Ha scritto Ilvo Diamanti su la
Repubblica del 24 di giugno – “Perché
abbiamo bisogno di politica” -: (…). …viviamo tempi provvisori. Di
passaggio. Verso non si sa dove né cosa. Sicuramente, senza più futuro. Perché
il futuro è stato abolito, dal nostro linguaggio e dalla nostra visione. Finite
le ideologie, che sono narrazioni di lunga durata. Oggi tutto è marketing.
Storie e slogan. Da rinnovare di continuo. Il futuro: se ne sta fuggendo
insieme ai giovani. D`altronde, siamo tutti giovani. Adulti e anziani: non
invecchiano mai. Nessuno accetta lo scorrere del tempo. Così i giovani, quelli
veri, se ne stanno sospesi. Sono una generazione né-né. Né studenti né
lavoratori. (…). È questo senso di “provvisorietà”, di precarietà
personale ma anche sociale, che mi crea da giorni il cosiddetto blocco dello
scrivere. A cosa serve continuare a scrivere su questo blog se la “provvisorietà”,
la precarietà ci hanno come inghiottiti tutti lasciandoci senza futuro, senza
speranza? È da giorni che, come un insetto molesto, questo pensiero mi “ronza”
nella mente. Capisco però che cedere, lasciarsi andare, è come darla vinta a
quella strategia della “distrazione di massa” che ha
portato anche a quello stadio, forse irreversibile, che definisco da tempo di “scarnificazione”
del pensiero collettivo. È quel che è avvenuto. È quello che si voleva che
avvenisse. È contro questa strategia che bisognerebbe mobilitarsi. Lottare. Poiché
la “scarnificazione”
del pensiero, seppur non dichiarata come strategia dell’”antipolitica” al potere,
è da tempo nell’aria, impregna i nostri pensieri ed i nostri difficili giorni.
Ed il primo degli obiettivi di quella strategia è stata la “Politica”, quelle buona,
ovvero l’altra politica invocata. “Scarnificandone” il pensiero
complesso che, nella “Politica”, è sempre complesso. Non ha semplificazione
alcuna. Non ammette scorciatoie. Definendo, per dirla con Diamanti, come “finite
le ideologie, che sono narrazioni di lunga durata” e riducendo la
complessità del pensiero della politica ad un disgustoso “marketing”. E dopo aver
dichiarate morte le ideologie ne veniva di conseguenza che si potessero
dichiarare superate, anacronistiche, morte quelle organizzazioni che nel tempo
hanno dato sostanza al pensiero complesso della politica, i partiti. Ha scritto
Furio Colombo su “il Fatto Quotidiano” del 16 di giugno – “Storie di uno. La politica ostaggio dei singoli” -: Il
capitolo della storia politica italiana su cui sto riflettendo oggi comincia
con Bossi e – al momento – arriva fino a Grillo. (…). Diciamo che questa breve
storia si apre con Berlusconi che “scende” in un campo che inventa lui, e nella
sua saga one man si trascina dietro vari modelli di partito e pattuglie
intercambiabili di personale dipendente, attraverso decenni. E arriva a Grillo
che si annuncia da solo, arriva da solo, e resta solo dopo la vittoria, pur
avendo portato al seguito, dal nulla, nove milioni di elettori. Di Berlusconi
sappiamo tutto, arriva munito di una ricchezza oscura, usa il privilegio, poco
capito (o volutamente ignorato) di un immenso conflitto di interessi che ne
genera continuamente altri (e potere, e profitto), vive la vita politica come
uno sceneggiato che si gira in tempo reale con piena libertà di aggiungere o
togliere battute, o di smentirle liberamente. Di lui resterà memorabile non la
vastità e il peso del dominio esercitato, ma la straordinaria e inspiegabile
sottomissione dell’intera classe politica e di una vasta parte della
corporazione giornalistica. Ed è la prima figura - o maschera - nella
breve storia di Furio Colombo, maschera che, come nella migliore tradizione
della commedia dell’arte, ha calcato le tavole di quell’avanspettacolo che ha
condotto inesorabilmente alla “scarnificazione” del pensiero
collettivo sottostante alla buona “Politica”. Ed ecco avanzarsi la seconda
delle maschere – secondo Furio Colombo - dell’”antipolitica” al potere:
Il
gioco di Bossi non è stato molto diverso: mettere insieme ed esibire in modo
esasperato ed esagerato i peggiori sentimenti di rivalsa e vendetta di un
gruppo di persone senza reputazione, e vedere l’effetto che fa. Nel vuoto
culturale ha fatto effetto. Ma era troppo grossolano e misero per poter
continuare, fino a che ha fatto il patto di Arcore nelle cene del lunedì e ha acquisito
una vita in simbiosi, libera da preoccupazioni economiche e in grado di
beneficiare dello stesso clima di intimidazione e sottomissione giornalistica
imposto e goduto da Berlusconi. Ma Bossi non è un partito, è una vita di
espedienti che si è agganciata in tempo a un livello molto più alto e più
grande di imbroglio. (…). Ed infine la terza tragicomica maschera presentata
da Furio Colombo, di quella che è oggigiorno la politica “scarnificata” e contro
la quale, a parole almeno, il movimentista si mobilitava con inusitata
violenza: Grillo è arrivato a mani piene (persone e promesse) ma mai nessuno
nonostante i seguaci, ha realizzato programmi o promesse senza dare ruolo e
valore e senso al lavoro di chi si è offerto di partecipare ed è stato eletto.
