Scrive Michele Serra nella quotidiana Sua
rubrichetta detta “L’Amaca” – sul quotidiano “la Repubblica” dell’8 di dicembre
2015 -: La vicenda del “salva-banche” che però non salva qualche decina di
migliaia di risparmiatori è tecnicamente complicatissima; e un paio d’ore
passate a leggere cronache e commenti non bastano (almeno nel mio caso) a
rendere chiara una vicenda così opaca. Ma forse il punto è proprio questo: che
l’opacità della materia, la sua illeggibilità da parte delle persone semplici,
mette queste ultime nella condizione di vittime predestinate. Carne da cannone
di una guerra che li sovrasta, le alchimie finanziarie che sfuggono a ogni
controllo e la politica che cerca di mettere qualche paletto, come fermare uno
tsunami a mani nude. Bastano appena queste Sue poche righe per rendere
insostenibile la posizione di un tale divenuto a sua insaputa ministro della
Repubblica Italiana. Costui, senza titubanza alcuna, con grande faccia da
tolla, nei giorni trascorsi, all’indomani dello tsunami bancario, additava al
pubblico ludibrio i risparmiatori rei d’essere “ignoranti” e di non avere
acquisito nel tempo la giusta cultura per venire a capo dell’immondo ginepraio
della finanza globale. Fosse quel tale giunto sul pianeta Terra da lontanissimi,
inesplorati mondi celesti non avrebbe fatto una gran meraviglia quell’incauta
sua dichiarazione. Ma sino a prova contraria sembra che quel tale ministro sia
da tempo dimorante nelle contrade del bel paese. E come dimorante, ma
soprattutto come “tecnico”, avrebbe dovuto nel tempo avere contezza della
diffusa “ignoranza” della gente d’Italia in quanto a “bail in”, “subordinate”
e quant’altro di immondo attenga a quel luogo scandaloso quale è divenuto il
mondo della speculazione finanziaria. Ed invece no: con quella faccia da tolla
rimanda a quei poveri disgraziati, che nel frattempo hanno perso il tutto –
finanziariamente parlando – delle acquisite risorse, la responsabilità prima e
piena d’avere rischiato il gruzzolo faticosamente messo insieme. Non lo ha
minimamente sfiorato che, in uno stato che dicasi democratico, proprio per la
consapevolezza politica di una debolezza conoscitiva diffusa della cosiddetta
gente per l’arido, selvaggio mondo della finanza, quello stesso stato abbia nel
tempo provveduto ad istituire quelle agenzie, quelle autorità – come diavolo le
si voglia chiamare – che negli intendimenti degli accorti legislatori avrebbero
dovuto vigilare affinché quelle disavventure non avessero ad essere registrate.
Ed invece quel marziano lì se ne è uscito in quella invereconda sua (ir)riflessione.
E poi li si chiama “tecnici”. E poi si è peritato financo di annunciare un
“umanitario” risarcimento. Che faccia da tolla! Ma del resto, di quei signori lì,
abbiamo avuto modo di valutarne il miserevole valore. Continua a scrivere
Michele Serra:
La distanza tra ordinary people e cerchia dei potenti è sempre stata
smisurata; ma la democrazia ci aveva abituati a credere che quella distanza
fosse meno scandalosa che in passato. In circostanze come queste —
risparmiatori stritolati da crisi delle quali portano zero responsabilità — ci
si ritrova di fronte a una distribuzione brutale e arcaica del potere:
pochissimi che decidono, moltissimi che subiscono. Il famigerato populismo
nasce esattamente da questa vertiginosa impotenza; nonché dal fallimento della
politica (della sinistra specialmente) come rappresentante delle moltitudini,
mediatrice tra chi sa e chi non sa, chi può e chi non può. Ovvio che in piazza,
accanto ai risparmiatori rovinati, ci siano i populisti. Di tutti gli altri si
sta perdendo traccia, come la Francia insegna. Per non dire poi di quei
due altri integerrimi galantuomini che quello stesso stato democratico aveva
eletto a guardiani per impedire che i possibili sconsiderati, compulsivi atti
di quegli ignorantoni di risparmiatori venissero perpetrati, risparmiatori
ignorantoni sì ma che non si sentivano né pensavano d’essere ritenuti capitani
di (sve)ventura né tantomeno giocatori d’azzardo della finanza. Ma che ci
stavano a fare quei tali su quegli scranni indebitamente occupati, verrebbe da
dire a questo punto della tragica storia? Usa bene il termine di “scaricabarile”
il giornalista Massimo Riva sul quotidiano la Repubblica – “Lo scaricabarile” – del 15 di dicembre ultimo, essendo
interessantissimo leggerne il pensiero: C’è un barile in questa trista vicenda
bancaria che corre avanti e indietro senza mai trovare un posto dove fermarsi.
