(…). Quanto viveva il pre-uomo
dei paleontologi? Se arrivava a vent'anni era molto, poi qualche animale
selvatico con denti enormi s'incaricava di togliergli le pulci. Milioni d'anni
di vita breve ci hanno educati a comprendere meravigliosamente l'infinita
sacralità della morte, a collocare la reale durata della vita in un ignoto
Altrove. Un mattino del secolo in cui gli attuali longevi sono nati, ci siamo
svegliati, ed ecco la sacralità della morte era sparita, il suo nome diventato
impronunciabile, un delirante apparato medico-chirurgico a sbranarne i resti, a
far vivere in coma di spavento senza limiti di durata uno stuolo di sventurati (…).
La morte desacralizzata si vendica: “Ah, avete cambiato le regole, e allora
godetevi l'accanimento, le dialisi senza fine, gli Alzheimer senza barlume, i
trapianti d'organi strappati a ragazzini sani venduti per fame e trafficanti da
immonde Tortughe di malavita!”. Un segno di disumanità della cosiddetta
politica, uno dei tanti: non preoccuparsi che dei giovani, senza altro saper
fare per loro che condannarli al lavoro, al salario, alle riunioni di
condominio, a riprodurre in anime innocenti l'infelicità e i vizi dei loro
padri e madri. Ma ehi, la Vita, cosa dichiari ai controlli? Questa
moltiplicazione insensata e tragica di vecchiaie perché non entra nelle
diagnosi dei predicanti? (…). E tutti ci curiamo per durare di più, perché
tutta la ricerca, minimamente interessata alla restitutio in integrum
dell'essere umano, è massimamente occupata dalla conservazione indefinita di
corpi malati in condizioni esistenziali e ambientali che non abbiano speranza
di migliorare. Perciò la vecchiaia è la patologia sociale per antonomasia; una
società che non voglia essere di assassini legali è obbligata a farsene carico,
e allora l'assassinio assume la grinta dell'assistenza seminegata, tinta o
impregnata di sadico, gridante carenze sempre, o fondata sulle possibilità
individuali di spendere senza limiti il risparmiato. Ma l'essere o no
maltrattati o mal-tollerati dipende da più o meno di sfortuna; va meglio in
rari casi di affetti perduranti, di simpatia alonante. Così Guido
Ceronetti su “il Fatto Quotidiano” del 10 di maggio col titolo “Longevità, patologia sociale”. Ed ora
la storia. Conosco A. E., come suol dirsi con una ricorrente esagerazione, da
una vita. Ma lo conosco bene. Ho saputo sin dal principio del suo convivere con
il Wolf, una sindrome che gli ha tenuto sinora compagnia ma della quale aveva
imparato a fidarsi. È che negli anni il suo Wolf, da tutti i luminari incontrati
in passato definito del “tipo buono”, aveva smesso di fare
le bizze iniziali e così ci conviveva come con un amico che è preferibile
tenersi buono. E così i rituali controlli annuali e le terapie dispensate e
doverosamente assunte. Wolf aveva cominciato ad annunciarsi sulla trentina di
A. E., giusto per dare valore alle tabelle ed alla casistica medica. Tutto in
regola, tutto nella norma. Oggi A. E., andato avanti negli anni, 6*, è sulla
settantina, come suol dirsi. Ha incontrato, giusto nei giorni scorsi – ma ci
son voluti giorni e giorni prima che me ne parlasse –, l’ultimo dei luminari.
Una scelta nuova, diversa dai precedenti specialisti che lo avevano sinora visto.
Mi ha raccontato di avergli parlato di sé e del suo Wolf, della esperienza
maturata in un buon trentennio abbondante. Come in tutte le altre occasioni di
visite mediche. Solo che questa volta si è sentito rispondere dal nuovo
luminare: - Bene, bene. Ma lo sa che lei
è a rischio di morte improvvisa? -. “Morte improvvisa”! Che botta! E mi
ha raccontato di non aver provato, incredibilmente, timore alcuno, di non aver
pensato per nulla a sé stesso, alla nuova condizione della sua esistenza ed
alla sua vita, così sacra secondo alcuni, esposta a rischi tali da poter essere
interrotta all’improvviso da quel Wolf definito da tutti del “tipo
buono”. Mi ha detto che il suo pensiero è andato subito ad un amico
carissimo, F. L., recentemente scomparso di “monte improvvisa”. Ché
F. L. non fosse, inconsapevolmente, anch’egli in compagnia di un Wolf del “tipo
buono”? Non ci sarà mai una risposta. E dopo la botta, mi diceva, un
distendersi di pensieri. Lunghi. Non ultimo, uno in particolare: - Ma guarda un po’ che fortuna mi portavo
dietro. Nel mazzo di carte che la vita mi ha consegnato all’inizio della mia
esistenza c’era pure questa, una carta di libertà che se fosse possibile
ciascuno degli esseri umani dovrebbe possedere e tirare fuori al momento buono
e secondo le proprie convinzioni -. Come non dargli ragione. Quel suo
parlare, con pudore anche, mi ha fatto ricordare della riflessione di Guido Ceronetti.
