Da “I patti
con l’evasore e i finti controlli” di Bruno Tinti, su “il Fatto Quotidiano”
del 14 di agosto 2015: Ogni anno l’evasione fiscale si mangia 150
miliardi solo per quanto riguarda le imposte sul reddito. L’11 per cento dei
contribuenti italiani (le partite Iva) fa “nero”. Gli altri (89 per cento) sono
lavoratori dipendenti e pensionati che vorrebbero evadere ma non possono. Tutto
questo è fatto notorio e, quanto alle percentuali citate e all’ammontare
dell’evasione, proveniente dalla stessa Agenzia delle Entrate. Che però… Prima
di tutto assegna priorità negli accertamenti ai Grandi Contribuenti. Che non
fanno “nero”. Eludono, non evadono. Delocalizzano sedi e siti di produzione per
sfruttare vantaggi fiscali in altri Paesi, fanno transfer pricing (costi in
Italia e ricavi all’estero), svalutazioni o sopravvalutazioni fasulle. Insomma
imbrogliano. Ma si tratta di un contenzioso quasi esclusivamente giuridico,
dall’esito incerto e che richiede procedimenti (dall’accertamento alla sentenza
di Cassazione) lunghissimi. Con questo tipo di controlli, 150 miliardi di
evasione abbiamo ogni anno e 150 miliardi resteranno. Bisogna andare a prendere
i soldi dove si ha la certezza di trovarli: dove si fa il “nero”. Da pm l’ho
fatto. Quattro pm, tre vigili urbani prestati dal Comune, quattro marescialli
di Gdf, 500 processi in un anno, 150 milioni di euro accertati, una ventina
direttamente sequestrati. Questo perché il “nero”, volendo, si trova
facilmente; poi tocca al contribuente spiegare da dove viene. Facilmente?
Certo, con le indagini bancarie e finanziarie, strumento esistente da 50 anni
almeno. Si identificano i rapporti del contribuente con il sistema bancario e
finanziario; e non solo i suoi ma anche quelli del suo nucleo familiare,
parenti, persone che possono ragionevolmente aver operato per suo conto,
dipendenti di fiducia, soci… Si fa la somma degli accrediti, la si confronta
con i ricavi dichiarati e si chiede conto della differenza. Prestiti, eredità,
vincite al gioco, donazioni (la fantasia degli evasori non ha limiti), purché
provati (dal contribuente), vengono sottratti dal totale. Il resto è evasione,
“nero”. Giuridicamente, nell’immancabile contenzioso tributario, non c’è
partita, alla fine i soldi il Fisco li porta a casa. E poi le risorse che
simili accertamenti richiedono assicurano un ottimo rapporto costi/benefici. Se
una decina di persone (il mio team in Procura che però faceva anche altro,
rapine e spaccio di droga continuavano…) ha potuto recuperare in un anno 150
milioni di euro (erano lire allora…), perché il Fisco non potrebbe fare
altrettanto? Quanti dipendenti potrebbe utilizzare, 100 mila tra Agenzia e GdF?
Fanno 10 mila team, 15 miliardi di “nero”, 8 miliardi di imposte e un importo
più o meno analogo di sanzioni. Ogni anno. Con il resto delle risorse
controllino i Grandi Contribuenti. E alla fine dell’anno facciano i conti. Allora,
perché non si fa così? La risposta sta nelle linee guida dell’Agenzia delle
Entrate: “Indagini finanziarie per l’attività di controllo. Devono essere
utilizzate solo a seguito di un’attenta attività di analisi del rischio che
faccia emergere significative anomalie dichiarative, preferibilmente quando è
già in corso un’attività istruttoria dell’ufficio. Ugualmente, nei controlli
agli esercenti arti e professioni, sarà utilizzato lo strumento delle indagini
finanziarie solo quando la posizione fiscale è difficilmente riscontrabile con
altre modalità istruttorie”. Dunque, secondo l’Agenzia, prima bisogna accertare
“anomalie dichiarative” e – poi – si va a controllare in banca; prima si
adottano “altre modalità istruttorie” e – poi – se non si accerta niente
(ovviamente non si accerta niente, il “nero” si chiama così perché è nascosto)
si va in banca. In altre parole, prima si lavora a vuoto e poi si fa sul serio.
