Tutti abbiamo avuto almeno un “maestro”
nella vita. Almeno. Da intendersi per “maestro” colui il quale “ti
aiuta a conquistare uno stile, ovvero il contrassegno di quello che sei in
quello che fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il tuo. I
grandi maestri (…) arano a fondo nel terreno dell’umano, sono primitivi e
inattuali, non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire dal
quotidiano, non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro
strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla”. Fine
della stupenda citazione, tratta da “Essere
insegnanti, divenire maestri” del professor Raniero Regni, apparsa sulla
rivista “School in Europe”. Miserevole colui il quale non abbia incontrato
nella sua vita almeno un “maestro”. Philip Roth ne ha scritto
– sul quotidiano la Repubblica del 5 di maggio 2013 - col titolo “Al mio maestro”. Un ritorno inatteso, e
sperato, alla scrittura del grande romanziere. Ha scritto Philip Roth: (…).
Il primo insegnante che mi trovai di fronte, la prima ora del mio primo giorno
all’Annex, fu Bob Lowenstein. Il dottor Lowenstein. Doc Lowenstein. Era fresco reduce dalla
seconda guerra mondiale, diversamente da quasi tutti i professori di liceo era
in possesso, senza darsi arie, di un dottorato, e quello che perfino un
dodicenne poteva capire era che si trattava di un uomo straordinario che non
tollerava di buon grado i cretini. (…). …non l’ho dimenticato. Chi l’ha
dimenticato a Weequahic? Come tutti i “maestri”. Difficile
dimenticarli, anzi impossibile. Ne ho scritto per personale esperienza. Pochi
sono essi, i “maestri”, capaci di riempire il cuore e la mente dei giovani
che la vita ha loro affidato. Ed il dottor Lowenstein è stato il “maestro”
per il grande scrittore. Scrive di seguito Philip Roth: Di
conseguenza, quando toccò a lui finire sbranato dalla crociata anticomunista
degli anni Quaranta e Cinquanta, seguii le sue vicende come meglio potei
attraverso gli articoli dei giornali di Newark che mi facevo ritagliare e
spedire dai miei genitori. Sin qui i ricordi del grande Autore. Apro
una parentesi per dire di quel fatto tragico che è stato il “maccartismo”
negli Stati Uniti d’America. Mi soccorre il grande Woody Allen – interprete - ed
il film – per la regia di Martin Ritt - che ha per titolo “Il prestanome”. Il film è del 1976. Narra di quel tempo e della "caccia
alle streghe" alla quale vennero spietatamente sottoposti gli
intellettuali di quel grande Paese. E si narra, in quello scenario tragico, di
un certo Howard Prince – Woody Allen - , cassiere in un bar della periferia
newyorchese, grande scommettitore ed abile bookmaker, che accetta di soccorrere
Alfred Miller - Michael Murphy -, sceneggiatore perseguitato per le sue sospette
"attività
antiamericane". È il “maccartismo” più feroce, per
l’appunto. Un delirio dei tempi. Il soccorso che Howard Prince offre all’amico è
di fare da “prestanome”, firmando i lavori letterari avendone per
ricompensa una percentuale sugli introiti. La scorciatoia, come suol dirsi, è
trovata. Altri scrittori in odore di “sovversione antiamericana” cominceranno
ad utilizzare il nome di Howard Prince per la pubblicazione del proprio lavoro
e ciò permetterà all’astuto profittatore delle disgrazie altrui di divenire ricco
e famoso. Ma i tempi scorrono cupi con l’inevitabile inverarsi di dirompenti e
tragici casi umani, come sarà il suicidio dell'attore Hecky Brown - Zero Mostel
-, che aprirà una breccia nella disincantata coscienza di Howard Prince, un
uomo senza ideali e senza scrupoli. Fino a quando egli stesso non verrà
sottoposto alla sorveglianza della "Fredom Information" e denunciato alla
commissione per le attività antiamericane. È il ricordo caro dell’amico Hecky e
del suo disperato atto finale di rinuncia alla vita che gli daranno la forza
per trovare una risposta di dignità ritrovata da esibire ai delatori
professionali di quella tragica stagione della storia americana. Questi i crudi
“fatti” ai quali rimanda – per chi ne abbia memoria - lo scritto di Philip