Avrei voluto accennare, all’amico A. E., di F. L. ed della sua “morte
improvvisa”, ma ho lasciato cadere il discorso. Sul suo volto ho visto
passare come un’espressione di pace, quasi di raggiunta serenità, come se in
cuor suo avesse deciso di giocarsi sino in fondo la “carta” di quel mazzo che
la vita gli aveva preparato sin dall’inizio. Sfidando così le certezze
medico-scientifiche che gli assicurerebbero un futuro garantito. Di essere
umano risanato. E se poi… Avrei voluto parlargli, leggergli magari, la
riflessione di Guido Ceronetti; ho lasciato perdere. Senza rimorso alcuno.
Scriveva oltre quell’illustre Autore: (…). La nostra longevità ha un risvolto di
delitto perché la sperimentazione farmacologica costa lo sterminio di milioni
di piccoli, e a volte grandi, animali per museruolare e frenare il Tempo
divoratore. Si tratta di torture indicibili, si può dirlo un lavorare degno di
un uomo questo bell'incremento di Pil a prezzo di deboli lamenti dietro la
parete bianca, rossi semafori di carneficine in corso? Nelle case di cura la
concentrazione di vecchiaie spezzate dall'anca, dal femore, dal polso, dal
gomito, che vedi accompagnate negli ascensori, nei refettori, nelle palestre di
riabilitazione, è un continuo pugno di pietà. Esistono esclusivamente per
durare e per aver paura di quel che gli accadrà il giorno dopo. I figli li
tormentano perché non mangino “quel che gli può far male” e ubbidiscano alle prescrizioni:
temono di far trapelare il loro desiderio di accorciargli la vita, perciò li
cacciano sempre più spietatamente nella buca senza fondo della perseveranza nel
tempo. Amore non ne vedi, è impalpabile o del tutto inesistente negli infernali
rapporti familiari, il refrigerio dei sentimenti, della gratitudine manifesta,
nella società tecnologica è lingua mozza. I vecchi sono problema e niente,
niente, niente altro... Un problema. (…). I bambini ignorano che i vecchi sono
stati declassati a problema. Insolubile, s'intende. Un problema, riconosciuto
insolubile, si riscatta dalla facilità e dalla volgarità. Longevità in eccesso:
insolubilità sociale dal volto ambiguo. Il bambino, (…), sente nei vecchi la
vicinanza al luogo anteriore del nascimento, e questa è la ragione della sua
confidenza, anche per quelli non della sua famiglia. Noi vecchi siamo
consapevoli, ogni minuto lo siamo, ed è una tremenda sofferenza trovarsi
tuffati nella Rimozione, di essere costretti a fingere che più la nostra vita
di penuria e di noia si prolunga, più siamo felici di leccarne le impronte
sulla sabbia, che sono le stesse dell'Angelo Sterminatore. Vivere in Morte di
Dio è diventato difficilissimo, soltanto gli imbecilli (in verità molto
numerosi) non se ne accorgono. (…). Sono passati giorni da
quell’incontro con A. E., incontro che è divenuto quasi una confessione. A
tutt’oggi non ho avuto il coraggio di sapere – telefonandogli magari – delle sue
risoluzioni. Si sottoporrà all’ablazione del “fascio di Kent” – come
consigliato dall’ultimo luminare - o si giocherà sino all’ultimo la “carta”
che custodisce nel mazzo che la vita gli ha consegnato all’inizio dei suoi
giorni? Un bell’azzardo. “Az-zahr”, che per gli arabi
significa “dado”, per l’appunto. Poiché ha tanto il sapore di un azzardo,
di un giocare la vita ai dadi, qualsivoglia risoluzione A. E. giungerà a
prendere. Auguri a te, A. E.
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