"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 15 gennaio 2018

Terzapagina. 11 “L’Astenuto di sinistra del 4 di marzo”.



Da “La Storia non siamo (più) noi” di Marco Damilano, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 23 di novembre dell’anno 2017: (…). Il potenziale Astenuto di sinistra, il nuovo personaggio che avanza in vista della campagna elettorale, non passa più il tempo a pensare al futuro del mondo e dell’Italia. Ha deciso che basta così. Si prepara a disertare le urne. Disgustato, indignato, o semplicemente indifferente. È la fase dell’impolitica, l’ha definita l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky sulla Stampa, «la fase suprema dell’antipolitica, quando non si crede più neppure al populismo»: «L’antipolitica è un’energia che può essere mobilitata “contro”: i partiti, i politici di professione, la democrazia parlamentare, è un atteggiamento in un certo senso attivo. L’impolitica è l’esatto contrario: è un atteggiamento passivo, di ritrazione, di stanchezza. Un modo di dire: lasciatemi in pace». Un intellettuale lontano da Zagrebelsky come Ernesto Galli della Loggia è arrivato alle stesse conclusioni: «Certo, dietro l’astensione ci sarà in molti casi il torpore, l’eco tuttora viva di un antico qualunquismo. Ma sempre più spesso sembra di percepire in essa un sentimento ben diverso: qualcosa che assomiglia a una rassegnata disperazione. O forse meglio una disperata rassegnazione. La rassegnazione al vuoto politico», ha scritto sul Corriere della Sera (11 novembre). Un senso di stanchezza e di rabbia, o mancanza di fiducia nella politica e nella sua utilità, rilevato in tutte le ultime consultazioni elettorali: in Sicilia alle elezioni regionali del 5 novembre ha votato il 46 per cento degli aventi diritto; nel decimo municipio di Roma, a Ostia, addirittura il 36 per cento. Certo, si votava per il presidente e per il parlamentino di quelle che fino a qualche anno fa si chiamavano circoscrizioni. Ma tre anni fa, quando andò al voto la regione rossa per eccellenza, l’Emilia Romagna, il risultato non fu molto diverso: appena il 37 per cento dei votanti, nella terra dove la partecipazione politica è considerata un pezzo dell’identità individuale, non solo collettiva. Eppure in pochi, a sinistra, colsero il segnale di allarme. Anche perché i politici di ogni colore preferiscono contare i voti di chi va alle urne, non si interessano a chi resta a casa. Sbagliando, quasi sempre, ancora di più se a commettere l’errore sono gli strateghi delle varie formazioni di sinistra o di centro-sinistra. Perché è sempre più evidente che è lì, nel cuore dell’elettorato impegnato o post-impegnato, che si muove la tentazione del non-voto o comunque del disimpegno. Il Neo-disimpegnato di sinistra, oggi potenziale astenuto, nei decenni passati si è mobilitato per tutte le cause possibili: è stato via via operaista, ambientalista, femminista, pacifista, girotondino. Ha sfilato con la Cgil di Sergio Cofferati e con il movimento di Nanni Moretti, è stato anti-berlusconiano, prima ancora anti-craxiano e nella notte dei tempi, ormai, anti-democristiano, e ovviamente è stato comunista. Ha portato la lotta come una moda, ma in realtà è sempre stato moderato. Per una certa generazione il tempo si è fermato, forse, il giorno dei funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984, come è successo al personaggio del romanzo di Walter Veltroni “Quando”, che entra in coma durante le esequie di massa, l’ultima manifestazione autenticamente popolare del Pci, e si risveglierà trentatré anni dopo in un mondo mutato e irriconoscibile. «Era finito il partito, non quella voglia di cambiare il mondo, vero?», domanda inquieto nel romanzo Giovanni (in una precedente opera narrativa veltroniana di undici anni fa, “La scoperta dell’alba”, il protagonista si chiamava profeticamente Giovanni Astengo). In un’altra pagina Giovanni incontra il food, «ristoranti cinesi, indiani, giapponesi, thailandesi. Cibi prodotti nel rispetto dell’ambiente e degli animali. Per il suo sistema di valori, almeno nel mangiare, il socialismo, in questi trentatré anni, sembrava davvero essersi realizzato». Almeno a tavola, dove, si sa, finiscono le rivoluzioni. Il Neo-disimpegnato ha celebrato con riluttanza i quarant’anni del Settantasette e altrettanto si prepara a fare con i cinquant’anni del Sessantotto. Appagato di sé e del suo presente e futuro personale e professionale, (…), non ha più tempo e voglia di occuparsi del mondo che nel frattempo è sempre grande e terribile, ancor più di prima. Di fronte a questa impossibilità di capire e di provare coinvolgimento per quello che un tempo era la sfera delle passioni più forti, la politica, il Neo-disimpegnato preferisce ritirarsi nel suo lavoro, nella coltivazione di soddisfazioni minori e strettamente personali. E rifiuta di continuare a essere quello che è stato per molti anni: un punto di riferimento, una bussola di orientamento, qualcuno che aveva qualcosa da dire. Quel qualcosa oggi non c’è, non c’è più, e quel che c’è forse imbarazza dirlo: ecco perché molti intellettuali negli ultimi anni hanno scelto la strada del silenzio, dell’afasia che nasconde in alcuni casi una difficoltà di capire e il pudore di intervenire su questioni che non si comprendono più, in altri un adagiamento definitivo sulle comodità del tempo presente, le loro, sia chiaro, e sull’impossibilità di cambiarlo. C’è poi l’astenuto di sinistra per così dire militante. Il contrario del disimpegnato o del qualunquista. Quello che non va a votare per scelta, per segnalare la sua presenza, per partecipazione viscerale, la reazione ai tormenti esistenziali cui lo stanno sottoponendo da anni i massimi leader e i piccoli capetti della sinistra italiana. E che trova nelle cronache di questi giorni e di queste settimane nuovi motivi per stare lontano dalle urne.