Roth: Non ricordo come ci ritrovammo negli anni Novanta, più di cinquant’anni
dopo che mi ero diplomato al Weequahic High. (…). Bob per me è una delle voci
persuasive che ancora sento parlare. I suoi discorsi erano permeati del sapore
intenso del reale. Come tutti i grandi insegnanti, personificava il dramma
della trasformazione attraverso la parola. (…). Bob è stato il modello di un
personaggio di primo piano del mio romanzo “Ho sposato un comunista”, un libro
del 1998 in
cui rievocavo il periodo anticomunista a cui ho accennato in precedenza e la
crudeltà e la ferocia con cui persone come Bob vennero sbranate con le unghie e
coi denti dalla marmaglia al potere all’epoca. (…). Il tema di “Ho sposato un
comunista”, in fondo, è l’educazione, l’insegnamento, il rapporto
mentore-allievo: in particolare un adolescente diligente, zelante e
impressionabile che impara come diventare — e anche come non diventare — un
uomo coraggioso, onesto ed efficace. Non è un compito facile, come sappiamo,
perché ci sono due grandi ostacoli: l’impurità del mondo e l’impurità di se
stessi, per non parlare delle enormi imperfezioni di intelligenza, emozione,
lungimiranza e giudizio di un individuo. (…). Ora non sto parlando
dell’educazione di un ragazzo, ma dell’educazione di un adulto: l’educazione
alla perdita, al dolore e a quell’inevitabile componente della vita che è il
tradimento. Bob era fatto di ferro e resistette all’atrocità dell’ingiustizia
con un coraggio e una prodezza straordinari, ma era un uomo e provava i sentimenti
di un uomo, e quindi soffrì anche. (…). Concludo con qualche riga dalle prime
pagine di “Ho sposato un comunista”, dove descrivo l’immaginario professor
Ringold, meglio noto nel mondo al di fuori della pagina scritta come Doc
Lowenstein: «Negli atteggiamenti e nelle pose era assolutamente naturale, ma
nel parlare piuttosto prolisso e, sul piano intellettuale, quasi minaccioso. La
sua passione era spiegare, chiarire, farci comprendere, col risultato che ogni
argomento di cui parlavamo veniva smontato nei suoi elementi principali con una
meticolosità non inferiore a quella con cui divideva le frasi sulla lavagna.
(...). Il professor Ringold portava con sé in aula una carica di viscerale
spontaneità che, per dei ragazzi come noi, docili ed educati al rispetto,
ragazzi che dovevano ancora comprendere che obbedire alle regole del vivere
civile dettate dall’insegnante non aveva nulla a che vedere con lo sviluppo
mentale, fu una rivelazione. C’era più importanza di quanto, forse, lui stesso
immaginasse nell’accattivante abitudine che aveva di tirarti il cancellino
quando la risposta che davi non colpiva il bersaglio. (...). Si sentiva la
forza, in senso sessuale, di un insegnante liceale come Murray Ringold (maschia
autorevolezza non viziata da commiserazione), e si sentiva la vocazione, in
senso sacerdotale, di un insegnante come Murray Ringold, che non si era perso
dietro l’amorfa aspirazione americana di sfondare, e che — diversamente dagli
insegnanti di sesso femminile — avrebbe potuto scegliere di fare qualunque cosa
o quasi e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi
a noi. Per tutta la giornata non voleva far altro che occuparsi dei giovani che
poteva influenzare, ed era dalle loro reazioni che ricavava la sua massima soddisfazione».
Addio, stimato mentore. Dobbiamo al grande Woody un aforisma terribile
sugli insegnanti. Lo si ritrova nel Suo straordinario film “Io e Annie” dell’anno 1977: - Ricordo il corpo insegnante della mia
scuola pubblica. Sapete, avevamo un detto: chi non sa far niente insegna e chi
non sa insegnare insegna ginnastica. Quelli che neanche la ginnastica, credo li
destinassero alla nostra scuola -. Ma parlava il grande Woody
semplicemente degli insegnanti, non già dei “maestri” che, quando
li si incontra, non “inducono a fare la loro strada, ma invogliano a cercare liberamente
ognuno la sua e percorrerla”.
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