Schizofrenia? Pare di sì. Sempre nelle linee guida dell’Agenzia delle Entrate
si legge: “L’impegno maggiore sarà riservato ai comportamenti evasivi più
gravi, come quelli che provocano distorsioni alla libera concorrenza e
danneggiano i contribuenti che adottano comportamenti leali con il Fisco”. È o
non è la fotografia del popolo dell’Iva? I contribuenti danneggiati dalla
distorsione della libera concorrenza (i prezzi più bassi praticabili da chi
evade) sono i dentisti, gli avvocati, gli idraulici, i commercianti onesti, che
non evadono; o i Grandi Contribuenti, con la loro brava sede all’estero e gli
stabilimenti delocalizzati? La verità è che c’è un patto con l’evasione
fiscale: il governo fa finta di fare le riforme e così la Ue è contenta; i
contribuenti che possono evadere si arrangino, non gli capiterà niente; la
pressione fiscale graverà sulle classi più povere. Tutto proprio come la
Grecia. Fino all’immancabile bancarotta.
Da “L’Italia
bloccata dai ricorsi al Tar” di Roberto Mania, sul settimanale
“Affari&Finanza” del 16 di novembre 2015: Centosettantaquattro ricorsi al
giorno, più di mille e duecento a settimana, sessantaquattromila all'anno.
L'Italia in mano ai Tar, ai Tribunali amministrativi che decidono sulla riforma
delle banche popolari, sui commissariamenti, sui percorsi scolastici, sui
precari delle università, sulla xylella che ammazza gli ulivi pugliesi, sui
provvedimenti della Banca d'Italia, sulle Agenzie fiscali, su Uber, sulle
concessioni pubbliche, sulle delibere della Consob, sull'insegnamento in lingua
inglese all'università e, tanto, sugli appalti pubblici. I Tar decidono su
tutto, si "sostituiscono" al legislatore e talvolta anche alla Corte
costituzionale, e contribuiscono a bloccare l'economia del Paese e a zavorrare
il Pil. I Tar d'Italia registrano i conflitti di potere economico, finanziario,
politico. Conflitti locali e nazionali. Mercati contro burocrazia, a volte.
(…). I Tar diventano (…) il deposito di una pubblica amministrazione obsoleta,
di un inutile protagonismo dello Stato nell'economia, e anche di una
legislazione cacofonica, debordante e fantasiosa che punta a non farsi capire,
per non scegliere mai. Abbiamo oltre 50 mila leggi, tra statali e regionali,
alle quali bisogna aggiungere più di 70 mila regolamenti. (…). Così i ricorsi
ai Tar e al Consiglio di Stato (aumentati del 15 per cento nel 2014 rispetto al
2013) rappresentano insieme la sfiducia dei cittadini e delle imprese nella
macchina pubblica e l'àncora di salvataggio per il presunto sopruso,
l'interesse legittimo da tutelare. Romano Prodi, ex presidente del Consiglio ed
ex presidente della Commissione europea, ha sostenuto, non tanto
provocatoriamente, che l'abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato potrebbe
favorire la crescita del Pil perché "in presenza di un'eterna incertezza,
i capitali e le energie umane fuggono dall'Italia verso luoghi nei quali quest'incertezza
non esiste". È stato travolto dalle critiche dei diretti interessati,
presidente del Consiglio di Stato in testa. Ma anche se nessuno lo ha mai
calcolato è indubbio che pure la giustizia amministrativa abbia effetti
negativi sulla crescita dell'economia. Quel punto di Pil che ci manca - stima
della Banca d'Italia - a causa delle lentezza della giustizia civile sarebbe
probabilmente qualcosa di più se si riuscisse a comprendere anche il peso delle
sentenze dei Tar. I Tar regolano il traffico, ma spesso sbagliano direzione
perché il libretto di circolazione è ingiallito e dice che si deve guardare al
formalismo giuridico - paradigma decisamente ottocentesco - anziché all'effetto
concreto della decisione, paradigma che guida l'economia del mondo globale. Un
ricorso al Tar "allunga la vita", forse. Poi c'è sempre l'appello al
Consiglio di Stato. Ma allunga, di certo, i tempi di realizzazione delle opere,
sfianca l'economia, imbriglia i nuovi progetti, delude, quando c'è, lo spirito
imprenditoriale. Se continuiamo ad essere in fondo alla classifica del doing
business è anche per questo. Non solo, sia chiaro. Da una parte la ricorsite,
dall'altra il Moloch della norma avulsa dal contesto economico, sociale,
finanziario. Vuol dire perdita di potenziali investimenti. Miliardi che non
arrivano mai. Il conflitto giurisdizionale, non solo quello amministrativo,
frena gli investitori stranieri. Forse è vero che l'Ilva non andava svenduta
alle multinazionali tedesche, inglesi o indiane, ma è anche vero che gli
interessamenti si sono bloccati di fronte all'incognita dei processi. Vale per
l'Ilva come per tanti altri casi. Il premier Matteo Renzi annunciò al suo
arrivo al governo una guerra senza quartiere ai mandarini della burocrazia, a
quei giuristi, perlopiù amministrativisti (giudici del Tar e soprattutto
consiglieri di Stato) che a guida dei gabinetti ministeriali e degli uffici
legislativi hanno esercitato nel passato la vera attività legislativa, complice
una classe politica sostanzialmente impreparata. Un po' l'ha fatto, un po' no.