domenica 14 gennaio 2018

Quodlibet. 48 “Una scuola che insegni a pensare”.



Da “Una scuola che insegni a pensare” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 14 di gennaio dell’anno 2017: Era l'auspicio di Kant, ma per realizzarsi ha bisogno di insegnanti autorevoli. E di genitori che smettan di sostenere l'indolenza dei propri figli. Al di là di tutte le riforme della scuola che immancabilmente si introducono a ogni cambio di Ministro, i mali della scuola sono arcinoti, ma non si vogliono vedere nonostante la loro evidenza. Il primo è costituito dagli insegnanti, molti dei quali o non conoscono la loro materia, o non la sanno comunicare nel modo giusto, o non sono abbastanza carismatici da affascinare i ragazzi che, solo se affascinati, trovano gusto e passione per lo studio. Quando si ha carisma, da cui deriva un'automatica autorevolezza, la disciplina non è un problema, e quando lo è, ciò è dovuto al fatto che il professore non è all'altezza del compito. Il secondo problema sono i genitori i quali, dopo che non hanno mai detto un no ai loro figli, e mai hanno chiesto loro un sacrificio, per non avere conflitti in famiglia, invece di riprovare la loro condotta indolente (eufemismo per non dir di peggio), riprovano la condotta dei professori che, con le loro valutazioni, richiamano i ragazzi a un minimo (e dico minimo) impegno. Facendo i sindacalisti dei figli, i genitori pensano di garantirsi il loro affetto e la loro stima, quando invece altro non garantiscono che un apprezzamento per la loro indolenza. Il diritto allo studio va assicurato solo a chi ha davvero voglia di studiare, dopo aver dato a tutti la possibilità di farlo e di assaporare il piacere e il sacrificio che lo studio richiede. Quanto alla filosofia è ovvio che, al pari delle lingue straniere, sarebbe utile praticarla fin dalle elementari, alle quali i bambini accedono avendo già avuto modo di porsi le domande filosofiche di quella stagione dei "perché" (4 anni), quando chiedevano: "Perché se la terra che è rotonda e gira intorno al sole, noi non ci capovolgiamo?", oppure: "Come fa a esistere Dio se non ha una mamma che l'ha messo al mondo?". Questo tipo di domande non ricevono mai una risposta seria e alla portata della loro età; i genitori non hanno mai tempo, o non sapendo come rispondere chiudono con: "Quando sarai grande capirai". Così il bambino interiorizza che le domande che fanno pensare non sono interessanti (visto che nessuno le prende in considerazione), per cui è meglio non porsele e vivere spensieratamente (senza pensieri, quindi da superficiali, per non dire da deficienti). La filosofia non è solo, e neppure soprattutto, una materia scolastica. È un atteggiamento, un modo di stare al mondo che stabilisce una differenza tra chi si pone problemi, non solo teorici, ma anche pratici, e cerca una soluzione, e chi non se li pone, e quando gliene capita uno non ha strumenti per affrontarlo e neppure capisce se è un vero problema o no. E questo vale anche per il dolore, a proposito del quale Eschilo diceva che "È un errore della mente". La mente, infatti, se ha solo quattro pensieri in testa, non ha strumenti per affrontare il dolore, oppure, ancor peggio, il dolore è tanto più acuto quanto meno si è capaci di relativizzarlo, dal momento che l'orizzonte della nostra coscienza è troppo angusto, perché ci si è tenuti per tutta la vita, e magari con orgoglio, lontani dalla cultura.

venerdì 12 gennaio 2018

Cronachebarbare. 49 “La scomparsa del ceto medio”.