Rimbalza e saltella ai piani alti delle istituzioni pubbliche, ma con un
movimento che giorno dopo giorno sta scivolando sempre più verso il basso. Ed è
il barile delle responsabilità che più scende e più rischia di diventare quello
che nella vulgata popolare si chiama il classico bidone. Sarà che il gioco
dello scaricabarile è antico come il mondo, ma stavolta occorre segnalare che i
pur augusti partecipanti si muovono mettendo in campo argomenti più utili a
denunciare che a nascondere il loro imbarazzo. È il caso, in particolare, della
Banca d'Italia, l'istituzione deputata al controllo degli equilibri del sistema
creditizio e segnatamente alla vigilanza sulla corretta gestione dei singoli
istituti bancari. Che i suoi esponenti invitino a sdrammatizzare l'allarme
generale ricordando che l'attuale vicenda coinvolge meno dell'uno per cento
dell'intero mercato è un indubbio segno di senso della responsabilità. Dove
questo senso scompare del tutto, però, è quando si sostiene e si vuol far
credere che - nel caso specifico delle quattro piccole banche finite in
dissesto- via Nazionale abbia fatto tutto quel che doveva fare e non abbia da
rimproverarsi né una svista né un ritardo. (…). …altri casi come quelli esplosi
in queste settimane potrebbero tranquillamente covare nel sistema all'insaputa
dei pur diligenti e occhiuti controllori di Via Nazionale. Con la conseguenza,
certamente indesiderata dagli stessi vertici della Banca d'Italia, di
indebolire l'affidabilità anche delle coscienziose rassicurazioni sulla
solidità di fondo del sistema creditizio domestico. Un'altra importante
istituzione che ha scelto di rinchiudersi nel fortilizio del "noi abbiamo
fatto tutto quel che dovevamo" è la Consob, la commissione di controllo su
società e Borsa. Per allontanare da se il barile delle responsabilità, il suo
presidente ha appena fatto un'intervista al "Corriere della sera" i
cui passaggi salienti si riassumono in due lamentele: 1) di non avere poteri
d'intervento in tema di salvataggi bancari; 2) di non essere stato consultato
dal governo sulle misure da assumere nel districare la matassa. Come dire: non
contiamo nulla, perché ci tirate in ballo? Ma rispedendo altrove il barile, il
presidente di Consob non ha perso l'occasione di dargli una bella spinta verso
il basso in direzione dei malcapitati che hanno visto andare in fumo i loro risparmi.
Attenzione, ha avvertito testualmente il nostro: «Nei prospetti informativi
delle obbligazioni subordinate c'è scritto sulla prima pagina e in grassetto
che si possono subire perdite in conto capitale». Come dire chi ha dato ha
dato, chi ha avuto ha avuto, eccetera. Non un bel vedere da parte di chi guida
un organismo incaricato di tutelare la trasparenza degli scambi. Chissà quale e
quanto peso vorranno dare a quel "grassetto" gli arbitri o i
tribunali che saranno investiti dalle sacrosante cause dei risparmiatori
coinvolti, ma va notato che lo stesso presidente di Consob non sembrerebbe
tanto sopravvalutarlo dato che lui stesso, in un passaggio successivo
dell'intervista, si allinea alla proposta dei Bankitalia di stabilire il
divieto di vendita di titoli subordinati al dettaglio. Proposito che apre una
contraddizione fra il giudizio di insufficienza del grassetto per il futuro e
il suo uso come scudo per ogni responsabilità sul passato (…). Intendiamoci,
che in questa vicenda ci siano colpe diffuse a livello periferico è fuori di
dubbio. Ci sono stati amministratori e dirigenti di banca che dovranno essere
chiamati davanti a un giudice per rispondere di palesi atti di mala gestione,
con probabili aggravanti corruttive. Ci sono funzionari che, vuoi per
servilismo vuoi per ambizioni di carriera, si sono prestati a turlupinare i
clienti più ingenui. E ci sarà pure qualche obbligazionista che ha scientemente
corso l'azzardo per spuntare un tasso d'interesse migliore. Ma non è che la
questione si possa richiudere nell'angusto cerchio di un malcostume paesano. Se
questo è fiorito e durato nel tempo è anche perché chi doveva smascherare le
pratiche cattive non lo ha fatto nei tempi e modi dovuti. Altrimenti sì che il
barile diventa un bidone e il paese perde l'occasione di rivedere da cima a
fondo metodi e struttura della vigilanza sull'intermediazione finanziaria.
Perché, purtroppo, questo è il nodo di fondo che emerge da questa brutta
storia. Nell'era della banca telematica e dell'elettronica che consente di
conoscere anche i minimi dettagli dei movimenti di denaro in tempo reale, resta
di drammatica attualità un interrogativo vecchio di duemila anni: "Quis
custodiet ipsos custodes?". Ha scritto Massimo Fini su “il Fatto
Quotidiano” del 15 di dicembre – “Gli
stolti e la rapina che pagheremo tutti” -: Il risparmiatore è il fesso
istituzionale del sistema del denaro. Perché, avendone poco, lo presta,
attraverso l’intermediazione delle banche, ai ricchi perché diventino sempre
più ricchi. Se poi a costoro le cose van male scaricano i loro debiti, divenuti
inesigibili, sulle banche che, a loro volta, li scaricano sui risparmiatori
che, in varie forme (conti correnti, obbligazioni) vi han depositato i propri
quattrini. Il fatto è che esiste una regola generale, quella enunciata da
Vittorio Mathieu nella sua pregevole Filosofia del denaro: “I debiti, alla
lunga, non vengono pagati”. Per questo i grandi imprenditori e finanzieri, che
sono quelli che hanno capito meglio il gioco, hanno più debiti che crediti.
Basta leggere, con una certa attenzione, i loro bilanci. Per la verità la
figura dell’imprenditore è radicalmente e antropologicamente cambiata dopo la
Rivoluzione industriale. Un tempo il mercante utilizzava il proprio patrimonio
e, conseguentemente, si accollava in prima persona tutti i rischi. Se falliva
erano affari suoi. Oggi l’imprenditore, soprattutto il grande imprenditore,
rischia il denaro che gli viene prestato dalle banche che a loro volta, come si
è detto, mettono a rischio quello che han loro prestato i risparmiatori. È
l’intrapresa sulla pelle altrui. (…). E poi, non uno, ma ci sono ben tre
marziani a Roma.
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