Certo c'è stato un rinnovamento e uno svecchiamento di questa parte di classe
dirigente. Nello staff di Palazzo Chigi non ci sono più esperti di diritto
amministrativo. E forse è anche per questo che l'annunciata riforma dei Tar si
è arenata. Ogni tanto il premier la ritira fuori (l'ha fatto anche all'ultimo
meeting Ambrosetti a Cernobbio) ma poi rientra nel cassetto. L'idea era (ed è)
quella di modificare i meccanismi di accesso al Tar e di superare la sentenza
di sospensiva. "Questo sistema senza certezze per chi lavora va
assolutamente cambiato", è ancora il refrain a Palazzo Chigi che ha
competenza sulla giustizia amministrativa. Ma pochi gli atti concreti: tre
sezioni distaccate di Tar dopo essere state soppresse sono di fatto ritornate in
vita. Due cambiamenti si stanno però realizzando: da una parte i giudici
amministrativi di primo grado ricorrono sempre di meno alla sospensiva,
lasciando così che i lavori di opere infrastrutturali proseguano come già
accade in molta parte dell'Europa; oppure, proprio come nel caso della
trasformazione delle banche popolari in società per azioni con la tumulazione
del voto capitario, che le riforme di sistema non si arrestino. Dall'altra
parte si accentua il ricorso alle soluzioni extragiudiziali. (…). Luci e ombre.
Alle Ferrovie dello Stato, una delle più importanti stazioni appaltanti del
Paese, hanno ridotto al minimo il contenzioso: l'1 per cento delle gare. Sembra
che funzioni come filtro la predisposizione rigorosa delle gare. Partecipa chi
effettivamente ritiene di aver chance di vincere senza che abbiano accesso i
professionisti del ricorso. Su 1940 gare nel 2015 solo venti hanno dato vita a
un contenzioso. Diversa la situazione alla Consip, perno della revisione della
spesa pubblica, attorno alla quale si sta cercando di costruire una nuova
cultura dell'utilizzo delle risorse pubbliche. Bene, anche i tempi per
risparmiare soldi si allungano per colpa dei ricorsi. Ha certificato la Corte
dei Conti nell'ultima relazione del bilancio Consip relativa al 2013: 47
ricorsi davanti al Tar, di questi 39 sono pendenti, due solo definiti nel
merito con esito favorevole, uno con esito sfavorevole, e altri due sono stati
quelli nei quali la Consip ha deciso di non costituirsi, tre, infine, non sono
stati depositati. (…). Conclusioni: per la gara sui buoni pasto sono stati
necessari 15 mesi e 20 è durata quella per la telefonia fissa. Tempi biblici.
Va detto, la giustizia amministrativa funziona decisamente meglio di quella
ordinaria. Negli ultimi cinque anni l'arretrato è diminuito di oltre il 50 per
cento: nel 2009 erano pendenti 667.582 ricorsi, nel 2014 sono scesi a 292.400.
In media i procedimenti cautelari davanti al giudice amministrativo durano 35
giorni. Per i Tar - secondo uno studio di Alessandro Pajno, consigliere di
Stato con un curriculum di prim'ordine ai vertici della pubblica
amministrazione - si è passati dai 41 giorni del 2010 ai 33 del 2013; per il
Consiglio di Stato dai 42 giorni del 2010 ai 36 del 2013. Nei giudizi di merito
del Consiglio di Stato si è passati dai 351 giorni per i ricorsi depositati nel
2010 ai 235 per quelli depositati nel 2013. (…). È una domanda di appello
"patologica", come ha rilevato la Banca d'Italia. Ma è esattamente
così che si butta la sabbia negli ingranaggi dell'economia.
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