"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 11 aprile 2013

Cosecosì. 50 “Tutti fanno tutto pur sapendo poco”.



“L’ultimo flagello dell’antipolitica: tutti fanno tutto pur sapendo poco”. Ha così titolato la Sua riflessione, sul Venerdì di Repubblica del 29 di marzo, Massimiliano Panarari, politologo ed esperto della comunicazione. Sarebbe il caso che le lancette dell’orologio del nostro tempo venissero portate indietro, ovvero al tempo delle “irresponsabilità” di quel sedicente ministro della “finanza creativa” che osava dire, con voce chioccia ed imperturbato, come la “cultura” non desse da mangiare. O come amava asserire, vantandosene, il “conducator” di quel tempo, tempo appena passato ma sempre pericolosamente presente, di non avere letto un libro da un ventennio abbondante. E lo asseriva con grande soddisfazione. Torna tutto – a conferma - nel solco di quella forma di potere che vado definendo come “scarnificazione” del pensiero. E torna tutto a disdoro di una “casta” dell’”antipolitica” al potere che è stata asservita, ciecamente, ai dettami di quella “finanziarizzazione” dell’economia e della vita sociale nel suo complesso che ha condotto l’intero pianeta negli abissi della insuperabile, con gli strumenti attuali, “crisi” economico-finanziaria e che ha impedito, peraltro, una visione delle condizioni di vita e delle esistenze diversa. Laddove il “ben-essere” – sempre con il trattino - della società nel suo complesso viene riposto esclusivamente – con il Pil e quant’altro - nel consumo di beni e di cose a tutto detrimento della sfera della conoscenza e di una più sana relazionalità tra gli esseri umani. Scriveva l’Aretino (1304-1374) in una Sua lettera all’amico Giovanni Anchiseo: Non riesco a saziarmi di libri, e sì che ne posseggo un numero probabilmente superiore al necessario; ma succede anche coi libri come  con le altre cose: la fortuna nel cercarli è sprone a una maggiore avidità di possederne. Anzi coi libri si verifica un  fatto singolarissimo: l’oro, l’argento, i gioielli, la ricca veste, il palazzo di marmo, il bel podere, i dipinti,  il destriero dall’elegante bardatura, e le altre cose del genere, recano con sé un godimento inerte e superficiale; i libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di famigliarità attiva e penetrante. È certo che al tempo Suo non esistessero il Pil e lo spread. Ma tant’è: agli uomini di ogni tempo quel che essi meritano. Ma la felice intuizione di Massimiliano Panarari riporta alla mia mente la riflessione dotta del professor Gustavo Zagrebelsky – “La nostra Repubblica fondata sulla cultura”, sul quotidiano la Repubblica del 5 di aprile -: La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove, quindi, è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società dove pressoché tutte le decisioni politiche hanno una decisiva componente scientifica e tecnica, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Per prendere decisioni democraticamente e consapevolmente in campi specialistici, chi non sa nulla deve potersi fidare di chi detiene le conoscenze necessarie. Non in nome della Verità, che non sta da nessuna parte, ma in nome almeno dell’onestà, che può stare presso di noi. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, la cultura come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza sarebbe un corpo morto. È come mettere il dito in una ferita resa purulenta. Nella ferita inferta al “pensiero” in quanto tale, laddove l’”immediatezza” e del “conoscere” purché sia ed al contempo del “non sapere” intuito da Panarari, affondano, per annullarle, ben altre specificità che al pensiero degli umani sono state legate per secoli e secoli. Continua il professor Zagrebelsky: La chat e i suoi fratelli – blog, twitter, social forum, newsgroup, mailing list, facebook, messaggi immediati d’ogni tipo – appartengono al mondo dell’istantaneità; i libri al mondo della durata. I messaggi immediati appartengono alla comunicazione; i libri, alla formazione. La comunicazione vive dell’istante, la formazione si alimenta nel tempo. La comunicazione non ha onere d’argomentazione e non attende risposte. Il suo fine è dire e ridire su ciò che è stato detto, per aderire o dissentire, senza passi in avanti. Il libro – saggio, romanzo, poesia; cartaceo o elettronico – appartiene a un altro mondo. Nasce e vive in un tempo disteso, di studio e riflessione. Se sul bancone d’una libreria incontri L’uomo senza qualità o Moby Dick, innanzitutto è come se ti chiedessero: sai quanto tempo ho impiegato a essere pensato e scritto? E tu, quanto tempo e quanta concentrazione pensi di potermi dedicare? L’invasione degli instant books è la conseguenza della medesima risposta a entrambe le domande, rivolte agli autori e ai lettori: poco, molto poco, forse sempre meno tempo e meno concentrazione. Ecco l’uomo “nuovo” che appare ben delineato dai e nei progetti di coloro i quali detengono il potere di costruire le società dell’oggi e del domani. L’uomo “nuovo” che non abbisogna di “concentrazione” alcuna, e che dell’”immanenza” del pensiero degli umani, che ha contribuito a costruire ciò che osiamo definire la “Memoria”, pensa di poterne facilissimamente fare a meno. La “profondità” dell’Aretino è la moneta buona che è stata scacciata, nel gran mercato degli umani, dalla moneta cattiva dell’”immediatezza” del conoscere per conoscere estesa anche alla sfera delle loro relazioni. Conclude l’illustre pensatore: Ma, allora, è chiaro che la sopravvivenza del libro non è una rivendicazione a favore d’una élite di pochi fortunati lettori. La diffusione della lettura non appartiene al superfluo d’una società non solo, com’è ovvio, perché ha a che vedere con la diffusione dell’istruzione. Siamo, infatti, pienamente nel campo della cittadinanza, cioè della condizione di partecipazione attiva, consapevole e responsabile a quanto c’è di più decisivo per la tenuta della compagine sociale, cioè la partecipazione a una delle tre “funzioni sociali”: la funzione politica di fondo, meno visibile ma, in realtà, nel formare mentalità, più determinante della stessa azione politica in senso stretto, la quale, nella prima trova i suoi limiti e i suoi fini. Si tratta, per l’appunto, della cultura.

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