“L’ultimo flagello
dell’antipolitica: tutti fanno tutto pur sapendo poco”. Ha così
titolato la Sua riflessione, sul Venerdì di Repubblica del 29 di marzo,
Massimiliano Panarari, politologo ed esperto della comunicazione. Sarebbe il
caso che le lancette dell’orologio del nostro tempo venissero portate indietro,
ovvero al tempo delle “irresponsabilità” di quel sedicente
ministro della “finanza creativa” che osava dire, con voce chioccia ed imperturbato,
come la “cultura” non desse da mangiare. O come amava asserire,
vantandosene, il “conducator” di quel tempo, tempo appena passato ma sempre pericolosamente
presente, di non avere letto un libro da un ventennio abbondante. E lo asseriva
con grande soddisfazione. Torna tutto – a conferma - nel solco di quella forma
di potere che vado definendo come “scarnificazione” del pensiero. E
torna tutto a disdoro di una “casta” dell’”antipolitica” al potere
che è stata asservita, ciecamente, ai dettami di quella “finanziarizzazione” dell’economia
e della vita sociale nel suo complesso che ha condotto l’intero pianeta negli
abissi della insuperabile, con gli strumenti attuali, “crisi”
economico-finanziaria e che ha impedito, peraltro, una visione delle condizioni
di vita e delle esistenze diversa. Laddove il “ben-essere” – sempre con
il trattino - della società nel suo complesso viene riposto esclusivamente –
con il Pil e quant’altro - nel consumo di beni e di cose a tutto detrimento
della sfera della conoscenza e di una più sana relazionalità tra gli esseri
umani. Scriveva l’Aretino (1304-1374) in una Sua lettera all’amico Giovanni
Anchiseo: Non riesco a saziarmi di libri, e sì che ne posseggo un numero
probabilmente superiore al necessario; ma succede anche coi libri come con le altre cose: la fortuna nel cercarli è
sprone a una maggiore avidità di possederne. Anzi coi libri si verifica un fatto singolarissimo: l’oro, l’argento, i
gioielli, la ricca veste, il palazzo di marmo, il bel podere, i dipinti, il destriero dall’elegante bardatura, e le
altre cose del genere, recano con sé un godimento inerte e superficiale; i
libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci
consigliano e si legano a noi con una sorta di famigliarità attiva e
penetrante. È certo che al tempo Suo non esistessero il Pil e lo
spread. Ma tant’è: agli uomini di ogni tempo quel che essi meritano. Ma la
felice intuizione di Massimiliano Panarari riporta alla mia mente la riflessione
dotta del professor Gustavo Zagrebelsky – “La
nostra Repubblica fondata sulla cultura”, sul quotidiano la Repubblica del
5 di aprile -: La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più
approfondite e settorializzate; dove, quindi, è inevitabile delegare ad altri
la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società
dove pressoché tutte le decisioni politiche hanno una decisiva componente
scientifica e tecnica, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Per prendere
decisioni democraticamente e consapevolmente in campi specialistici, chi non sa
nulla deve potersi fidare di chi detiene le conoscenze necessarie. Non in nome
della Verità, che non sta da nessuna parte, ma in nome almeno dell’onestà, che
può stare presso di noi. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in
primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni
intellettuali, la cultura come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e
convivenza sarebbe un corpo morto. È come mettere il dito in una ferita
resa purulenta. Nella ferita inferta al “pensiero” in quanto tale, laddove
l’”immediatezza”
e del “conoscere” purché sia ed al contempo del “non sapere” intuito da
Panarari, affondano, per annullarle, ben altre specificità che al pensiero
degli umani sono state legate per secoli e secoli. Continua il professor Zagrebelsky:
La
chat e i suoi fratelli – blog, twitter, social forum, newsgroup, mailing list,
facebook, messaggi immediati d’ogni tipo – appartengono al mondo
dell’istantaneità; i libri al mondo della durata. I messaggi immediati appartengono
alla comunicazione; i libri, alla formazione. La comunicazione vive
dell’istante, la formazione si alimenta nel tempo. La comunicazione non ha
onere d’argomentazione e non attende risposte. Il suo fine è dire e ridire su
ciò che è stato detto, per aderire o dissentire, senza passi in avanti. Il
libro – saggio, romanzo, poesia; cartaceo o elettronico – appartiene a un altro
mondo. Nasce e vive in un tempo disteso, di studio e riflessione. Se sul
bancone d’una libreria incontri L’uomo senza qualità o Moby Dick, innanzitutto
è come se ti chiedessero: sai quanto tempo ho impiegato a essere pensato e
scritto? E tu, quanto tempo e quanta concentrazione pensi di potermi dedicare?
L’invasione degli instant books è la conseguenza della medesima risposta a entrambe
le domande, rivolte agli autori e ai lettori: poco, molto poco, forse sempre
meno tempo e meno concentrazione. Ecco l’uomo “nuovo” che appare ben
delineato dai e nei progetti di coloro i quali detengono il potere di costruire
le società dell’oggi e del domani. L’uomo “nuovo” che non abbisogna di “concentrazione”
alcuna, e che dell’”immanenza” del pensiero degli umani, che ha contribuito a
costruire ciò che osiamo definire la “Memoria”, pensa di poterne facilissimamente
fare a meno. La “profondità” dell’Aretino è la moneta buona che è stata
scacciata, nel gran mercato degli umani, dalla moneta cattiva dell’”immediatezza”
del conoscere per conoscere estesa anche alla sfera delle loro relazioni. Conclude
l’illustre pensatore: Ma, allora, è chiaro che la sopravvivenza
del libro non è una rivendicazione a favore d’una élite di pochi fortunati
lettori. La diffusione della lettura non appartiene al superfluo d’una società
non solo, com’è ovvio, perché ha a che vedere con la diffusione
dell’istruzione. Siamo, infatti, pienamente nel campo della cittadinanza, cioè
della condizione di partecipazione attiva, consapevole e responsabile a quanto
c’è di più decisivo per la tenuta della compagine sociale, cioè la
partecipazione a una delle tre “funzioni sociali”: la funzione politica di
fondo, meno visibile ma, in realtà, nel formare mentalità, più determinante
della stessa azione politica in senso stretto, la quale, nella prima trova i
suoi limiti e i suoi fini. Si tratta, per l’appunto, della cultura.
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