di azioni proprie "a un prezzo illecitamente maggiorato". (…). Quanto al governo, ci ha messo non più di venti minuti per approvare il Salva-banche. Ma, attenzione. Così com'è, c'è chi teme che rischi di provocare altri monumentali guai.

Da “Dove comincia la negligenza” di Massimo Riva, sul quotidiano la Repubblica dell’11 di dicembre 2015: (…). …dà i brividi ricordare che, mentre Paesi come la Germania spalancavano le casse pubbliche per centinaia di miliardi da convogliare a difesa delle proprie banche, in Italia autorità monetarie e politiche si vantavano dell’insussistenza di problemi diffusi nel credito domestico limitandosi ad ammettere l’esistenza di una falla per il solo caso di malgoverno del Monte Paschi. E ancora più sconcertati lascia la benevola negligenza — ma forse sarebbe più corretto parlare di colpevole indifferenza — con la quale si è seguito il non breve cammino di svolta nella legislazione europea promosso da quegli stessi Paesi che in casa propria avevano fatto i loro comodi più porci — non vale eufemismo al riguardo — nell’abbondare con aiuti di Stato per il salvataggio delle loro banche, in molti casi disastrate anche più delle nostre. Si fa presto oggi a prendersela con regole europee, che pure restano assai discutibili nella loro opportunità, ma da Berlusconi-Tremonti a Renzi-Padoan quale mai governo italiano ha fatto sentire la sua voce per contrastare direttive ispirate a un ordoliberismo senza contrappesi a difesa dei più deboli? E ancora: quale mai governo italiano ha fatto sentire efficacemente la sua voce per denunciare la clamorosa discriminazione che si è praticata in Europa stabilendo che i salvataggi delle banche non potevano essere più fatti con soldi pubblici quando ormai i guai dei Paesi più forti erano stati risolti? Certo che l’Italia ha una responsabilità grave nell’aver voluto minimizzare i guasti del suo mercato creditizio, in particolare nell’aver concentrato tutta la propria attenzione sui conti degli istituti più grossi trascurando i segnali di tempesta che si andavano accumulando sui bilanci delle tante, sicuramente troppe, banche minori diffuse a livello periferico. Ma anche in Europa c’è più di un governo ovvero di un Paese che dovrebbe essere chiamato a rispondere della doppiezza politica praticata con cinica disinvoltura nello stabilire che diventava “reato comunitario” l’uso di fondi pubblici a vantaggio delle banche ma solo all’indomani di avervi fatto ingente ricorso. Insomma, noi siamo stati stolidi a cadere nella tagliola che gli altri hanno accuratamente manovrato nel proprio interesse, ma ciò non toglie che di raggiro politico si tratti. Ed è francamente piuttosto penoso oggi dover assistere allo spettacolo di un contraddittorio a livello europeo nel quale il governo italiano si trova a dover negoziare non con rappresentanti politici degli altri Paesi ma con sussiegosi funzionari della Comunità. Ancora più imbarazzante poi è vedere il malcapitato ministro Padoan avventurarsi nella giungla troppo sovente arbitraria delle direttive comunitarie per escogitare un marchingegno che consenta di dare qualche sollievo ai risparmiatori espropriati dei loro risparmi dietro la mascherata di un provvedimento con finalità “umanitarie”. Nella situazione data ci si può anche augurare che gli sforzi del ministro abbiano qualche successo: per chi rischia di perdere tutto anche poco può essere qualcosa. Ma purché sia chiaro che questa sarebbe anche l’ultima di una lunga catena di umiliazioni a cui il nostro Paese si è sottoposto in questa vicenda. Come forse potrebbe accertare un’eventuale commissione d’inchiesta parlamentare, anche se è difficile immaginare un’intera classe politica pronta a processare se stessa.

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