Ha scritto lo psicoterapeuta
Massimo Recalcati sul quotidiano la Repubblica del 5 di maggio una riflessione
che ha per titolo “Se fallisce il nostro
io esplode la violenza”: (…). …uccidere il proprio fratello non
appartiene al mondo animale, ma al mondo umano. È un aspetto – terrificante –
dell’umano sul quale non bisogna chiudere gli occhi. Il crimine non è infatti
la regressione dell’uomo all’animale – come una cattiva cultura moralistica
vorrebbe farci credere –, ma esprime una tendenza propriamente umana. Questo è
il dramma che il moltiplicarsi recente di atti erratici di violenza ci
costringe ad affrontare. Se l’umanizzazione della vita avviene come un
attraversamento della violenza che ci abita – della nostra ombra più scura –,
essa non può mai cancellare la violenza, ma decidere casomai, ogni volta, per
la sua rinuncia. È questo uno dei compiti più difficili che incombe sugli
esseri umani: saper rinunciare alla violenza in nome del riconoscimento dell’Altro
come prossimo, come essere singolare. Si tratta di un riconoscimento che non è
mai indolore perché ci obbliga ad accettare che “Io non sono tutto”, che la mia
vita non esaurisce quella del mondo e quella degli altri. Significa sopportare
quella che Freud considerava una “frustrazione narcisistica” necessaria per
riconoscersi appartenere ad una Comunità umana. Ma c’è dell’altro che
ho cercato di sintetizzare nel titolo di questo post. I media. Vi siete mai
chiesti quale balordo possa fare delle riprese per i servizi televisivi nelle
quali la sua macchinetta infernale sembra quasi volersi immergere nelle pozze
di sangue che, immancabilmente, gli atti di violenza producono? Inquadrature da
balordi, per l’appunto. L’obiettivo sembra voler cogliere non tanto la notizia –
che diventa quasi secondaria - ma andare oltre, come per approfondire il tema, quasi
a voler contare il numero dei globuli rossi che danno il colore tragico a
quelle pozze. Una vergogna, un obbrobrio. Cose da balordi. Quale senso e quali
risultanze psichiche possano dare allo spettatore inerme quelle inquadrature è
stata da sempre la mia ossessionante domanda. Evidentemente inquadrare il
sangue versato dalla vittima e raccolto nelle pozze nelle quali immergere l’obiettivo
dell’infernale macchinetta è un dettato irrinunciabile per ogni cronaca di
sangue che valga la pena d’essere raccontata. Ma se non c’è stato un direttore
che abbia ripreso quel balordo spedendolo ad altre più innocenti mansioni è
evidente che la vista del sangue torna comoda alla notizia e di riflesso al
ritorno di pubblicità per l’emittente. I media per l’appunto. Nefasti per il
loro indecente uso. Che fanno leva su quell’assioma che da tempo mi accompagna:
la scarnificazione del pensiero. Il pensiero collettivo è scarnificato. Non ha
più una complessità sua. Non si ha contezza di alcuni fatti se non si parte da
questo assunto. Scarnifica oggi, scarnifica domani, il risultato è sotto gli
occhi di tutti. Ha scritto Vittorio Zucconi in una delle Sue ultime
corrispondenze dagli Stati Uniti d’America – sul settimanale “D” del 25 di
maggio, “Se il mostro abita nella
villetta accanto” -: Conosciamo tutti quelle inutili
dichiarazioni raccolte dai Tg nei casi dei delitti più feroci. "Una coppia
tranquilla". "Un signore educato". "Gente normale".
Mai uno che dica davanti alla telecamere: "Mi pareva un demente".
