"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 13 giugno 2013

Cosecosì. 55 Philip Roth ed il “Maestro”.



Tutti abbiamo avuto almeno un “maestro” nella vita. Almeno. Da intendersi per “maestro” colui il quale “ti aiuta a conquistare uno stile, ovvero il contrassegno di quello che sei in quello che fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il tuo. I grandi maestri (…) arano a fondo nel terreno dell’umano, sono primitivi e inattuali, non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire dal quotidiano, non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla”. Fine della stupenda citazione, tratta da “Essere insegnanti, divenire maestri” del professor Raniero Regni, apparsa sulla rivista “School in Europe”. Miserevole colui il quale non abbia incontrato nella sua vita almeno un “maestro”. Philip Roth ne ha scritto – sul quotidiano la Repubblica del 5 di maggio 2013 - col titolo “Al mio maestro”. Un ritorno inatteso, e sperato, alla scrittura del grande romanziere. Ha scritto Philip Roth: (…). Il primo insegnante che mi trovai di fronte, la prima ora del mio primo giorno all’Annex, fu Bob Lowenstein. Il dottor Lowenstein. Doc Lowenstein. Era fresco reduce dalla seconda guerra mondiale, diversamente da quasi tutti i professori di liceo era in possesso, senza darsi arie, di un dottorato, e quello che perfino un dodicenne poteva capire era che si trattava di un uomo straordinario che non tollerava di buon grado i cretini. (…). …non l’ho dimenticato. Chi l’ha dimenticato a Weequahic? Come tutti i “maestri”. Difficile dimenticarli, anzi impossibile. Ne ho scritto per personale esperienza. Pochi sono essi, i “maestri”, capaci di riempire il cuore e la mente dei giovani che la vita ha loro affidato. Ed il dottor Lowenstein è stato il “maestro” per il grande scrittore. Scrive di seguito Philip Roth: Di conseguenza, quando toccò a lui finire sbranato dalla crociata anticomunista degli anni Quaranta e Cinquanta, seguii le sue vicende come meglio potei attraverso gli articoli dei giornali di Newark che mi facevo ritagliare e spedire dai miei genitori. Sin qui i ricordi del grande Autore. Apro una parentesi per dire di quel fatto tragico che è stato il “maccartismo” negli Stati Uniti d’America. Mi soccorre il grande Woody Allen – interprete - ed il film – per la regia di Martin Ritt - che ha per titolo “Il prestanome”. Il film è del 1976. Narra di quel tempo e della "caccia alle streghe" alla quale vennero spietatamente sottoposti gli intellettuali di quel grande Paese. E si narra, in quello scenario tragico, di un certo Howard Prince – Woody Allen - , cassiere in un bar della periferia newyorchese, grande scommettitore ed abile bookmaker, che accetta di soccorrere Alfred Miller - Michael Murphy -, sceneggiatore perseguitato per le sue sospette "attività antiamericane". È il “maccartismo” più feroce, per l’appunto. Un delirio dei tempi. Il soccorso che Howard Prince offre all’amico è di fare da “prestanome”, firmando i lavori letterari avendone per ricompensa una percentuale sugli introiti. La scorciatoia, come suol dirsi, è trovata. Altri scrittori in odore di “sovversione antiamericana” cominceranno ad utilizzare il nome di Howard Prince per la pubblicazione del proprio lavoro e ciò permetterà all’astuto profittatore delle disgrazie altrui di divenire ricco e famoso. Ma i tempi scorrono cupi con l’inevitabile inverarsi di dirompenti e tragici casi umani, come sarà il suicidio dell'attore Hecky Brown - Zero Mostel -, che aprirà una breccia nella disincantata coscienza di Howard Prince, un uomo senza ideali e senza scrupoli. Fino a quando egli stesso non verrà sottoposto alla sorveglianza della "Fredom Information" e denunciato alla commissione per le attività antiamericane. È il ricordo caro dell’amico Hecky e del suo disperato atto finale di rinuncia alla vita che gli daranno la forza per trovare una risposta di dignità ritrovata da esibire ai delatori professionali di quella tragica stagione della storia americana. Questi i crudi “fatti” ai quali rimanda – per chi ne abbia memoria - lo scritto di Philip Roth: Non ricordo come ci ritrovammo negli anni Novanta, più di cinquant’anni dopo che mi ero diplomato al Weequahic High. (…). Bob per me è una delle voci persuasive che ancora sento parlare. I suoi discorsi erano permeati del sapore intenso del reale. Come tutti i grandi insegnanti, personificava il dramma della trasformazione attraverso la parola. (…). Bob è stato il modello di un personaggio di primo piano del mio romanzo “Ho sposato un comunista”, un libro del 1998 in cui rievocavo il periodo anticomunista a cui ho accennato in precedenza e la crudeltà e la ferocia con cui persone come Bob vennero sbranate con le unghie e coi denti dalla marmaglia al potere all’epoca. (…). Il tema di “Ho sposato un comunista”, in fondo, è l’educazione, l’insegnamento, il rapporto mentore-allievo: in particolare un adolescente diligente, zelante e impressionabile che impara come diventare — e anche come non diventare — un uomo coraggioso, onesto ed efficace. Non è un compito facile, come sappiamo, perché ci sono due grandi ostacoli: l’impurità del mondo e l’impurità di se stessi, per non parlare delle enormi imperfezioni di intelligenza, emozione, lungimiranza e giudizio di un individuo. (…). Ora non sto parlando dell’educazione di un ragazzo, ma dell’educazione di un adulto: l’educazione alla perdita, al dolore e a quell’inevitabile componente della vita che è il tradimento. Bob era fatto di ferro e resistette all’atrocità dell’ingiustizia con un coraggio e una prodezza straordinari, ma era un uomo e provava i sentimenti di un uomo, e quindi soffrì anche. (…). Concludo con qualche riga dalle prime pagine di “Ho sposato un comunista”, dove descrivo l’immaginario professor Ringold, meglio noto nel mondo al di fuori della pagina scritta come Doc Lowenstein: «Negli atteggiamenti e nelle pose era assolutamente naturale, ma nel parlare piuttosto prolisso e, sul piano intellettuale, quasi minaccioso. La sua passione era spiegare, chiarire, farci comprendere, col risultato che ogni argomento di cui parlavamo veniva smontato nei suoi elementi principali con una meticolosità non inferiore a quella con cui divideva le frasi sulla lavagna. (...). Il professor Ringold portava con sé in aula una carica di viscerale spontaneità che, per dei ragazzi come noi, docili ed educati al rispetto, ragazzi che dovevano ancora comprendere che obbedire alle regole del vivere civile dettate dall’insegnante non aveva nulla a che vedere con lo sviluppo mentale, fu una rivelazione. C’era più importanza di quanto, forse, lui stesso immaginasse nell’accattivante abitudine che aveva di tirarti il cancellino quando la risposta che davi non colpiva il bersaglio. (...). Si sentiva la forza, in senso sessuale, di un insegnante liceale come Murray Ringold (maschia autorevolezza non viziata da commiserazione), e si sentiva la vocazione, in senso sacerdotale, di un insegnante come Murray Ringold, che non si era perso dietro l’amorfa aspirazione americana di sfondare, e che — diversamente dagli insegnanti di sesso femminile — avrebbe potuto scegliere di fare qualunque cosa o quasi e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi a noi. Per tutta la giornata non voleva far altro che occuparsi dei giovani che poteva influenzare, ed era dalle loro reazioni che ricavava la sua massima soddisfazione». Addio, stimato mentore. Dobbiamo al grande Woody un aforisma terribile sugli insegnanti. Lo si ritrova nel Suo straordinario film “Io e Annie” dell’anno 1977: - Ricordo il corpo insegnante della mia scuola pubblica. Sapete, avevamo un detto: chi non sa far niente insegna e chi non sa insegnare insegna ginnastica. Quelli che neanche la ginnastica, credo li destinassero alla nostra scuola -. Ma parlava il grande Woody semplicemente degli insegnanti, non già dei “maestri” che, quando li si incontra, non “inducono a fare la loro strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla”.

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