Governare attraverso ordini indiscutibili uccide, e si può solo aspettare. E
dunque ci resta solo un’interessante “storia di Grillo” ma niente da scrivere,
per ora, sul Movimento Cinque stelle. Forse in questo schema (storie di
persone, ma non di movimenti e partiti) sta il nocciolo pericoloso della crisi.
Molti personaggi si aggirano, con buone e con cattive intenzioni, per le strade
deserte di un Paese spaventato che non può più mettere niente in comune,
neppure la paura. Un paese impaurito. Un paese disorientato. Ascoltavo
giorni addietro, nelle mie rare scorribande tra le onde della radio sempre più
infide e “scarnificate”, Flavia Perina – già direttore del “Secolo
d’Italia” e transfuga con Gianfranco Fini - lamentare la “pochezza” della sua
parte politica che così facilmente si era lasciata come fagocitare da una
politica d’assalto, contravvenendo e contrabbandando i propri dettami della “legge”
e dell’”ordine” per associarsi spensieratamente e spudoratamente ad
una politica di “rapina” dei novelli predoni. Un tardivo, colpevole
ripensamento. Chiude Ilvo Diamanti il Suo “pezzo” sul quotidiano la Repubblica:
È
questo il nostro problema più grande, oggi: l`abitudine alla
"precarietà". La rimozione del futuro. Perché il futuro è passato.
Emigrato. All`estero. E ci ha lasciati qui. Sempre più vecchi, ma incapaci di
ammetterlo. Noi, passeggeri di passaggio in questo Paese spaesato: abbiamo
bisogno di Politica. Perché senza Politica è impossibile prevedere. Progettare
il nostro futuro. E senza prevedere, senza progettare o, almeno, immaginare il
futuro, senza un briciolo di utopia: non c`è Politica. Ma solo
"politica". Arte di arrangiarsi. Giorno per giorno. Ma come “prevedere”,
come “progettare” un futuro che sia a questo disastrato paese senza
un pensiero compiuto, anche complesso, ché solo i partiti di quella che è
divenuta oramai sterile “memoria”, prima d’essere anch’essi “scarnificati”,
amorevolmente coltivavano? Di quella “memoria” forse perduta se ne fa
interprete e testimone Furio Colombo quando scrive: Qual è il vecchio senso? È il
muoversi relativamente compatto e omogeneo di tante persone, cittadini,
famiglie, padri e figli, insegnanti e allievi, persone del mondo creativo (le
canzoni) e di quello organizzativo (i sindacati) che più o meno hanno un punto in
comune all’origine, vedono o immaginano un punto comune da raggiungere e si
muovono cercando, anche con un po’ di aiuto reciproco, di percorrere la stessa
strada. Non per disciplina (non tanto, non sempre). Ma per adesione e
persuasione, reclamata anche in pubblico. Sto parlando, naturalmente, di
qualcosa che ha a che fare con la costellazione comunista e la costellazione
cattolica. Entrambe hanno salvato il legame con la Resistenza e la
Costituzione. Entrambe hanno impedito a questo solo Paese europeo di essere
laico e di esplorare senza pregiudizi, né distruttivi né infatuati, i territori
del liberalismo. Tutto quello che è accaduto dopo, fino ai giorni che stiamo
vivendo e patendo senza sapere e senza capire, è l’avventura individuale di
alcuni personaggi. Si può scrivere e illustrare la loro storia, sapendo che è
quella storia che conta. Ma non “il partito” o “il movimento” che proclamano di
avere creato, che nasce e che scompare (o finisce di contare) con loro. È
forse anche la fine della Storia, che muore con la “memoria” non più condivisa.
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