"Lei era una belva". Mai. Non sono testimoni idioti o bugiardi. Sono
soltanto la manifestazione di qualcosa che persino nell'America dello
"spirito di quartiere" sta accadendo: è la "solitudine della
porta accanto" il crescente isolamento nel quale tutti viviamo,
sprofondati nelle finte comunità virtuali della Rete, nella luce azzurrognola
del televisore, negli affaracci e guai nostri. (…). Il senso del quartiere,
della "vicinanza" come la chiamavano gli emigrati italiani nei loro
ghetti, si va disperdendo, come l'odore del barbecue nella sera. Puoi
fabbricare bombe in casa tua, come i fratelli Tsaraev a Boston, senza che
nessuno se ne accorga. Puoi tenere tre ragazze per sette anni chiuse in
cantina, violentarle, farle abortire, e i vicini non ne avranno sospetto. Good
morning America. Quella rete di controllo sociale, che era tanto utile quanto
fastidiosa (…) si è smagliata. Viviamo in piccoli castelli, con sempre più
ponti levatoi elettronici, allarmi, fotocellule, sensori, quando non armi da
fuoco nei cassetti. (…). È la cronaca impietosa che ci giunge
dall’altra parte dell’Atlantico. Ma è una cronaca con la quale conviviamo. Come
fosse la cosa più naturale di questo tempo balordo. E quei balordi che ficcano
il loro strumento quasi in bocca al familiare, o al vicino di casa? Fanno esclusivamente
il loro stupido, sporco mestiere. Ma chi si presta a che il balordo di turno
faccia quel suo stupido, sporco mestiere a quel modo non è meno stupido e balordo
di lui. Ecco perché c’è dell’altro che ha a che fare con la scarnificazione del
pensiero. Continua infatti a scrivere Massimo Recalcati: Il problema è che questa
difficoltà soggettiva a simbolizzare la violenza viene oggi drammaticamente
amplificata da quelli che mi paiono i due nuovi comandamenti sociali che
sembrano dominare il nostro tempo e che l’attuale crisi economica rende a sua
volta ancora più tossici. Il primo comandamento è quello del nuovo. È la spinta
a ricercare sempre altro da quello che si ha, a scambiare quello che si ha con
quello che ancora non si ha nella illusione che è quello che non si ha a
custodire la felicità. L’esperienza clinica della psicoanalisi mostra invece
che il Nuovo – al cui miraggio molti consacrano la loro esistenza – anziché
rendere la vita soddisfatta, non fa altro che riprodurre la stessa identica
insoddisfazione. Il secondo comandamento è quello del successo. Nessun tempo
come il nostro sembra togliere diritto di cittadinanza al fallimento, all’errore,
al ripiegamento, all’insuccesso. Nessun tempo come il nostro ha enfatizzato
come una questione di vita o di morte la realizzazione del proprio successo
personale. Ebbene la violenza su di sé o sugli altri viene al posto di questo
lavoro di simbolizzazione del proprio fallimento. Accade, per esempio, nei
rapporti tra uomo e donna quando uno dei due non sopporta il tradimento o
l’allontanamento dell’altro e si sente autorizzato ad agire violentemente per
ristabilire l’autorevolezza della propria immagine narcisistica infangata e
umiliata dalla libertà dell’Altro. Il femminicidio non ha altra ragione
psichica – ne ha altre e profonde di tipo culturale – se non questa: utilizzare
la violenza, il passaggio all’atto brutale, al posto di assumere su di sé il peso
della propria solitudine e del proprio fallimento. (…). Come meglio non
lo sarebbe potuto dire. Poiché scarnificare il pensiero è come togliere l’humus
ad una pianticella. Al pari della pianticella che da quel sottile strato trae
il suo necessario stabile radicamento ed il suo sostentamento vitale, il
pensiero più o meno complesso ha rappresentato sempre il substrato ed al
contempo il nutrimento di quell’Io che stenta sempre a crescere e che nella
fase della crescita ha bisogno di nutrirsi di pensieri sempre più complessi. Se
li si scarnifica riducendoli ad un osso nudo si perde progressivamente la
qualità umana dei singoli che, dal confronto/scontro con gli altri, alimenta e
sostenta per l’appunto la crescita dell’Io. Affonda Massimo Recalcati nelle Sue
profondissime conoscenze e competenze: …Lacan affermava – suscitando scandalo – che
la depressione è una vera e propria “viltà etica”. Si tratta di una tesi non
del tutto estranea al giudizio di condanna che i padri della Chiesa esprimevano
sull’accidia e ha l’obbiettivo di mostrare che nella depressione c’è sempre una
responsabilità del soggetto che non va mai dimenticata. Essa coincide con la
difficoltà ad assumere, ad elaborare simbolicamente, il proprio fallimento, il
proprio insuccesso, la ferita narcisistica subita dalla propria immagine. Se
non sono l’Io che credevo di essere (narcisismo), nulla ha più senso di
esistere (depressione). Di fronte ad una cultura che sembra rigettare il valore
formativo dell’esperienza del fallimento e che insegue i miraggi del Nuovo e
del Successo, il ricorso alla violenza sembra apparire allora come un talismano
malefico per esorcizzare l’appuntamento fatale con la nostra vulnerabilità e
insufficienza dalla quale, poiché – come canta il poeta – dai diamanti non
nasce niente, potrebbero sorgere invece fiori nuovi. Quali e quante
sono le responsabilità dei media a fronte della creazione, perpetuazione e
divulgazione ossessiva di quelli che l’illustre psicoterapeuta definisce “i
miraggi del Nuovo e del Successo”? Responsabilità sociali enormi che
fanno dire ai volenterosi protagonisti di quei servizi televisivi – o della
carta stampata – ideati e realizzati dai soliti balordi, le stesse scempiaggini
da pensiero scarnificato che si sentono e sui vedono sui media da una parte all’altra
dell’Atlantico. Vittorio Zucconi ce ne rende testimonianza.
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