Se dovessi dare una data e segnare quindi l’inizio del mio personale impegno a contrastare, nel mio piccolo, anzi nel mio “piccolissimo”, la “deriva” politico-istituzionale-sociale del bel paese troverei facilmente la risposta: 27 di giugno dell’anno 2003, allogato com’era questo blog su di un’altra piattaforma. A quella data risulta il mio primo post sfacciatamente “controcorrente”, da bastian contrario. Non che prima di quella data me ne stessi buono buono, zitto zitto. Avevo intuito, e non era una percezione ma una terribile consapevolezza, che l’eredità lasciata al bel paese dal latitante socialista in terra d’Africa sarebbe stata delle più disastrose in termini di tenuta e rinvigorimento degli istituti democratici e della vita associata. La cosiddetta nefasta “discesa in campo” – a datare dall’anno 1994 – aveva consolidato infatti la mia consapevolezza che tutto non sarebbe stato più come prima. Importanti, ingombranti ed inquietanti personaggi salivano sul podio di regia della cosa pubblica. Con quali interessi? Con quale formazione politico-istituzionale personale? Per fare cosa? Per un dovere storiografico, detto senza albagia, ma nel rispetto della storia piccola piccola, minima, minuta anzi, che ciascuno di noi è riuscito a scrivere in questi anni tormentati, trascrivo quel post del 27 di giugno dell’anno 2003: “A seguito delle singolari vicende parlamentari che hanno portato il Paese a dotarsi di una legge tutta speciale che vale solo per cinque persone. Stiamo smarrendo la nostra identità e con essa anche la possibilità di costruire una sempre più civile convivenza. La civile convivenza di un Paese, di un qualsiasi Paese di questo pianeta, deve avere dei tratti fondamentali che ne impregnino tutto il tessuto civile, le istituzioni, il ragionare collettivo che, seppur diversificato, riconosce in quei tratti fondamentali il suo tratto caratteristico, il suo collante indiscutibile. Trovo allora confortante proporre una "spiga d'oro" di un altro "grande vecchio", Paolo Sylos Labini, raccolta da una sua pubblicazione recente "Diario di un cittadino indignato". Essa, in un momento così difficile per il nostro Paese, potrà essere memoria e guida per una pronta riscossa: "(...). La cultura è l'elemento unificante di una società e nella cultura rientra l'arte. (...) Ma, per la società, non meno importante è l'onestà civile della gente di ogni livello; è l'onestà civile diffusa che rende vivibile una società. L' autostima a livello popolare e la stima degli altri paesi sono la base dell'amor di patria e dell'orgoglio di appartenere ad una comunità. Esortazioni, gare sportive e festeggiamenti non sono inutili, ma senza quella base sono addirittura dannosi, perché pongono in risalto il contrasto fra l'apparire e l'essere, e l'amor di patria, quando c'è ipocrisia, invece di crescere diminuisce ulteriormente. (...)”. Così scriveva Paolo Sylos Labini. Così la pensava quel grande vecchio. Siamo divenuti orfani oramai dei grandi Maestri. Da quella data, ma ancor prima, ne è venuto un impegno personale che a tutt’oggi non scema, sentendo sempre di più i sinistri rumori che avvertono di un “ruinare” della Italia. Un’unica grande consolazione: essermi ritrovato in numerosissima compagnia, di persone anche di grandissima levatura morale, intellettuale e civile. Sul versante della necessaria, ancor oggi, denuncia pubblica della nefasta opera di imbarbarimento delle istituzioni tutte derivante da quell’infausta “discesa in campo”, imbarbarimento che ha coinvolto anche la vita associativa nel bel paese, ho trovato interessante, a quel tempo – della sua pubblicazione - come al tempo presente, l’attenta analisi del professor Paul Ginsborg, analisi pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 16 di ottobre dell’anno 2010 – nello stesso giorno il testo veniva letto a Firenze nel corso  del convegno "Società e Stato nell’era del berlusconismo" - col titolo “La scomparsa del ceto medio”.  Di seguito la trascrivo in parte: